intersezioni femministe

Delitto e castigo: il vuoto politico di fronte alla violenza di genere

di Tania
Toffanin

Il 7 marzo 2025, giorno che precedeva la giornata internazionale della donna, il governo italiano guidato da Giorgia Meloni (la stessa che ha scelto la declinazione al maschile per la carica ricoperta) ha proposto un disegno di legge che introduce nell’ordinamento italiano il reato di femminicidio.
Il disegno di legge prefigura la modifica del Codice penale (art. 577) che dal 1930 stabilisce una serie di aggravanti collegate al reato di omicidio, previsto all’art. 575. In sostanza, la proposta consiste nell’introduzione, nel caso in cui il reato di omicidio colpisca una donna, di aggravanti che possano comportare l’ergastolo, quali la discriminazione o l’odio nei confronti della vittima, o la volontà da parte dell’omicida di reprimere l’esercizio dei diritti o delle libertà della vittima, o, più in generale, l’espressione della sua personalità in quanto donna.
Di fronte a questo disegno di legge, che sembra finalmente “restituire giustizia” alle tante donne massacrate per mano di uomini, ancora spesso rappresentati da tanta stampa italiana in preda a “raptus di follia” o “cieca gelosia” – non possiamo che essere d’accordo, no?! Mediaticamente, il varo di una norma che addirittura viene presentata come una “legge sul femminicidio” in fondo rassicura l’opinione pubblica. Il governo Meloni sta dalla parte delle donne, prime vittime della violenza di genere!
Invece ci sono alcune importanti ragioni per le quali questa proposta deve interrogarci.
In primo luogo, la violenza di genere è una forma di violenza legata alla rappresentazione sociale del ruolo associato alle donne e agli uomini. La decisione del governo italiano di definire il femminicidio come un reato a sé stante ripristina l’immagine della donna come meritevole di una protezione speciale, in linea con la legislazione conservatrice che ha sempre prodotto e riprodotto l’idea della donna come essere debole e inferiore. Peraltro, la Convenzione di Istanbul, all’art. 4, pur stimolando l’adozione di misure specifiche per prevenire la violenza e proteggere le donne contro la violenza di genere, sottolinea che l’attuazione delle disposizioni in essa contenute “deve essere garantita senza alcuna discriminazione fondata sul sesso, sul genere, sulla razza, sul colore, sulla lingua, sulla religione, sulle opinioni politiche o di qualsiasi altro tipo, sull’origine nazionale o sociale, sull’appartenenza a una minoranza nazionale, sul censo, sulla nascita, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere, sull’età, sulle condizioni di salute, sulla disabilità, sullo status matrimoniale, sullo status di migrante o di rifugiato o su qualunque altra condizione”.
In secondo luogo, è necessario indagare a fondo la ratio del disegno di legge e comprendere davvero a chi giova. Giova alle potenziali vittime sapere che i potenziali carnefici saranno puniti con l’ergastolo?
Alle donne interessa poco che vengano stabilite pene elevate nel caso venga compiuto un femminicidio: alle donne interessa piuttosto vivere senza dover limitare la propria personalità in casa, al lavoro e in società. Le misure che mirano a punire severamente gli autori di femminicidio non hanno alcuna rilevanza per le donne ammazzate e nemmeno per le vittime di violenza ancora in vita.
La previsione di specifiche aggravanti attagliate al sesso biologico della vittima ha forse una funzione deterrente? La casistica è ampia e ci permette di affermare che la previsione di pene severe non ha mai avuto una funzione deterrente. Questo disegno di legge risponde piuttosto al bisogno di consenso di una classe dirigente che considera la giustizia punitiva risolutrice delle divisioni e dei conflitti presenti nella società, l’esibizione di pene “esemplari” allo scopo di disciplinare e punire l’individuo, non certo per affrontare alla radice un problema collettivo.
