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Dall’indipendenza politica al soggiogamento economico dell’Africa subsahariana

di Luciano
Beolchi

Alla fine della guerra mondiale solo sei erano i paesi africani indipendenti. Marocco, Libia, Egitto, Liberia, Etiopia e Africa del sud. La situazione rimase immutata fino al 1960, se non per l’indipendenza concessa al Ghana nel 1957, ma fu solo nel 1960 che ottennero l’indipendenza le ex colonie francesi dell’Africa Occidentale e dell’Africa equatoriale (la Guinea l’aveva dichiarata unilateralmente nel 1958). Tutti i novelli stati avevano votato a favore del referendum proposto da De Gaulle, per un’indipendenza condizionata dalla tutela francese, situazione che per la maggior pare di essi sussiste a tutt’oggi. All’epoca gli unici ad opporsi furono i guineani. Nel giro di pochi anni divennero indipendenti anche le colonie che avevano fatto parte dell’impero inglese: Sierra Leone, Gambia, Nigeria e, nella parte orientale dell’Africa, il Sudan, la Somalia che si liberava della tutela italiana, l’Uganda, il Kenya, la Tanzania, lo Zambia il Malawi ex Zambia, il Bostwana . Il Belgio a magnanimamente concesse l’indipendenza del Congo, del Rwanda e del Burundi.

La lotta di liberazione nazionale proseguì ancora per parecchi Anni in Guinea Bissau, Isole di capo verde, Zimbabwe (ex Rhodesia), Mozambico, Angola e Namibia mentre il Sudafrica combatté fino al 1990 contro l’apartheid e l’Eritrea solo nel 1993 ebbe riconosciuta la propria indipendenza dall’Etiopia.

Non fu né un colpo di testa né un colpo di genio a suggerire che l’epoca della colonizzazione era finita: semplicemente fu la situazione stessa e l’esperienza recente (ciascuno la sua: l’Inghilterra in India e in Kenya, la Francia in Indocina Algeria e Cameron.

Con l’eccezione del Camerun e del Kenya il potere passava nelle mani delle personalità e del movimento che più si erano distinti nella lotta per l’indipendenza. Si formò così un gruppo consistente di paesi in cui il partito unico al potere si definiva marxista con un programma socialista i cui aspetti principali erano la pianificazione, la nazionalizzazione delle principali risorse, la riforma agraria e, in maniera più o meno accentuata il panafricanismo e la lotta al tribalismo.

Nei paesi dove i bianchi erano maggiormente presenti la lotta continuava: oltre alle colonie portoghesi, che ottennero l’indipendenza solo nel 1975 con la rivoluzione dei garofani, lo Zimbabwe che ottenne l’indipendenza nel 1980 e la Namibia che la ottenne nel 1990.

Dei nuovi leader che comparvero sulle scene africane in quegli anni, alcuni dei più prestigiosi costituirono il blocco cosiddetto del socialismo africano: Kwame Nkrumah (Ghana), Sekou Tourè (Guinea), Modibo Keita (Mali), Jomo Kenyatta (Kenya), Julius Nyerere (Tanzania) Robert Mugabe (Zimbabwe) [1]. Non si può dire quale sarebbe stato il percorso di Patrice Lumumba (Congo ex Zaire) tanto breve e travagliato fu il periodo di attività politica concessogli dai nemici, tra l’agosto 1960 e il gennaio 1961. Il trattamento riservatogli fu quello riservato a molti altri esponenti del socialismo rivoluzionario in Africa: fu catturato proditoriamente e ucciso da un ufficiale belga con un colpo alla testa. La lesta è lunga, ma i martiri meritano almeno di essere ricordati: Burkina Faso, Thomas Sankara (1949-1987), assassinato. Camerun; Ruben Um Nyobe (1913-1958), assassinato. Camerun: Felix Roland Moumiè (1925-1958), Assassinato a Ginevra. Camerun: Ernest Ouandié (1924-1971), fucilato. Congo: Patrice Lumumba (1925-1961), giustiziato. Congo popolare: André Grenard Matsawa (1899-1942), morto in carcere. Congo popolare: Marien Nguabi (1938-1977), assassinato. Etiopia: Tatari Benti e Atnafu Abate, giustiziati nel 1977. Guinea Bissau: Amilcar Cabral (1924-1973), Ucciso in un attentato. Kenya: Pio Gama Pinto (1927-1965), assassinato. Kenya: Tom M’Boya, ucciso in un attentato nel 1969. Mozambico: Eduardo Mondlane (1920-1969) Ucciso in un attentato. Mozambico: Samora Machel (1933-1986) Ucciso in un attentato. Sud Africa: Steve Biko (1946-1977), morto in seguito a torture. Togo: Sylvanus Olimpio (1902-1963), assassinato. Zimbabwe; Herbert Chipeto (1923-1975), ucciso da un’autobomba.

