Nel suo rapporto a conclusione delle indagini sul Russiagate nel marzo del 2019 il procuratore speciale Robert Mueller scrisse che non poteva esonerare Donald Trump considerando 11 episodi identificati come intralcio alla giustizia. Mueller non raccomandò all’allora procuratore generale William Barr l’incriminazione del 45esimo presidente poiché due direttive del ministero di giustizia (1973, 2000) ritengono che un presidente in carica possiede immunità. Il procuratore speciale lasciò la porta aperta a una possibile incriminazione di Trump dopo essere uscito dalla Casa Bianca.
Trump riuscì a farla franca in quel caso come avvenne anche con i due impeachment subiti dalla Camera che però furono seguiti da assoluzioni al Senato. Adesso però con le udienze della Commissione della Camera sugli assalti al Campidoglio del 6 gennaio 2021 si ricomincia a parlare di possibile incriminazione di Trump. Nel suo discorso di introduzione ad una delle recenti audizioni, Liz Cheney, vice presidente del gruppo, ha identificato due statuti che l’ex presidente avrebbe violato. Il primo consiste di una cospirazione di defraudare gli Stati Uniti e il secondo di ostruzione a procedure congressuali.
La Commissione potrebbe a conclusione del loro lavoro raccomandare al Dipartimento di Giustizia di incriminare Trump per il suo operato di tentare il capovolgimento dell’esito elettorale del 2020 oppure pubblicare il suo rapporto dettagliando semplicemente le cause degli assalti al Campidoglio. Comunque sia, in caso di incriminazione, la decisione spetterebbe a Merrick Garland, Ministro del Dipartimento di giustizia, di mettere in atto o no la richiesta.
Garland sta seguendo le udienze pubbliche degli assalti al Campidoglio con attenzione. Nelle indagini sugli eventi del 6 gennaio 2021 il suo dipartimento ha già arrestato 840 individui, 250 dei quali sono stati incriminati di reati minori. Alcuni membri delle due milizie coinvolte, gli Oath Keepers e the Proud Boys, sono però accusati di sedizione. Questo reato potrebbe anche raggiungere i vertici di Trump. Si dovrà determinare con precisione se l’ex presidente sapeva delle attività di questi individui e fino a che punto lui li avrebbe guidati.
La Cheney ha pochi dubbi che Trump meriti di essere incriminato. Ha dichiarato che l’ex presidente sapeva di avere perso l’elezione ma mise pressioni sul vicepresidente Mike Pence per rifiutare i voti elettorali di alcuni stati. Ciò viola due statuti criminali. Si tratta di azioni illegali per ribaltare l’elezione che aveva perso e che molti dei suoi assistenti gli avevano ripetuto alla nausea.
Lo Stato della Georgia ha aperto un’inchiesta e ha già stabilito un gran giurì per l’interferenza di Trump nei suoi tentativi di ribaltare l’esito elettorale nel Peach State. La Cheney però si interessa agli Statuti federali che entrerebbero nelle competenze del Ministero di giustizia guidato da Garland. In America l’incriminazione di un ex presidente sarebbe cosa rarissima. La storia ci dice però che alcune situazioni del genere sono avvenute. Aaron Burr fu incriminato di tradimento dopo la fine del suo mandato nel 1807 quando Thomas Jefferson era presidente. Burr fu assolto dopo un processo molto teso. Anche Ulysses Grant fu arrestato per eccessiva velocità col suo calesse nelle strade della capitale. Più vicini a noi il vicepresidente Spiro Agnew si dimise nel 1973 in un patteggiamento per corruzione. Richard Nixon sfuggì all’incriminazione rassegnando le dimissioni per lo scandalo di Watergate nel mese di agosto del 1974 e il suo successore Gerald Ford gli concesse la grazia nel mese di settembre del 1974. Anche Bill Clinton sfuggì all’incriminazione per le false testimonianze nel caso di Monica Lewinsky. Patteggiò con la giustizia ma subì la sospensione della sua licenza di avvocato.
Il caso di Trump è molto più spinoso perché le sue azioni si avvicinano a un colpo di stato per cercare di ribaltare la sua sconfitta alle urne. Dovrebbe essere più facile l’incriminazione ma in realtà è molto complessa. Il ministero di giustizia dovrà essere quasi sicuro di avere le prove per convincere una giuria non solo del reato ma anche dell’intento malevole che lo ha scatenato. Trump ha sempre sostenuto che l’elezione gli è stata rubata e che tutti i suoi tentativi sono statti causati dal desiderio di giustizia. Il fatto che più di 60 ricorsi ai tribunali da lui iniziati siano stati respinti, persino quelli della Corte Suprema dove lui ha nominato 3 dei 6 giudici conservatori, non lo convince.
Il problema però per Garland va al di là della legalità. Un’incriminazione a Trump potrebbe scatenare seri disturbi civili poiché l’ex presidente rimane una potente forza politica. Ce lo confermano le recenti elezioni primarie dove un centinaio di candidati repubblicani hanno prevalso in parte per avere seguito la linea della “big lie”, la grande menzogna, ossia l’asserzione della sua vittoria presidenziale nel 2020. Se alla fine Garland dovesse decidere verso l’incriminazione dovrebbe consultare il presidente Joe Biden. La giustizia opera in maniera indipendente e l’attuale inquilino della Casa Bianca ha promesso e finora mantenuto le distanze dal sistema giudiziario, senza interferire. Riflette un grande contrasto con il suo predecessore. Trump, come va ricordato, vedeva il ministero di giustizia come un’agenzia subordinata ai suoi desideri che soddisfaceva i suoi interessi e non quelli del Paese. Quando Barr si rifiutò di dichiarare la frode elettorale nell’elezione Trump aveva considerato di rimpiazzarlo con John Eastman che gli aveva promesso di aprire inchieste sull’elezione del 2020.
Nell’incriminazione di Trump, Garland sarebbe costretto a informare Biden perché in casi giudiziari che coinvolgono la diplomazia o la sicurezza nazionale il potere giudiziario deve collaborare con l’esecutivo. Garland in un recente discorso di cerimonia delle consegne di lauree alla Harvard University ha detto che il sistema giudiziario “seguirà i fatti dovunque essi possano condurre”. Quando si tratta di probabili reati di un ex presidente i fatti si separano difficilmente dalle pressioni politiche. Alla fine però Trump merita l’incriminazione anche dal punto di vista di realpolitik: se la fa franca non farà altro che incoraggiare peggiori azioni nel futuro.
Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California. Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della National Association of Hispanic Publications.