Infine, ci si chiede quale sia nei fatti l’impegno del governo italiano nel contrasto alla violenza contro le donne. Dal 2017 al 2023, nonostante l’aumento di donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza sia stato del 41,5%, i finanziamenti a loro disposizione sono aumentati solo di 100 euro (360 euro nel 2017 e 464 nel 2023). Si osserva un incremento delle richieste di aiuto, tuttavia, a gestire tali richieste vi è la presenza di un considerevole numero di volontarie: delle 6.539 operatrici presenti nei centri antiviolenza, ben 3.165 lo sono a titolo volontario1. Tra il 2020 e il 2023, sulla formazione primaria – e quindi sull’attivazione di campagne di sensibilizzazione, programmi di educazione nelle scuole, elaborazione e divulgazione di materiali didattici inclusivi, iniziative di formazione e adozione standard settori privato e pubblico, e attività di monitoraggio dei contenuti trasmessi nei media e nei social – sono stati stanziati 13,8 milioni di euro. Appena 36 mila euro, invece, per la prevenzione secondaria, diretta alle attività di formazione del personale pubblico e privato in contatto o potenzialmente in contatto con vittime o autori di violenza (forze dell’ordine, magistratura, sanità, terzo settore). La parte più cospicua delle risorse è stata destinata alla prevenzione terziaria: 20 milioni di euro dedicati ad attivare dei programmi per autori di violenza, misure urgenti di protezione e misure cautelari coercitive2.
Nel 2020, il Gruppo di esperti sull’azione contro la violenza contro le donne la violenza domestica (Grevio) sollecitava il governo italiano ad intervenire attraverso azioni preventive finalizzate a contrastare l’incitamento all’odio sessista, la misoginia e l’atteggiamento tollerante verso la violenza contro le donne presenti nel dibattito pubblico e nei social. Allo stesso tempo, invitava le istituzioni italiane ad intraprendere quanto stabilito dalla Convenzione di Istanbul (art. 14) in tema di educazione con l’intento di rimuovere gli stereotipi di genere, promuovere la parità tra i sessi, così come ruoli di genere non stereotipati. In questo ambito, il Grevio registrava con preoccupazione la diffusa resistenza incontrata dalle scuole italiane nell’intraprendere progetti educativi in linea con gli standard della convenzione3. Per contrastare questa resistenza i governi italiani hanno fatto pochissimo!
Per le ragioni sopra espresse, questo disegno di legge è il risultato della concezione fuorviante secondo cui quello che non risolve la politica attraverso una strategia condivisa di lotta alla violenza di genere, lo possa risolvere la legge. L’attribuzione di caratteristiche che pertengono ai decisori politici alle norme legislative rappresenta una scelta deliberata: essa appartiene ad una classe dirigente che non vuole misurarsi con la realtà fattuale e preferisce adottare provvedimenti punitivi e di alto impatto mediatico piuttosto che promuovere un dibattito pubblico e affrontare in modo sistematico la questione della violenza e dei rapporti di dominio che caratterizzano la società contemporanea.
Combattere la violenza contro le donne significa prima di tutto riconoscere il radicamento del sistema di dominio patriarcale che attraverso simboli e atti annienta tanto le donne quanto tutt* coloro che si discostano dal binarismo di genere e dall’eteronormatività. 

Tania Toffanin

  1. Istat (2024), I centri antiviolenza e le donne che hanno avviato il percorso di uscita dalla violenza, anno 2023. Disponibile a: https://www.istat.it/wp-content/uploads/2024/11/stat-report-utenza-cav-2023_def.pdf.[]
  2. ActionAid (2023), Prevenzione sottocosto. La miopia della politica italiana nella lotta alla violenza maschile contro le donne. Disponibile a: https://www.actionaid.it/prevenzionesottocosto.[]
  3. Grevio (2020), Grevio Baseline Evaluation Report on legislative and other measures giving effect to the provisions of the Council of Europe Convention on Preventing and Combating Violence against Women and Domestic Violence (Istanbul Convention) Italy. Disponibile a: https://rm.coe.int/grevio-report-italy-first-baseline-evaluation/168099724e.[]
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