Negli anni settanta la crisi economica significò per i paesi africani caduta dei prezzi della materie prime che esportavano e aumento del petrolio che la maggioranza tra loro importava, aumento del debito e dell’inflazione e sostanziale arresto dei programmi di sviluppo. Tra 1973 e il 1982 il rapporto debito PIL aumentò in maniera abbastanza contenuta dal 30% al 50 per % ma nel quinquennio successivo raddoppiò e rapidamente arrivò anche a toccare il 100%. Il fardello del debito era reso più pesante da un’inflazione superiore al 10% e dall’apprezzamento contestuale del dollaro, tenendo conto che la gran parte del debito dei paesi africani erano indebitati in dollari, come era in dollari il prezzo del petrolio. Il Fondo Monetario internazionale offrì allora i SAPs, Structural Adjustment Plans, che in cambio dei prestiti chiedevano come al solito un taglio della spesa sociale, dei servizi in genere (trasporti, comunicazioni, sanità, istruzione, giustiza), dell’occupazione e dei salari, la privatizzazione delle risorse e delle principali aziende e il blocco dei programmi di sviluppo.

Trentasette furono i paesi africani che sottoscrissero i SAPs, ma nonostante quelli o forse anche per causa loro il PIL annuale salì solo del 1.7% annuo nel decennio 1980 -1989 e del 2.2% nel deccnnio successivo, senza considerare l’inflazione. Il FMI intervenne allora con altri due piani l’Heavily Indebted Poor Coutries e il Multilateral Debt Relief, cioè il taglio del debito per quei paesi che dichiaravano fallimento. Con queste misure il debito fu riportato ai livelli precedenti, del 35% nel 2008, ma presto ricomincio a risalire rapidamente.

Oggi sussistono forti dubbi che la cancellazione del debito sia una misura risolutiva, visto che il dissesto economico si ripropone a breve distanza di tempo dalla cancellazione o riduzione del debito, proprio per le condizioni che vengono imposte ai paesi in sede di negoziato.

Il fondo Monetario Internazionale e gli Stati Uniti pretendono di agire in campo finanziario in base a considerazioni puramente economiche, ma non è così. Prendiamo il caso emblematico dello Zimbabwe.

Il caso dello Zimbabwe

Dopo 15 anni di apartheid bianco (1965-1980) in quella che visse quella stagione come repubblica di Rhodesia sotto la direzione di Jan Smith, lo Zimbabwe rientrò a far parte del Commonwealth britannico e fu da quella posizione che la Regina Elisabetta concesse l’indipendenza al paese.

Era il 1980 e sembrava che, per quanto imperfetta, la democrazia maggioritaria avesse sostituito la dittatura della minoranza bianca. Tuttavia, democrazia parlamentare e democrazia economica sono cose ben distanti tra di loro e nel 2000, a vent’anni dall’indipendenza, i bianchi – che nel frattempo si erano ridotti di numero e rappresentavano meno del 1% della popolazione[2] – possedevano il 70% delle terre coltivabili del paese.

La riforma agraria che Mugabe varò nel 2000 e che prevedeva l’esproprio delle terre senza indennizzo veniva a seguito di un vasto movimento per l’occupazione delle terre, iniziato e guidato da Chenjeraj Hunzvi che a partire dal 1977 aveva cominciato a occupare le proprietà bianche.

