Riprendiamo con lo stesso titolo da fondazionefeltrinelli.it questo articolo di Marco Omizzolo –
Il 29 aprile scorso, esattamente il giorno dopo la Giornata mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro, il Capo dello Stato Sergio Mattarella, a Latina, ha pronunciato parole nettissime contro la tragedia dei morti sul lavoro, definendola “una piaga che non accenna ad arrestarsi e che, nel nostro Paese ha già mietuto, in questi primi mesi, centinaia di vite. Non sono tollerabili né indifferenza né rassegnazione. È evidente che l’impegno per la sicurezza nel lavoro richiede di essere rafforzato. Riguarda le istituzioni, le imprese, i lavoratori”.
Mattarella ha poi proseguito evocando il fondamento della Costituzione italiana e della Repubblica: “un lavoro che non può consegnare alla morte, ma sia indice di sviluppo, motore di progresso, sia strumento per realizzarsi come persona. Nessuno deve sentirsi scartato o escluso. La Repubblica è fondata sul lavoro. Il lavoro è radice di libertà, ha animato la nostra democrazia, ha prodotto eguaglianza e, dunque, coesione sociale. (…) Il lavoro richiama e sollecita la corresponsabilità, la solidarietà”.
Parole pronunciate nella provincia in cui è deceduto, il 19 giugno scorso, Satnam Singh per il mancato soccorso del suo datore di lavoro in seguito al gravissimo infortunio subito mentre era impiegato in un’azienda agricola. La stessa provincia dove si è suicidato, a giugno del 2020, Joban Singh, altro bracciante indiano, in seguito alla richiesta estorsiva del suo “padrone” italiano, un importante imprenditore agricolo pontino, che gli ha chiesto 10 mila euro per regolarizzarlo. Joban è tornato nella sua abitazione, nel residence Bella Farnia Mare, a Sabaudia, e si è impiccato.
I dati di un sistema di sfruttamento
Volendo allargare la riflessione a livello nazionale, è utile ricordare, riprendendo Riccardo Staglianò (Hanno vinto i ricchi, 2024), che i salari medi nazionali dal 1990 al 2020 sono diminuiti, secondo l’Ocse, del 2,9% a fronte di un aumento della produttività, per ora lavorata, nello stesso periodo, del 22,8%. Il potere di acquisto dei salari lordi degli italiani dipendenti negli ultimi dieci anni è invece diminuito, secondo l’Istat, del 4,5%. Gli italiani in povertà assoluta sono stati, nel 2023, circa 5.700.000, ossia circa il 10% della popolazione residente. Gli occupati e a rischio povertà sono, invece, ancora secondo l’Istat, l’11,5%. Esisterebbero, inoltre, circa 1.100 contratti collettivi di cui 900 sono “pirata”.
Per non parlare delle lavoratrici. La percentuale di donne in part time involontario nel 2019, dato Eurostat, era del 64,4%. Nel Sud invece, dato Svimez, siamo arrivati all’80%. Il 12% dei lavoratori italiani regolarmente impiegasti nel 2019, secondo l’Eurostat, era definibile come povero.
Si devono ricordate anche i 3 lavoratori che ogni giorno muoiono sul posto di lavoro e gli oltre 2.000 incidenti quotidiani. Una strage che resta tale ogni anno e governo che passa. A questi dati vanno aggiunti quelli sugli infortuni e decessi sul lavoro dell’Inail: da gennaio a luglio 2023 sono morte 559 persone, di cui 430 in occasione di prestazioni lavorative e 129 in itinere, con una media di 80 decessi al mese. Si tratta di una vittima ogni 8 ore. 79 sono stati invece gli infortuni mortali di lavoratori immigrati durante le prestazioni lavorative e 24 quelli in itinere, cioè, in proporzione, quasi il doppio rispetto a quello degli italiani, con un’incidenza di mortalità di 33,3 contro il 16,9.
