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Dall’alba al tramonto meloniano

di Tommaso
Chiti

Nella notte europea dello spoglio elettorale, la première italiana del governo più maldestro della storia repubblicana poteva dirsi l’unica Presidente del Consiglio vincente, non solo per la tenuta del suo partito, ma anche per la personalizzazione, fino alla candidatura della stessa Meloni in lista per il Parlamento Europeo.

La truffa elettorale della candidatura fasulla, a dispetto degli alleati di governo, alla fine ha premiato Fratelli d’Italia che resta il primo partito con il 28,8% di voti, mentre acerrimi avversari come Macron e Scholz crollavano nei consensi, a fronte di un’imponente crescita delle destre sovraniste in Francia e Germania.

L’ebbrezza della vittoria, se da un lato è servita a derubricare l’astensionismo che ha raggiunto quote da diserzione popolare con appena il 49,69% dei votanti di una sorta di democrazia di minoranza, celando anche l’emorragia di circa 700 mila voti da FdI rispetto alle politiche del 2022; dall’altro deve aver dato alla testa la leader italica nella fase di negoziazioni per la definizione della nuova Commissione Europea ed in generale delle nomine dei “top jobs” dell’UE.

L’accordo della scorsa settimana fra socialdemocratici e popolari, sostenuti anche dai liberali nella nomina del portoghese Costa al Consiglio Europeo, della maltese Metsola al Parlamento, dell’estone Kallas come Alto Rappresentante della politica estera e del bis della “maggioranza Ursula”, così come presentato alla cena dei capi di Stato e di governo, è rimasto indigesto a Meloni dopo settimane di trattative andate a vuoto.

L’intera strategia negoziale di Meloni più come capo dei Conservatori Europei (ECR) che come Presidente del Consiglio Italiana è risultata tanto fallimentare quanto rischiosa per l’isolamento del Belpaese dai posti che contano. Con l’astensione sul nome di Von der Leyen e addirittura il voto contrario su Costa e Kallas pare sfumare la prospettiva di vicepresidenza con un ruolo di peso ad un commissario italiano. Fra le deleghe più ambite sarebbero quelle a Pnrr, Industria, Concorrenza, Commercio e lo stesso Ministro degli Esteri Tajani, di certo ormai più accreditato della première a margine della riunione del PPE ribadiva la necessità di un portafoglio di rilievo spettante “alla seconda manifattura d’Europa, a un paese fondatore, e con una stabilità di governo per i prossimi tre anni e mezzo”.

Quest’ ultimo punto però pare più che discutibile, soprattutto a fronte dei recenti sviluppi nell’ambito proprio del gruppo politico di ECR guidato da Meloni e delle ricadute sul piano nazionale. A pochi giorni dalla votazione in Consiglio Europeo il partito polacco di Diritto e Giustizia (PiS) sembra infatti valutare l’uscita, togliendo così il terzo posto per consistenza di seggi ad ECR, magari per un apparentamento con il nuovo gruppo di “Patrioti” costituiti dal première ungherese Viktor Orban, che ha già attratto le simpatie dei nazional-conservatori dello schieramento portoghese Chega, di quello austriaco di Fpö, del ceco Ano e probabilmente anche del Rassemblement Nationale di Le Pen, che deciderà dopo il ballottaggio delle politiche francesi, se mantenere i suoi 30 deputati europei nell’ambito di Identità e Democrazia (ID) di Salvini, o passare al nuovo gruppo.

La destra italiana ha insomma vinto le elezioni europee, pur perdendo sul piano istituzionale; e potrebbe non vincere nuovi consensi neppure a livello nazionale se le frammentazioni all’orizzonte non permetteranno ai 24 eletti di FdI di giocare un ruolo dirimente nel voto del Parlamento Europeo sulla nomina di Von der Leyen il prossimo 18 luglio.

Questo epilogo deludente se non proprio disastroso è accompagnato dalla denuncia pubblica di rigurgiti fascisti interni al partito di governo, con l’inchiesta di Fanpage.it sulla “Gioventù Meloniana”, che ha mostrato tutte le connivenze fra la classe dirigente di FdI e le esaltazioni antisemite, omofobe e razziste in salsa dittatoriale, con cui vengono formati i giovani dell’organizzazione giovanile.