Quello che il governo zimbabwano chiamò Fast Track Land Reform provocò un’ondata di sanzioni contro lo Zimbabwe già afflitto dalla siccità, dall’AIDS che aveva infettato il 25% della popolazione (dati del 1997, su circa 10 milioni di abitanti) e – tra il 1980 e 1985 – una guerra civile conosciuta come Gukurahundi che aveva colpito il Matabeleland, la regione abitata dalla minoranza Ndabele, che era anche la baseetnica del Movimento di Liberazione ZAPU, fondato da Nkomo, che solo dopo quella guerra si fuse con lo ZANU-PF (ZANU-Patriotic Front)[3].

La confisca delle terre dei bianchi che avrebbe dovuto rivitalizzare le esportazioni agricole, in mancanza di capitali produsse solo 60.000 agricoltori neri indipendenti mentre, al converso, le sanzioni colpivano duro lo Zimbabwe di Mugabe più di quanto avessero colpito negli anni Settanta la Rhodesia di Jan Smith. Le sanzioni internazionali furono molto pesanti. Nel 2002 lo Zimbabwe fu espulso dal Commonwealth e l’anno successivo se ne auto-escluse. Nel 2001 gli Stati Uniti promulgarono lo Zimbabwe Democracy and Economic Recovery (ZIDERA), entrato in vigore nel 2001 che congelava tutti i crediti a quel paese. Il decreto fu proposto dai democratici, a firma di Hillary Clinton e Joe Biden. Il decreto intendeva anche bloccare finanziamenti multilaterale,. Prescriveva infatti ai rappresentanti americani del Fondo Monetario Internazionale “di opporsi ad ogni erogazione o estensione di prestito, credito o garanzie al governo dello Zimbabwe; a ogni cancellazione o riduzione di indebitamento del governo dello Zimbabwe nei confronti degli USA o di istituzioni finanziarie internazionali”.

Già nel 2003 l’economia del paese era collassata.

Un quarto circa della popolazione – che era allora di 11 milioni circa – fu costretta a fuggire dal paese: andando a infoltire la massa di quelli che si chiamano con supponenza migranti economici, ma che sarebbe più corretto chiamare migranti politici, visto che la loro migrazione non è stata provocata dalla saetta di Giove, ma da precise azioni politiche che portano sempre la stessa firma.

Nel 2017 i media di tutto il mondo bianco si scagliarono contro Mugabe, attribuendo alla sua sola persona le sventure del paese e descrivendo la sua presidenza come il regno del terrore. Dimenticavano le parole profetiche e anticipatrici di Kenneth Kaunda, il presidente emerito dello Zambia personalità autorevole ed equilibrata, che aveva scritto, fin dal novembre 2007: “I politici occidentali dicono che Mugabe è un demone, che ha distrutto lo Zimbabwe e che deve essere tolto di mezzo, ma questa demonizzazione è fatta da persone che non comprendono quello che Robert Gabriel Mugabe e i combattenti per la libertà hanno dovuto sopportare”.

E il presidente senegalese Abdoulaye Wade, che ha una storia molto lontana da quella di Mugabe ha risposto ai critici di Mugabe dicendo che i problemi dello Zimbabwe sono un’eredità del colonialismo.

Aiuti avvelenati

Su 37 paesi che avevano sottoscritto i Saps, a distanza di dieci anni 36 erano tornati a una situazione finanziaria uguale alla precedente, e in più scontavano quel disastro sociale che è causa non secondaria di quella che l’egoista Europa chiama emergenza emigrazione.

