Ho ritrovato Maurizio Pagliassotti, un tempo giornalista di Liberazione, nella sua Torino, dopo tanti anni. Presentava il suo volume più recente “La guerra invisibile” (Einaudi 240 pp. 18 euro), un testo, a mio avviso, duro, privo di speranze, ma necessario. L’autore lo rivendica nell’introduzione, “non c’è una parte costruens perché quanto ho avuto modo di vedere nel mio viaggio, non mi ha permesso di trovarla. Pagliassotti ha compiuto un viaggio di circa 6000 km, da Torino, dai confini con la Francia, fino all’Iran, ripercorrendo a ritroso le rotte degli uomini, delle donne e dei bambini che tentano di entrare in Europa e contro cui il nostro continente combatte da decenni una guerra silenziosa, invisibile appunto, ma cruenta e implacabile. L’autore si è mosso per molti tratti anche a piedi, dormendo nei pressi dei luoghi in cui le persone in fuga si rifugiano cercando di non farsi trovare dalle infinite forze di polizia messe a guardia della nostra fortezza. Lo ha fatto con una sensibilità e una consapevolezza rare da trovare, che colpiscono, commuovono anche, ma procurano soprattutto sana e profonda indignazione, forse (una pia illusione?) anche in chi ha inglobato il virus di una narrazione tossica e falsa piena di luoghi comuni: “vanno fermati”, “poverini, ma sono troppi”, “non possiamo farcene carico perché siamo diventati poveri noi” ed altre simili amenità. Insieme ai muri fatti di confini, di poliziotti ufficialmente impiegati a controllare le frontiere e di pensionati che (avviene in Ungheria) invece di dedicare il tempo ai nipoti, vanno a caccia di persone da respingere, da rimandare indietro, da catturare. La bravura di Pagliassotti è nel catturare testimonianze di ogni tipo, dai pochi solidali, a quelle di chi guarda senza batter ciglio le persone passare, anche se in difficoltà, a chi dichiara di poter gestire gli spostamenti a quelle micidiali di chi invece è in viaggio. Un viaggio che, man mano che ci si inoltra in un Cuore di tenebra 2.0 balcanico, in una versione meno fiammeggiante di “Apocalipse Now”, lascia in chi legge cicatrici, fa sentire uno iato enorme fra l’Europa dei diritti che ci raccontiamo pomposamente e quella che si dispiega in maniera cruda e priva di pietas nei sentieri. E arrivano storie che sembrano impossibili: due giovani iraniani, arrivati ai valichi francesi per raggiungere Parigi che hanno con sé due figli piccolissimi, uno di un anno, il secondo forse due. Alla domanda “dove sono nati?” la risposta è “in mezzo ai boschi”, uno forse in Grecia, l’altro, il più piccolo in uno dei vari pezzetti dell’ex Jugoslavia. Quanti bambine e bambini sono stati concepiti e sono nati in quei boschi. Nel libro si racconta come nei sentieri battuti si trovano in continuazione carte di caramelle e giocattoli. Perché i bambini piccoli spesso piangono e i loro vagiti potrebbero portare la polizia a intercettare le famiglie. A volte sono sufficienti questi accorgimenti, in altre occasioni si fa bere ai bambini alcool o si usano farmaci soporiferi. Essere scoperti dalla polizia significa essere rimandati indietro e non è possibile permetterselo. In altre occasioni, racconta Pagliassotti, le famiglie portano con se cuccioli di animali, sia per il legame affettivo sia perché le guardie di frontiera, gli agenti di ogni tipo si lasciano intenerire dai cuccioli più di quanto accada con i bambini. E magari chiudono un occhio e ti lasciano passare. invece delle domande scontate e fondamentalmente stupide tipo “da dove vieni?” che rivolte a chi è partito adolescente dall’Afghanistan ed è in Europa già adulto, l’autore sceglie di farsi raccontare scampoli di vicende personali, frammenti di vita e attraverso questi ci racconta l’ipocrisia di classe su cui si fonda la nostra fortezza. Ad alcuni, ritenuti utili come braccia da sfruttare, come corpi da vendere, come strumenti, si permette di passare, pagando ogni volta, si intende, mentre per altri scatta immediatamente una tagliola. E si frantuma nei racconti anche la rozza bugia che alimenta la vita politica italiana. Nessuno o quasi vuole restare in quelli che vengono chiamati “i paesi in cui si raccoglie la frutta”, come il nostro. Il sogno è la Germania, i paesi scandinavi, il Regno Unito, in misura minore la Francia, dove ci sono parenti, amici, opportunità, al punto che non importa se il viaggio dura tanti anni, non importa se ci si congela i piedi ai valichi alpini o se si viene pestati in Slovenia o Croazia. Tutto si sopporta, l’importante è arrivare. Ma la guerra silenziosa continua, implacabile, miete vittime, respinge migliaia di persone che neanche fanno il clamore – a cui peraltro siamo ormai abituati – di un naufragio, vince il silenzio dei boschi dove neanche la morte fa rumore, lascia segni. Il quadro che emerge da questo libro è quello di un’Europa uccisa dai propri padroni e dai propri fondatori ma, soprattutto, dal silenzio complice e connivente di chi accetta questo stato di cose, di chi si volta dall’altra parte. “La guerra invisibile” è uno di quei testi, di quei pochi testi che ti impone di non poter più dire “io non sapevo”. Gli scenari infernali qui descritti sono parte della nostra storia di continente in guerra contro il presente e contro il futuro, contro la stessa idea di umanità. Siamo noi, è il nostro volto privo di trucco e di Photoshop.
Stefano Galieni