di F.F. –
Nella sinistra statunitense che ha sostenuto Bernie Sanders ha avuto successo un
libretto che si intitola ambiziosamente “Rules for revolutionaries. How big organizing
can change everything”, di Becky Bond e Zack Eley. Gli autori hanno partecipato alla
gestione organizzativa della campagna per Sanders. Tutte cose pratiche: raccolta
fondi, gestione della comunicazione, organizzazione della partecipazione dal basso. Le
indicazioni che danno sono solo parzialmente utilizzabili in realtà diverse da quella
statunitense ma il principio di fondo che li ispira invece credo che vada assunto.
Occorre una grande organizzazione con grandi obbiettivi e con un messaggio che
abbia senso. Naturalmente sarebbe difficile dire che si aspira al contrario. Ma il punto
è che per raggiungere questo obbiettivo “invece di chiedere il cambiamento che i
politici pensano sia possibile, dobbiamo chiedere il cambiamento che è necessario per
risolvere i problemi. E questo deve essere necessariamente grande”.
In che modo si può applicare questo principio, che qui ho necessariamente
semplificato, in una realtà come quella italiana?
Intanto penso che ci siano due premesse su cui ragionare (sottolineando che non
pretendo di asserire delle verità, ma solo provare a rivedere la situazione in una
prospettiva più ampia).
La prima è che il sistema politico italiano e il sistema sociale sottostante non
corrispondono del tutto a quello degli altri paesi europei occidentali. Per più versi sono
assimilabili ai paesi dell’est Europa, perché anche qui gli ex comunisti sono diventati
liberisti e l’anticomunismo è una costante ideologica del discorso pubblico anche in
assenza di comunisti. Per altri versi è equiparabile all’America Latina, per la
frammentazione del tessuto sociale, l’indebolimento delle organizzazioni di
intermediazione, la debolezza dei partiti strutturati e l’emergere di pulsioni populiste
di vario profilo.
La seconda premessa è che le forze politiche attualmente in campo (PD, 5S, Italia
Viva) non sono in grado di costruire un’alternativa elettorale al centro-destra.
Governano nel vuoto, per usare una formula di Peter Mair. Sono suddivise tra almeno
tre prospettive diverse. Quella ultraliberista di Renzi che non ha una base sociale
sufficiente. Quella di populismo post-ideologico dei 5 stelle che sta perdendo il popolo
per strada. E poi quella del PD che ha due problemi: il primo che essendo in buona
parte un’aggregazione di potere fa implodere la strategia nella tattica (esempio il
rapporto con i 5stelle). La scelta tattica, magari improvvisata, viene immediatamente
elevata a strategia, fino alla prossima scelta tattica; il secondo è che è il partito dei
ceti sociali garantiti, quindi incapace di parlare a quello che potremmo definire “il
popolo delle paure” (paura dell’immigrazione, paura maschile del protagonismo
femminile, paura dei ceti medi di essere declassati, ecc. ecc.). Per questo popolo
funziona la logica delle catene di equivalenze, di cui parla Laclau, anche se in una
direzione politica opposta a quella auspicata dal pensatore argentino.
Dal punto di vista della sinistra radicale tutto questo pone una serie di problemi di
definizione di strategia. La via portoghese ad esempio presuppone tutta una serie di
condizioni del sistema politico, non solo la formazione di partiti di sinistra radicale di
medie dimensioni, che sembrano in larga parte irrealizzabili. Un’altra strada potrebbe
essere quella di una nuova coalizione tra sinistra e centro-sinistra, con rapporti di
forze modificati. Questa strategia si scontra con la natura sociale e politica assunta dal
PD e col fatto che la sinistra radicale si è da un lato polverizzata, dall’altro si è sempre
affaticata ad acconciarsi ad un ruolo subalterno di satellite marginale. Ci si allea col PD
o, peggio mi sento, si entra nel PD, in questo modo si rende impossibile la conquista
di quei ceti popolari che non votano il PD ma nemmeno i suoi satelliti. Col risultato che
non si porta nessun voto in più di quelli che il PD prende anche da solo.
Il quadro per la sinistra radicale è complicato e le forze sono poche. Il rischio vero è
che si incorra nel difetto che una volta segnalava Ingrao quando diceva che “partiti
piccoli hanno pensieri piccoli”. Non è del tutto vero che poi vi siano pensieri piccoli, ma
è abbastanza vero che si rincorrano “piccole tattiche”. In questo caso il principio del
prima sopravvivere e poi filosofare non vale. Perché la percezione fuori di noi è
esattamente quella: che siamo impegnati nella nostra sopravvivenza, ma che questa
non ha effetti pratici nella vita quotidiana delle persone, anche di quelle che pure
potrebbero essere d’accordo con noi.
La costruzione di un soggetto politico della sinistra alternativa, può derivare solo da
una ridefinizione di una “grande strategia”, che non è ovviamente una mera
elencazione di valori e di buoni propositi. Significa che dobbiamo porci concretamente
in una prospettiva, sul piano elettorale che non è l’unico che conta, di conquista del
51%. Se si resta nell’ottica di come passare dal 2 al 3% (che è già ottimistico) si
finisce per scendere allo 0,5%. Per porsi il problema di diventare maggioranza occorre
porsi il problema non solo di ricostruire la “sinistra radicale” ma di ricostruire anche
una “grande alleanza popolare” dentro la quale si ritrovino anche altri pezzi di società.
Sapendo che il PD come i 5stelle sono oggi di ostacolo più che di aiuto per questo
obbiettivo. Grandi problemi, grandi soluzioni, grande organizzazione è l’insegnamento
per i rivoluzionari che ci viene dagli Stati Uniti. Per questo occorre una “grande
strategia”.