Dell’ondata dei socialisti africani quasi tutti accusarono della disfatta il socialismo: sia che lo facessero poco prima di una dignitosa ritirata a vita privata negli anni ottanta: come Senghor nel 1980, Nyerere nel 1985 e Kaunda nel 1991, sia che fossero precocemente estromessi dal potere, come Nkrumah nel 1967 e quella forzata rinuncia lo aiutasse tuttavia a rivedere le sue posizioni, in particolare sulla lotta di classe.  Sekou Tourè morì in carica nel 1984, ma fin dal 1978 aveva dichiarato ufficialmente che “il marxismo aveva fallito”. Non lui, il marxismo. Di Robert Mugabe, presidente dello Zimbabwe dal 1987 al 2017, abbiamo detto sopra. La posizione di Jomo Kenyatta (presidente del Kenya dal 1963 alla morte, nel 1979) risulta più che ambigua. Avversario dell’imperialismo britannico che lo tenne in prigione per quasi dieci anni, fu anche avversario dei Mau Mau che continuò a perseguitare anche molti anni dopo che gli inglesi se ne erano andati; e per quanto il suo governo nel 1965 avesse pubblicato il programma African Socialism Economic Model nelle cui politiche non c’è traccia di socialismo. L’economia Kenyana continuò a marciare o a non marciare sugli stessi binari coloniali, dominata dalle multinazionali, dai capitali stranieri e dai latifondisti bianchi, con i quali Kenyatta intrattenne ottimi rapporti. I due principali esponenti di sinistra del suo stesso partito, il giornalista Pio Pinto e il sindacalista Tom M’Boya, ministro del lavoro, furono assassinati e in entrambi i casi il sospetto cadde su Kenyatta e il suo entourage. Sul piano delle relazioni internazionali il Kenya rimase un fedele e leale suddito di Sua Maestà la Regina, mentre rispetto al Panafricanismo fece di tutto per vanificare, nel 1963, quell’unione tra Uganda, Tanzania e Kenya cui peraltro aveva formalmente aderito.

Con quelle nuove adesioni s’ingrossò il gruppo già consistente dei paesi africani che aderivano al modello capitalista. A distanza di quaranta anni basta scorrere qualsiasi elenco di indicatori e economici e sociali e si può star sicuri che sui trentacinque ultimi posto delle graduatorie mondiali trenta sono occupati da paesi dell’Africa subsahariana; e i pochi che non si ritrovano al fondo della classifica (Nigeria, Angola, Guinea equatoriale, Gabon) lo devono all’esportazione di petrolio. In compenso sono i paesi africani in cui maggiori sono le diseguaglianze e massimo l’indice di Gini.

Piano Meloni

Il Presidente della Commissione Africana Moussa Faki è stato convocato a Roma con altri specialisti della carità africana per farsi raccontare il piano pubblicitario Meloni per l’Africa – reso noto come piano Mattei perché risulti evidente che la sua finalità è portare energia di origine idroelettrica e gas in Italia. Il Manifesto ha titolato sarcasticamente “Aiutiamoci a casa loro”. In cambio di questa appropriazione di risorse altrui, l’Italia ha predisposto dei piani ad hoc: ad esempio per la Costa d’Avorio un piano di prevenzione sanitaria. Rispetto a questo piano italiano il presidente dell’Unione Africana, di solito più malleabile che diplomatico, ha commentato seccamente: avremmo voluto essere informati prima, il che fa pensare ai 1.000 miliardi di lire che il governo Craxi – attraverso il suo braccio destro ministro Forte – si era impegnato a spendere in Africa rigorosamente nell’arco del solo1986, non un giorno di più: un piano che fece ridere tutta l’Africa perché il ministro Forte girava disperato da una capitale all’altra: volete 50 miliardi? Volete 100 miliardi; e tutti gli rispondevano di no. Lo stesso presidente Faki, ha fatto notare al ministro Tajani che sette anni fa, quando era presidente del Parlamento Europeo aveva fatto le stesse promesse: e non era successo niente.

La cifra stanziata per il piano Mattei-Meloni è di 5,5 miliardi di euro, di cui due prelevati dal fondo per la cooperazione internazionale e 3,5 dal fondo per il clima. In sostanza un cambiamento di poste di bilancio, non fondi freschi.

Quanto alle presenze, di fronte alla prospettiva di un viaggio a Roma, con tanto di signora e accompagnatori al seguito, si videromolti degli specialisti in richiesta di carità. Mancavano le persone serie: per esempio i capi di governo del Sahel e del Sudafrica che invece erano andati a Mosca nel luglio scorso.

