articoli

Di testa, di cuore, di pancia: note a margine di un autunno che ha i colori della primavera

di Rosario
Carpentieri

I conflitti sociali, le pratiche di opposizione, le forme di disobbedienza – civile o incivile, poco  importa -, il rifiuto di ogni forma di complicità con le dinamiche del potere – fosse anche solo per  tatticismo politico – si mostrano tanto più radicali quanto più ne portano allo scoperto le radici. E  sono radici che scavano in direzioni imprevedibili, cercando parole che, lontane da ogni retorica,  ne stabiliscano adeguato linguaggio, non quello occasionale e di breve durata, ma quello che  irrobustisce il tronco e i rami che da quelle radici traggono alimento.
Neppure il più lungimirante tra i cultori di cose politiche avrebbe potuto prevedere intere città  travolte da un fiume umano che prendeva la parola per quanti l’accesso a quel diritto era stato  negato, e con il diritto alla parola era stato negato loro anche il diritto alla vita. Quel fiume umano  prestava la sua voce e il suo corpo a coloro ai quali quella voce e quel corpo erano stati annientati.
Farne l’analisi appare vana pretesa, non solo perché esserci dentro col cuore, con la mente, con gli  umori rende impossibile quel necessario passo laterale che le permette di averne piena visione, ma  anche perché chi proviene dal ‘900 sente che si è di fronte a qualcosa di completamente nuovo e  descriverlo con parole usate e forse anche un po’ abusate si farebbe torto alla sua natura e al suo  carattere. Allora parlarne significa anzitutto comprendere quel lessico minimale ed estremamente  potente che si leva dalle piazze e che orienta ogni nostra attenzione.
Agostino avrebbe detto “si deve nascere di nuovo” e ciò che si è mostrato nella sua inizialità è una  nuova nascita. Non la ripetizione di altre nascite e altri inizi, da tempo consegnati ai percorsi della  memoria. È un inizio e come ogni inizio avrà bisogno di tempo per esprimersi con tutta la sua  ricchezza, anche se un primo assaggio l’ha offerto riempiendo le strade di esuberante giovinezza.  Inutile richiamare, per analogia, altre esperienze: in ogni suo gesto, in ogni sua movenza del corpo,  in ogni sua parola fa orgogliosamente mostra di sé la sua singolarità. Non ha chiesto il permesso  per entrare nelle nostre quotidianità e non ne ha occupato uno spazio marginale, ma vi ha fatto  irruzione dalla porta principale occupando ogni spazio incontrato sui suoi passi, chiamando con il  suo nome tutto quanto si pretendeva dissimulato da una retorica inconcludente e a corto di  argomenti. 

Come tutto ciò che è nuovo, ha molti nemici: quelli di fuori, i soliti, ma anche qualche nuova  aggiunta che vede in tale inizio una occasione che può tornare utile; ma anche quelli di dentro, che  vorrebbero che il tempo scorresse a ritroso, facendo di questo inizio il continuo di altre storie ormai  concluse. Nulla si ripete e l’inizio non vuole essere confuso con il concluso. “Lasciate che i morti  seppelliscano i morti”, diceva qualcuno; dove l’inizio mette radici vi è solo vita con i suoi ritmi:  ancora invaderà le città, e sarà poesia declamata a voce alta, senza, tuttavia, negarsi il piacere e il  tempo dell’intima riflessione, che è anche un interrogarsi sul da farsi non avendo alcun copione di  riferimento e potendo unicamente richiamarsi a ciò che di volta in volta sarà la sua decisione, e  questa sarà la sua maggior virtù.
Il suo mettersi in movimento attraversa obliquamente ed in maniera eccentrica quanto il ‘900, forte  di una lunga tradizione – altro che secolo breve, secolo lunghissimo, che ha fagocitato il precedente  e avrebbe voluto fagocitare anche quanto veniva dopo -, riteneva guadagno consolidato e  definitivo. Scavando nel sottosuolo di una tale tradizione, porta allo scoperto quanto vi era rimasto  nascosto, impietrito dal gorgonico volto della politica e della sua autonoma declinazione a  discapito di altre e più ricche declinazioni. Nulla a che spartire con gli erramenti dell’anti-politica,  che è solo un altro modo di consegnarsi all’autonomia del politico, pur se in versione edulcorata –  non sarebbe stato quel ”anti”, quel “di contro” a far la differenza -, ma potente scoperta della  radice morale della politica, del suo ethos, del suo soggiornare presso uomini e donne non come destino che tutto travolge, ma come legame che si affida ai volti e agli sguardi. Una morale che  poco ha da condividere con quanto va sotto la vaga espressione “morale sociale”, che finisce  sempre con l’incespicare nel relativismo, annuvolando l’orizzonte e rendendo l’aria irrespirabile,  ma la morale che mostra tutta la sua forza nell’opporsi alla legge, ripetendo le parole di Antigone  “non è stato Zeus a proclamarla”. Morale originaria che si fa carico della dignità morale di tutti  quelli ai quali una tale dignità si vorrebbe negata, non per capriccio occasionale di chi governa  uomini e cose, ma perché considerati “senza valore”, logica conseguenza della pulsione di morte  presente in tutti i sitemi che procedono oltre il loro limite critico, affidando la propria  sopravvivenza a pratiche biocidarie, ecocidarie, geocidarie, etnocidarie, genocidarie, ossia ad una  necrofilia diffusa divenuta motore del modello di sviluppo. La contraddizione tra la vita e la morte  ha sussunto in sé ogni altra contraddizione e se il conflitto politico ne fronteggia le conseguenza, il  conflitto morale ne frena i presupposti erodendo la produzione di distanziamento sociale e di  isolamento delle vittime, opponendosi alla devastazione dei territori, impedendo che la macchina  produttiva travolga uomini e cose, abitando luoghi abbandonati dallo stato, etc. 

Questo inizio possiamo anche chiamarlo movimento, ma solo se ne riconosciamo la natura  comunitaria. Sono comunità umane in movimento, non per appartenenza ad alcunché, ma  nell’appartenersi in quanto umani – né cittadini né società civile, ma l’umanità in quanto tale, che  non ha da farsi comunità perché già lo è nel suo comune umanarsi. Destituzione della macchina  hobbesiana dall’interno della macchina come suo limite e suo impossibile – dove lo stato è negato  in se stesso dalla presenza dell’umano in quanto tale. 

Ciò che in questo inizio si è mostrato riempiendo le piazze ed attraversando le città è stata la liberazione dell’umano. Abbiamone cura perché è dono prezioso e fragile.

Rosario Carpentieri

Articolo precedente
Bandiere e statue
Articolo successivo
Il premio Nobel per la pace María Corina Machado, gli USA, Israele e il cambio di regime in Venezuela

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.