Non sono solo cifre ma la carta d’identità di un capitalismo che ha come obiettivo quello di determinare quote crescenti di profitto e di sfruttamento del lavoro nel pieno rispetto della teoria neoliberista, compromettendo non solo i fondamentali diritti del lavoro richiamati da Mattarella, ma quelli costituzionali. Non a caso, uno dei principali fondatori di questa dottrina economica, Ludwig von Myses, riteneva che tra libertà politica ed economia occorresse sacrificare la democrazia che doveva essere combattuta contrapponendo all’internazionale socialista quella capitalista.
L’alleanza tra liberismo e populismo
Gli effetti sul presente li descrive il giurista Luigi Ferrajoli, secondo cui si sarebbe determinata, in Italia, un’alleanza perversa tra i poteri economici e i poteri politici, con un sodalizio tra le rispettive ideologie, cioè tra liberismo e populismi. Da un lato – dice il noto filosofo del diritto – le culture e le pratiche liberiste, promuovendo, in assenza di limiti, la precarietà dei rapporti di lavoro, hanno disgregato i tradizionali soggetti collettivi, primo tra tutti il movimento operaio, minando l’uguaglianza nei diritti sociali, le solidarietà collettive e le forme della rappresentanza politica. Un processo erosivo che ha offerto le basi elettorali agli odierni populismi. Dall’altro, le politiche populiste hanno ricambiato questo contributo con favori decisivi ai poteri economici e finanziari, accentuando la personalizzazione e la verticalizzazione della politica e opponendosi, in nome della difesa della sovranità nazionale, a tutte le forme di integrazione sovranazionale. Nel vuoto politico, oltre che intellettuale e morale, creatosi a sinistra – afferma ancora Ferrajoli – si sarebbero succeduti più governi populisti, l’uno peggiore dell’altro, fino al populismo post-fascista attualmente al potere.
Il lavoro sul corpo dei migranti
Karl Marx, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, affermava: “l’operaio diventa merce tanto più vile quanto più grande è la quantità della merce che produce. La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose, il lavoro non produce merci, produce sé stesso e l’operaio come una merce”. La sociologia, riprendendo Marx, ha denunciato l’alienazione propria dello sfruttamento contemporaneo, ossia la condizione di chi svolge la propria attività lavorativa – come ricorda Domenico De Masi (La felicità perduta, 2022) – in assenza di potere, di significato e di controllo, privato dei necessari margini di discrezionalità operativa, delle informazioni necessarie per capire cosa sta facendo e, anche se lo capisce, del potere necessario per controllare questo processo produttivo.
Si determina uno stato costante, quotidiano, eternamente presente, di deprivazione e di sfruttamento, indagabile non solo mediante l’interpretazione filosofica ma anche attraverso un’osservazione partecipante etnografica che, immersa nei rapporti di forza, deve tenere insieme ricerca e azione. Una pratica fondata sulla condivisione, in grado di partecipare alle fatiche del lavoro e ai rischi della rivolta, che usa la fantasia per organizzare la contestazione e non prassi standardizzate e consuetudinarie; che stimola la collettiva e non è invece a essa aliena; che esprime un pensiero politico cosmopolita, democraticamente avanzato, ribelle, e non invece solo procedurale, delegante e staticizzante.
Nel meraviglioso film di Ken Loach, The Old Oak (2023), uno dei protagonisti, TJ, ricordando quanto gli rammentava il padre, affermava: “Se i lavoratori si rendessero conto del potere che hanno e avessero la fiducia in se stessi per usarlo, potrebbero cambiare il mondo. Ma non l’abbiamo mai fatto”.