Se Meloni avesse voluto perdere almeno un po’ di tempo non dico per parlare con i suoi interlocutori africani, ma per parlare con i consiglieri economici delle 50 ambasciate; o se anche avesse mandato qualcuno del suo staff, anche uno stagnaro, a parlare con loro, avrebbe saputo che le priorità dell’Africa non sono quelle di fornire gas o energia idroelettrica all’Italia né quello di bloccare i migranti negri con le buone o con le cattive prima che arrivino in Italia. Avrebbe saputo che le priorità sono il debito accumulato: oltre 1.300 miliardi di dollari per i paesi a sud del Sahara con un servizio del debito superiore ai 100 miliardi all’anno, ossia superiore alla spesa sanitaria complessiva di tutta l’Africa che ha bisogno di investimenti sani e non di land grabbing, di monocolture o delle concessioni minerarie capestro che impongono i paesi occidentali (vedi quella estorta dalla Francia in Niger appena prima del colpo di stato del luglio 2023: e non causa ultima di questo).

A sera, una volta chiusi i lavori della conferenza, Meloni ha sentito il bisogno di precisare che “Il piano Mattei può essere sembrata una cosa chiusa, ma non lo è e il vertice Italia-Africa era fondamentale per condividere strategia e definizione finali dei progetti”. Così è come vede le cose Meloni: si chiama a Palazzo Chigi il ministro delle Colonie, gli si fa preparare un compitino poi si chiamano i capi tribù per una foto pubblicitaria e il colpo è fatto.

Meloni dice che è finito l’assistenzialismo; e si sarebbe da chiedere quando mai c’è stato, l’assistenzialismo. Alle guardie costiere libiche, senza dubbio, e a chi altri?

Intanto, col piano Mattei sparisce ogni riferimento alla cooperazione allo sviluppo che doveva essere incrementato per raggiungere lo 0.7% e a stento si avvicina allo 0.27%.

Il land gribbing è un’altra delle preoccupazioni dei paesi africani e il piano Mattei vorrebbe trasformare Rwanda e Congo in enormi coltivazioni estensive di biocarburanti ignorando che proprio il land grabbing e le monocolture sono fin dai tempi coloniali uno dei maggiori disastri per gli africani.

Attualmente gli interessi sul debito rastrellano il 31% delle entrate budgetarie e la percentuale di stati africani considerati ad alto rischio fallimento è passata dal 27% nel 2015 al 65% nel 2023.

Il debito non può essere rimborsato, diceva Sankara nel 1987; e se non lo rimborseremo, voi non morirete, questo è certo. Ma se lo rimborsiamo moriamo noi. Anche questo è certo (Sankara, luglio 1987, Addis Abeba, vertice OUA). Finché hanno avuto guadagni, non c’è stato dibattito, ma ora che subiscono delle perdite chiedono il rimborso… No, signor presidente, hanno giocato, hanno perso, questa è la regola del gioco e la vita continua. “Se il Burkina Faso continua a rifiutarsi di pagare io non sarò più qui per la prossima conferenza…” e infatti fu assassinato tre mesi dopo da un complotto organizzato da Francia, USA e Libia.

Il 28 gennaio 2024 i tre paesi dell’AES si sono ritirati dalla CEDEAO[4] dalla quale risultavano peraltro sospesi. Nel suo editoriale a quella data il direttore della rivista progressista Jeune Afrique, François Soudan, si mostra sorpreso e quasi personalmente risentito anche se nell’articolo si riconosce che i sostenitori delle giunte apprezzano l’iniziativa in quanto atto decoloniale. Nel 1975, quando erqa stato creato come raggruppamento regionale, la CEDEAO sembrava particolarmente promettente.

