Il 5 settembre 2024 è stato depositato in Cassazione il quesito referendario per (l’ennesima) riforma della legge per l’ottenimento della cittadinanza italiana. Questo referendum è frutto del dialogo di diverse entità politiche e sociali, quali i rappresentanti delle varie reti delle Nuove Generazioni Italiane come SiMohamed Kaboor del Conngi e Idem Network, Italiani Senza Cittadinanza, +Europa, Rifondazione Comunista e tanti altri. La riforma consisterebbe nel ridurre gli anni di residenza continuativa dalla legge 91/1992 da 10 a 5.
Ridurre gli anni a 5 consentirebbe un accesso molto più equo alla pratica di richiesta della cittadinanza a tutte quelle persone ormai de facto italiane ma con un passato di residenza incerta anche a causa di un sistema intrinsecamente classista e razzista nei confronti di chi ha un background migratorio.
Lo strumento della cittadinanza non solo garantisce eguali diritti di fronte allo Stato Italiano, ma è anche uno strumento emancipatorio di inclusione sociale e riforma strutturale del tessuto della popolazione italiana.
Storicamente la cittadinanza è stato uno strumento di esclusione più che di inclusione, infatti veniva concessa solo ad una piccola categoria di persone ritenute ‘’degne’’ di questo privilegio e con caratteristiche ritenute uniformanti del tessuto sociale – quali ad esempio l’appartenenza di sangue e di ceto – escludendo a priori le persone di diversa origine etnica e in condizione economica svantaggiata.
La cittadinanza, quindi, non è un semplice processo tecnico-legislativo, ma è un fenomeno con profonde implicazioni sulla distribuzione delle risorse e del potere all’interno della nostra società. In questo senso si può affermare che la lotta per la cittadinanza non si tratta solamente di concedere un diritto civile agli stranieri, ma è un diritto sociale inquadrabile nella più ampia lotta di classe in cui le classi subalterne sfidano le stesse strutture di potere che perpetuano la loro marginalizzazione.
In un contesto europeo sempre più globalizzato e sempre più diseguale, la lotta di classe si manifesta anche tramite la rivendicazione di un accesso più equo ed inclusivo alla cittadinanza italiana e di conseguenza anche all’accesso a diritti sociali, economici e politici.
Non si chiede quindi solo un diritto di voto, si parla anche di diritto all’istruzione, alla salute, all’abitare e alla libertà di movimento, spettanze spesso negate a causa di un passaporto non coincidente con l’esperienza di vita della persona. Questi diritti sono essenziali per garantire una partecipazione paritaria alla vita pubblica e una serenità documentale all’interno della sfera privata della persona.
Le persone con background migratorio, com’è stato ampiamente riportato dalla cronaca degli ultimi quarant’anni, sono in una posizione considerabile inferiore rispetto ai cittadini italiani, con una maggiore incidenza di reati contro la persona con l’aggravante dell’odio razziale spesso non riconosciuto dalle autorità giuridiche preposte. L’acquisizione di pari diritti è quindi un terreno di scontro tra chi detiene il potere e chi invece rimane escluso dai benefici del sistema politico ed economico. Il riconoscimento dei diritti politici da parte delle persone di background migratorio diventa uno strumento di influenza diretta sulle decisioni riguardanti le politiche pubbliche mirate a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale ‘’senza distinzione di razza, lingua, religione […]’’ come previsto dagli articoli 3, 34 e 38 della nostra Costituzione.
Le nuove frontiere della cittadinanza comprendono quindi non solo il diritto di voto, ma anche il diritto all’abitazione, all’istruzione, alla salute, e alla mobilità sociale e sul territorio. Questi diritti sono spesso negati ai non cittadini, come ad esempio gli extracomunitari, creando così una “cittadinanza di seconda classe”. La riforma della cittadinanza deve quindi affrontare questi temi con un approccio integrato che tenga conto delle dinamiche di classe e di razza.
Ad oggi, con l’attuale legge, si è creata una profonda frattura sociale tra ‘’cittadini di prima classe’’ – italiani autoctoni- e i ‘’cittadini di seconda classe’’ – le persone de facto italiane ma con passaporto straniero. Questa frattura sociale ha avuto importanti conseguenze soprattutto per gli appartenenti alla classe lavoratrice operaia, spesso precaria, in condizioni di semi-schiavitù e in una posizione molto più ricattibile rispetto ad un lavoratore precario con cittadinanza italiana. La nostra economia si sorregge su questi lavoratori che ‘’fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare’’, ossia sottopagati e con tutele sindacali quasi pari allo zero come ad esempio nel campo della logistica, i lavori domestici e di cura, l’agricoltura e l’edilizia, conosciuti soprattutto per la durezza e le condizioni precarie.
Leggi come la Bossi-Fini del 2002 che legarono a stretto giro il contratto di lavoro con il permesso di soggiorno sono responsabili di aver creato un terreno fertile per lo sfruttamento lavorativo. Il ricatto del mancato rinnovo del permesso di soggiorno e la paura della deportazione hanno portato migliaia di lavoratori stranieri ad accettare condizioni di lavoro umilianti e inumane con salari ben al di sotto dei minimi sindacali. Queste condizioni hanno contribuito a creare un’Italia differenziale fatta di persone che vivono ai limiti della società in condizioni di invisibilità e marginalizzazione con poche possibilità di emancipazione socio-economica.
Riconoscere la cittadinanza a chi è nato e cresciuto in Italia, o a chi vi ha vissuto per un lungo periodo e ha contribuito al tessuto sociale ed economico del Paese, significa abbattere le barriere dell’ingiustizia e ridurre le disuguaglianze strutturali. Significa garantire che tutti, indipendentemente dal loro background, abbiano la possibilità di partecipare alla vita democratica e di lavorare in condizioni dignitose e sicure.
È quindi fondamentale considerare la riforma della cittadinanza come parte integrante di un progetto più ampio di trasformazione sociale, che mira a ridurre la precarietà e lo sfruttamento, promuovendo l’inclusione e l’uguaglianza per tutti. Da un punto di vista prettamente marxiano e decoloniale questa riforma potrebbe essere un punto cruciale per la de-razzializzazione dei diritti e l’inizio della fine dell’egemonia culturale di radice coloniale nel nostro paese. Gli immigrati di origine non europea e i loro figli, anche se nati e cresciuti in Italia, affrontano un doppio standard: devono “dimostrare” di essere culturalmente assimilati per essere considerati italiani a tutti gli effetti. Questo si riflette anche nelle politiche migratorie e nelle campagne elettorali, spesso dominate da discorsi sull’integrazione “culturale” che mascherano esclusioni razzializzate per mantenere implicitamente uno status quo basato su una determinata appartenenza razziale e culturale.
In conclusione vediamo come la cittadinanza sia diventata una vera e propria arena di conflitto di classe, dove le dinamiche di inclusione/esclusione sono influenzate dalle eredità coloniali e dalle necessità capitaliste di controllo del lavoro. In Italia, la riforma della cittadinanza rappresenta non solo un cambiamento giuridico, ma anche un ripensamento delle dinamiche di potere che continuano a mantenere le disuguaglianze di classe e razza all’interno della società.
Sara Tanveer