A quasi un mese di distanza dalla prima pubblicazione del reportage, il tentativo di insabbiamento del caso da parte del governo Meloni è naufragato sulle dichiarazioni antisemite e le ingiurie alla stessa senatrice di maggioranza Ester Mieli. A questo punto neppure una letterina di intenti, che coglie comunque tutto il disappunto della première, può bastare a ridare credibilità alle pretese del governo italiano. Difficile infatti dare a bere di aver fatto davvero “i conti con il proprio passato fascista”, se questa dichiarazione non si traduce in un’operazione profonda di repulisti, oltre le semplici dimissioni di due giovani rampanti, ma del resto sacrificabili. Dopo due anni di aggressioni squadriste fuori dalle scuole, sproloqui del Presidente del Senato in salsa apologetica dei crimini nazifascisti, reticenze sulle responsabilità del regime di Mussolini e tutta la difficoltà di dichiararsi convintamente antifascista; soltanto un cambio di passo significativo nell’allontanamento dei dirigenti di FdI coinvolti, nella chiusura di Gioventù Nazionale e nella riforma del Consiglio Nazionale dei Giovani nell’ambito della Presidenza del Consiglio dei Ministri potrebbe in qualche modo riabilitare Meloni ed il suo partito.

Così come nella competizione per un posto al sole in Commissione Europea, anche sul piano politico le sorti italiane sembrano specchiarsi con le prospettive d’Oltralpe. L’operazione francese del Nouveau Front Populaire ad arginare l’ascesa al potere del Rassemblement National ha del resto galvanizzato coalizioni socialdemocratiche con la sinistra anticapitalista anche sul territorio italiano. Dopo la manifestazione in piazza Sant’Apostoli contro le riforme costituzionali sul premierato e sull’autonomia differenziata; il “campo largo” di PD, M5S e AVS riuniti lo scorso fine settimana alla festa provinciale dell’ANPI alla Bolognina ha rilanciato il modello di “fronte popolare” contro la destra post-fascista.

Nella prospettiva italiana, l’acuirsi della crisi occupazionale ed economica, i crescenti danni della crisi climatica ad agricoltura e urbanistica, con fenomeni distruttivi sempre più frequenti, le promesse esose del governo senza coperture finanziarie a fronte di un carovita crescente costituiscono infatti le premesse strutturali del tramonto dell’era meloniana, che potrebbe incappare nel deja-vù renziano di referendum abrogativi sulle proposte costituzionali, in una fase di ritardi sulla conclusione dei progetti PNRR e di crescenti difficoltà nel varo della legge di bilancio per il 2025, probabile preludio all’anno di svolta politica anche nel Belpaese.

Su quello che si profila come una fase crepuscolare del governo di destra, annunciato dai tanti segnali provienienti dalle risse in parlamento, dal continuo vittimismo della première, dalla persistente censura della stampa abbinata a crescenti misure repressive con ben 6 decreti d’urgenza sulla sicurezza in appena due anni – decreto Anti-rave, decreto Cutro, decreto Caivano, legge anti-ecovandali, DDL sicurezza e DDL Nordio – e dalla svendita del patrimonio pubblico, fra cui spiccano i dossier TIM e MPS; pesa anche il graduale riposizionamento dei centristi e di Forza Italia e l’approssimarsi delle elezioni regionali.

Dall’altro lato resta tutta la titubanza e la diffidenza sui democratici a trazione Schlein e sull’operazione di rinnovamento vera o presunta, rimasta finora senza atti tangibili di discontinuità, salvo qualche sporadico segnale simbolico, con il rischio che si riproponga una seconda stagione socialdemocratica in salsa Blair-Schröder a detrimento di diritti socio-economici e sul lavoro, come avvenuto a livello europeo in reazione al movimento internazionalista del Social Forum all’inizio del millennio.

 

Tommaso Chiti

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