La destabilizzazione del Sahel è cominciata nel 2012. Malgrado le 8 monete differenti e la riconosciuta rivalità, in particolare tra i pesi massimi Nigeria e Costa d’Avorio e nonostante l’uscita nel 2000 della Mauritania che raggiungeva l’illusorio approdo dell’UMA (Unione del Maghreb Arabo), la CEDEAO sembrava progredisse dopo la dichiarazione fondatrice di Abuja nel 1990 che prevedeva in sostanza la cooperazione militare e una sorta di reciproca fedeltà democratica che l’ECOMOG avrebbe potuto ristabilire al bisogno. Di lì gli interventi che si sono susseguiti in Liberia, Sierra Leone, Guinea Bissau e in Gambia che François Soudan giudica “globalmente efficaci” e che erano tutti quanti in qualche modo garantiti dalla presenza francese, dal 2012 associata a quella militare delle Nazioni Unite.

Efficace si era dimostrato anche l’embargo stretto decretato contro la Costa d’Avorio dopo la crisi elettorale del 2010, quando la Francia aveva imposto il suo candidato presidente.

La quasi disintegrazione del Mali nel 2012 per l’azione di Tuareg e Jihadisti e poi l’estensione della Jihad al Niger e al Burkina Faso hanno messo in evidenza la debolezza strutturale della CEDEAO.

Se la Francia figura ormai come indesiderabile nel Sahel anche la CEDEAO oggi figura come tale ma Soudan si lamenta per quello che definisce una strategia liberticida che non rispetta il programma di ritorno alla legalità. Teme o forse si augura un aumento delle tariffe doganali e dei prezzi nei tre paesi e la tricicletta non può sopravvivere se non si allarga ad altri paesi che offrono quanto meno uno sbocco al mare.

La percezione del rischio

Nel 2017 l’Argentina che pure ha già dichiarato fallimento 9 volte ha contratto un debito obbligazionario a 100 anni al 7%. L’emissione ha avuto un grande successo e gli investitori fanno fatica a trovarle sul mercato. Qualche mese più tardi, a 8.500 km di distanza, la Costa d’Avorio si dichiarava molto soddisfatta di aver negoziato un prestito trentennale di 2,6 miliardi di euro, in due tranche, a un tasso medio di 6.85%. Un successo, secondo gli osservatori, anche se il tasso è molto lontano da quelli che circolano in altre regioni del mondo.

All’Angola, come vedremo, è andata anche peggio.

La questione, che riguarda tutta l’Africa subsahariana, si riflette automaticamente sul costo del debito e va a finire nelle urla disperate di chi affoga nel Mediterraneo, ma le agenzie internazionali di rating non accetteranno mai che esista un qualche collegamento tra le loro abusive valutazioni e quelle morti.

La differenza di valutazione, si giustificano le agenzie, non deriva neanche dai fondamentali ma dai premi di rischio africani che sono più alti che per altri paesi, specie se bianchi.

All’epoca in cui i paesi africani si affacciavano sul mercato obbligazionario, all’inizio degli anni dieci i tassi delle principali banche centrali occidentali erano così bassi che molti stati arrivavano a rifinanziarsi a tassi negativi; per l’Africa viceversa i tassi minimi sono rimasti sempre superiori al 5%, sempre per prestiti in eurodollari e solo con qualche piccola eccezione. I paesi africano indicano come responsabili diretti le tre grandi agenzie di rating, Moody’s, Fitch rating e Standard & Poor’s Global Ratings .

Le condizioni d’accesso al credito dei paesi africani di cui beneficia ciascuno stato indipendente dipendono dalla nota sovrana attribuita loro dalle agenzie di notazione.

Le analisi di rischio, come sanno bene i banchieri, si basano in una qualche misura su dei criteri soggettivi che per l’Africa somigliano piuttosto a dei pregiudizi dei bianchi.

Anche il paese d’origine dell’analista può avere un impatto o il fatto che l’agenzia sia impiantata o meno nel paese da valutare; ed è un fatto che – a parte il Sudafrica –nessuno dei big three si è installato stabilmente a Sud del Sahara, per cui il contatto diretto con il paese si riduce a missioni di una settimana. La perdita per il continente ammonta annualmente a 75 miliardi di dollari su un totale di servizio del debito di circa 100 miliardi.