Oggi l’alienazione è imposta, tra gli altri, ai profughi e ai migranti destinati ai lavori precari, sporchi e pericolosi della nostra società per mezzo dell’imposizione della povertà, della segregazione, del padronato di Stato quale espressione costituente il capitalismo contemporaneo, del ricatto del permesso di soggiorno, dell’espulsione che condanna all’esclusione sociale, della marginalità come unica forma di cittadinanza possibile nel Paese dello jus sanguinis, del “panpenalismo normativo” che impone di accettare l’ordine imposto, pena la condanna alla clandestinità a vita, sino a condurre alle forme contemporanee trumpiane e meloniane della deportazione degli eccedenti mediante politiche volutamente anticostituzionali.
Donne e uomini da de-soggettivizzare, in sostanza, per sfruttarli fino al loro ritorno in patria, alla carcerazione o al decesso. Essi diventano anche il terreno della sperimentazione di nuove politiche del lavoro repressive, segreganti, che operano in favore di un ordine utile a pochi e funzionale a ristrutturare la società secondo un modello post-democratico occidentale di cui emergono con sempre maggiore chiarezza le drammatiche caratteristiche.
Engels e la conquista dell’autonomia
Come invertire questo processo? Friedrich Engels aveva indicato una strada nel suo AntiDuhring affermando che “la libertà è il riconoscimento della necessità”, ossia consapevolezza dei vincoli strutturali che condizionano l’agire umano che si muove entro cornici storiche, economiche e sociali che ne delimitano il campo d’azione. Engels rovescia l’idea liberale di libertà come assenza di vincoli, affermando che l’autonomia si conquista non nel rifiuto delle necessità, ma nel loro riconoscimento e nell’azione collettiva degli sfruttati nel determinare le condizioni materiali del loro lavoro, delle forme di auto-rappresentanza, superando l’istituto della delega, per un rinnovato protagonismo, evitando l’etero-direttività dei delegati e dei loro vertici.
Ciò significa che possiamo essere davvero liberi solo comprendendo le leggi che regolano il mondo economico e sociale. Agendo consapevolmente all’interno di esso, ci educhiamo a liberarci dalle necessità socialmente costruite. Dobbiamo dunque comprendere le regole del gioco per liberarci e per farlo è necessario interrompere la delega in bianco data ai professionisti della nostra liberazione, impiegati di concetto della rivoluzione sbandierata, amministratori dell’ordinario che parlano con prefetti e padroni al solo scopo di trovare accordi e disinnescare il conflitto, senza determinare mai percorsi di autodeterminazione ed emancipazione degli sfruttati dalla marginalità e dallo sfruttamento che restano la cifra portante del capitalismo. Si dovrebbe tornare alla ribellione dei lavoratori, in sostanza, dai padroni e anche da un sindacalismo d’ordine e di maniera.
Per una democrazia del lavoro inclusiva, antifascista e antirazzista
È importante, ad esempio, passare dalla pratica, pure storicamente fondamentale, del sindacalismo di strada, all’azione sindacale dentro le aziende, sviluppata coi lavoratori e non solo per loro, ricollocandosi nel processo produttivo per un conflitto di classe che permetta non al singolo lavoratore ma al collettivo operaio di sviluppare pratiche autonome ed innovative, come hanno insegnato Freire e Dolci, in grado di rinnovare l’istituto della democrazia in chiave oppositiva alla tentazione onnivora del capitalismo contemporaneo.
Quando ci si colloca nei processi produttivi, dentro le aziende, nei luoghi dello sfruttamento, sentendo e toccando la carne viva degli emarginati e schiavizzati dal capitalismo che piega le schiene dei lavoratori, li obbliga al silenzio, li condanna alla povertà mentre i loro corpi deperiscono ogni giorno fino alla consunzione per decesso, malattia o suicidio, si diventa pietra d’inciampo dell’ordine costituito, peraltro sempre più autoritario, centro di elaborazione di nuove cognizioni e di nuove modalità di fare e organizzare il sindacato e il conflitto con la prospettiva di edificare dentro la crisi della democrazia contemporanea una democrazia del lavoro più ampia, diffusa e definitivamente, inclusiva, antifascista e antirazzista. È una strada difficile ma non impossibile.