Naturalmente a fare da controcanto intervengono i padroni della finanza mondiale ed ecco arrivare lo studio di quattro esperti del FMI che spiegano che è tutta colpa degli africani e che non c’è nessun cattiva intenzione nei loro confronti.

Nel frattempo, dove è finito lo spottone della Meloni, quello del tutti in ginocchio, vi regalo cinque miliardi e mezzo di euro. È successa una cosa incredibile: persino gli specialisti in elemosina, quelli che Thomas Sankara e Ibrahim Traorè disprezzano perché sanno solo chiedere l’elemosina in tutte le tonalità, in un soprassalto di dignità hanno saputo dire: “Il Piano Mattei? Grazie comunque, ma avremmo preferito essere informati prima e non dopo, al momento della presentazione”. Così si è espresso il Sig Faki, Presidente da Commissione africana. C’è chi dice che il piano Mattei è una scatola chiusa, ossia che è una scatola vuota. Chi dice scatola misteriosa. Chi assicura che una volta aperta scatterà fuori una figurina a molla che somiglia alla Meloni.

Al Convegno di Roma erano rappresentati 45 stati africani, ma i media hanno preferito citare la presenza della presidente dell’Unione Europea Ursula Van der Leyen, della presidente del Parlamento Europeo Roberta Metsola e del presidente del Consiglio Europeo Charles Michel.

La verità è che il piano definito non caritatevole e non predatorio, rischia di generare nuovi partenariati basati sullo sfruttamento delle fonti fossili disponibili. Proprio una gran novità per l’Africa. Per lo meno la lunga telefonata di Meloni con i comici russi non aveva fatto danni, se non a lei. Ad oggi il 71% delle importazioni italiane dell’Africa è rappresentato da prodotti energetici e questa relazione sbilanciata ha riflessi importanti anche sul servizio del debito legato a prezzi così fluttuanti e volatili come quello dei prodotti energetici.

Prendiamo il caso del Mozambico che si è scoperto essere il 3° paese africano per riserve di gas e con ciò baciato da quella che sembra essere la maledizione africana delle riserve perché porta a un aumento dell’indebitamento, a instabilità e corruzione.

Dal tempo della prima scoperta di gas il debito è triplicato e schizzato al 95%, i tassi di povertà e di diseguaglianza aumentati e il paese è piombato in un violento conflitto che ha già fatto sfollare il 3% della popolazione e causato migliaia di vittime.

Si chiamano rischi di sistema di un paese quelli che fanno abbassare le valutazioni delle agenzie di rating, ma le prime entrate dello stato arrivano 15 anni dopo i primi investimenti e dieci dopo l’uscita del primo flusso di gas; per di più proprio questi paesi rischiano di essere la prima vittima della de- carbonizzazione totale, pur essendo nello stesso tempo uno dei più vulnerabili dal punto di vista degli effetti del cambiamento climatico.

Il paese è già stato vittima di cicloni, inondazioni e fenomeni metereologici estremi, cui sono seguite epidemie di colera. Secondo calcoli (stime) della banca mondiale, il Mozambico dovrebbe spendere, entro il 2030, 3,58 miliardi di eurodollari per misure di riduzione delle emissioni, ossia il 30% del suo PIL annuale[5]; e se non lo facesse il costo dell’inazione sarebbe ancora più elevato. Il Mozambico avrebbe un forte potenziale per idroelettrico e solare: perché insistere con le fonti fossili? Nel 2021 il Mozambico ha destinato alle rinnovabili 230 milioni di dollari, un sesto di quanto riservato al solo progetto LNG delle fossili.

Il Congo rappresenta un caso simile e nel 2022 il presidente Sassou Nguesso ha rafforzato gli accordi con l’ENI per la vendita di GNL. Da ricordare che l’ENI è il maggior produttore di gas nel paese che è il 3° produttore africano di petrolio e barre di uranio, di gas valutato in 280 miliardi di metri cubi, mentre la produzione annua di gas è arrivata a sfiorare gli 11 miliardi di metri cubi all’anno.

Anche in Congo i tassi di povertà sono aumentati rispetto agli anni Settanta, come pure le disuguaglianze.

Gli anni Settanta sono quelli in cui il Congo ha cominciato a sfruttare le proprie risorse petrolifere.

In Congo da inizio secolo 100.000 persone sono state vittime di calamità naturali.[6]

Il progetto Meloni-Mattei, su decisione italiana prevede: istruzione in Tunisia, rinnovabili in Marocco, sanità in Costa d’Avorio.

Si tenga presente che quella di Roma era una conferenza organizzata a livello di capi di governo. Se sei il presidente della Commissione Africana e la presidente della Commissione Europea ti invita a Roma per una conferenza internazionale sui rapporti Africa-Europa non puoi rifiutarti di andare. E infatti Faki ci è andato, in scarsa compagnia. Quello che poteva fare era sputare nel piatto dove metaforicamente volevano farlo mangiare; e questo lui l’ha fatto con grande clamore, facendo parlare di sé e dell’Africa i giornali di mezzo mondo. Aveva portato con sé il presidente dell’Unione Africana che è una specie di Topo Gigio delle fazioni più bellicose del Continente, al servizio degli occidentali. Anche lui in questo caso non ha tirato indietro il piede ed è entrato sulla caviglia dove fa più male.

Il convegno in passato si era fatto a livello di ministri degli esteri, ma lei aveva preteso che questa volta si tenesse a livello di capi di stato. Undici i capi di stato presenti, tra cui i presidenti dei Repubblica del Congo, Kenya, Guinea Bissau, Ghana, Mauritania, Mozambico, Repubblica Centroafricana, Senegal, Somalia, Tunisia e Zimbabwe. Undici capi di stato su cinquantaquattro invitati. La metà dei presidenti africani riuniti a Mosca nel luglio 2023 dal Presidente Putin, il reietto dell’umanità. E dire che in Africa, come diceva Thomas Sankara e ribadiva di recente Ibrahim Traorè – entrambi del Burkina Faso – ci sono i campioni dell’elemosina, gli acrobati degli aiuti internazionali. Totalmente esclusa la società civile italiana e africana (79 organizzazioni hanno inviato una lettere di protesta a Mattarella). Lo diceva anche Celine che i negri sono imprevedibili e soprattutto irriconoscenti.

“Nnamo a vede che c… stanno a fa sti’ negri da du’piotte”, si deve essere detta la sora Ggiorgia e coll’aiuto di Lollo e Ignazio ha confermato questo bel convegno Italia-Africa a livello presidenziale. Il suo, di presidente, non l’ha voluto perché le avrebbe fatto ombra o forse lui non c’è voluto andare. Non ci è dato modo di sapere.

Nel frattempo, Frontex ha denunciato l’Italia per la tragedia di Cutro: sapevano, erano consapevoli del rischio e hanno deciso di non intervenire.

 

Luciano Beolchi

 

[1] Altri governi scelsero da subito di allinearsi alla politica delle ex potenze coloniali, in genere adottando anch’essi il sistema del partito unico ma scegliendo l’economia del laissez faire: Costa d’Avorio, Malawi, Liberia, Sierra Leone, Rwanda, Burundi, Togo, Gabon, Camerun.

[2]             Secondo Wiki.it nel 1975 i bianchi – circa 300.000 – sarebbero stati l’8% della popolazione.

[3]             Dunque, anche in Zimbabwe, come in Angola e Mozambico, scoppia una guerra civile motivata da contrasti etnici, anche se formalmente lo ZANU era marxista-leninista filosovietico e lo ZAPU marxista-leninista maoista.

[4]             Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale

[5]             Il  Pil del Mozambico è il seguente (mld di euro a prezzi correnti):

2018 2019 2020 2021 2022 2023 2024
13,1 13 12.6 13.8 15.1 17,3 18.1

 

 

[6]             Il Piano Meloni vale 5,5 miliardi. Molto poco rispetto al filone africano del Global Gateway, iniziativa UE che vale 150 miliardi di euro.

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