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Covid e rivolte

di Fabio
Alberti

di Fabio Alberti

“Il regime è più pericoloso del coronavirus” Con questa consapevolezza, l’Hirak, il movimento algerino di protesta, aveva tenuto il 14 marzo la sua ultima manifestazione di piazza ad Algeri, sfidando gli appelli a restare a casa per evitare il contagio. Ma la settimana successiva, anche dopo un appello dei “medici per l’Hirak”, il movimento ha dovuto sospendere l’appuntamento settimanale e invitare la popolazione a rispettare misure di distanziamento sociale. Sarebbe stato il 57° venerdì consecutivo di mobilitazione dall’inizio della rivolta iniziata nel febbraio 2019 in opposizione alla quinta ricandidatura del presidente Abdelaziz Bouteflika, ormai ottantaduenne in grave stato di salute, e dell’elite di potere che lo circonda e sostiene. Venerdì 22 marzo quindi le strade per la prima volta da un anno sono rimaste vuote, mentre il movimento doveva ricercare nuove forme di mobilitazione. Nel frattempo, comunque, il regime aveva provveduto a vietare tutte le manifestazioni e si preparava a reprimerle.

Il virus che ha invaso il mondo non miete solo vittime umane, ma si sta abbattendo anche sui movimenti popolari che solo qualche mese fa avevano messo in difficoltà regimi di molte latitudini e che il Washington Post ha definito la più grande ondata di movimenti di massa nonviolenti della storia. Da Hong Kong, al Cile, da Haiti, a Baghdad, da ogni parte, arrivano però segnali che la pandemia non è una tregua, ma l’occasione per i regimi per cercare di regolare i conti con i propri oppositori indeboliti dal virus e, se possibile, per prevenirli nel futuro.

La tentazione di istituire misure di restrizione della libertà giustificate dalla pandemia, ma che potrebbero essere mantenute nel tempo è ampia. Secondo quanto riportato sul “COVID-19 Civic Freedom Tracker”, misure di sospensione dei diritti di manifestazione e di riunione sono state istituite in 89 paesi. Solo 13 Stati hanno però notificato all’Onu lo stato di emergenza.

I movimenti di protesta hanno dovuto abbandonare le piazze e dedicare molte energie a fronteggiare l’epidemia dedicandosi a campagne di informazione e all’assistenza della popolazione. “Abbiamo tolto i passamontagna e messo le mascherine” ha sintetizzato un attivista libanese. Trovandosi così nella contraddizione di chiedere a governi refrattari di rafforzare le misure di contenimento della diffusione del virus che legittimano anche la limitazione delle libertà politiche.

“Solo il popolo può salvare il popolo” ha detto un attivista algerino, sottintendendo che non lo avrebbe fatto il regime. Ma se la protesta ha dovuto abbandonare le piazze, non così il regime che invece sta approfittando non solo per vietare le manifestazioni, e colpire la stampa, ma continuando nell’opera di criminalizzazione degli attivisti. Secondo Human Rights Watch tra gli oltre 5.000 detenuti scarcerati il 26 marzo, come misura di prevenzione, non compaiono gli arrestati durante le proteste, almeno 173 secondo il Comité National pour la Libération des Détenus. Anzi, per evitare di dover scarcerare il coordinatore della Democratic and Socialist Union, la cui condanna per aver “minato il morale dell’esercito” stava terminando, ha inscenato un processo di urgenza senza difensore per poterlo condannare nuovamente e tenerlo in prigione.

In Iraq il regime ha davvero ucciso più del virus: oltre 600 manifestanti uccisi durante le proteste da ottobre a marzo e 82 decessi ufficiali per coronavirus. Un numero molto inferiore al vero, come ha sostenuto il corrispondente da Baghdad della Reuters, guadagnandosi una sospensione di tre mesi e una multa di 20.000 dollari per procurato allarme, ma è ancora lontano dal numero delle vittime della repressione.

La restrizione della libertà di informazione con la scusa del Covid-19 che ha colpito la Reuters irachena non è un fatto isolato. 22 stati hanno emanato provvedimenti di limitazione della libertà di stampa. In Turchia ad esempio è stata intrapresa un’azione legale contro 316 titolari di account che hanno condiviso “false” informazioni sul Coronavirus aventi scopo “provocatorio”, in Egitto per la stessa ragione è stato espulso un corrispondente del Guardian, in Giordania sono stati arrestati due operatori televisivi.

Il timore che una chiusura completa avrebbe potuto essere rischiosa per il futuro della “rivolta di ottobre” sembra aver consigliato i coordinamenti iracheni a non abbandonare del tutto le piazze dove le tende non sono state smantellate e le piazze continuano ad essere presidiate da gruppi ristretti di attivisti con guanti e mascherine. Ma la partecipazione si è ridotta, gioco forza, a gruppi più “militanti”, alcuni dei quali dicono di voler rimanere in piazza per timore delle uccisioni mirate che continuano nelle case degli attivisti più in vista. Sono anche state tenute nuove manifestazioni con “distanziamento sociale”, ad esempio per rigettare l’ennesimo candidato premier, ma la partecipazione è stata scarsa.

Ma soprattutto la loro voce è diventata più debole. Per mesi il movimento e le sue richieste erano stati centrali nel dibattito politico del paese. Ora l’attenzione è stata spostata sulla pandemia e l’establishment politico settario che governa dai tempi dell’invasione statunitense ha ripreso il linguaggio di sempre. Nella formazione del governo che probabilmente sarà eletto a breve con la convergenza di gran parte dei blocchi politici, si è ripreso a parlare esplicitamente delle quote etnico-religiose come criterio di composizione del governo rigettando, nei fatti dopo averla accettata a parole, la principale rivendicazione dei giovani e delle giovani irachene.

La rivolta era già stata duramente colpita dal dispiegarsi sul territorio iracheno del conflitto a bassa intensità tra Stati Uniti e Iran, che si trascina da mesi con lanci reciproci di razzi, ma si era saputa riprendere dimostrando una persistenza stupefacente.

In Libano la polizia ha subito approfittato dell’occasione data dall’emergenza sanitaria e dalla dichiarazione di lock down il 27 marzo per distruggere le tende in piazza dei Martiri al centro di Beirut. Ma la piazza era già di fatto semivuota. Anche in Libano l’emergenza sanitaria ha cambiato l’agenda politica e della società civile e costretto lasciare le piazze e cercare nuove modalità di mobilitazione.

Le manifestazioni in Libano erano iniziate in ottobre contro l’aumento di alcune tasse, ma poi si erano rapidamente trasformate in un movimento per un cambiamento radicale contro il sistema di divisione del potere per comunità etnico-religiose instaurato dai francesi, chiedendo e ottenendo la caduta del governo.

Nel frattempo, lo Stato libanese ha dovuto dichiarare la bancarotta. “Abbiamo fermato le proteste per proteggere noi e i nostri fratelli e sorelle dalla pandemia, ma gli ultimi avvenimenti con il crollo della sterlina e l’impennata di povertà e l’inazione del governo verso le sofferenze dei cittadini ci costringono a riprendere le strade.” Così per venerdì prossimo è stata chiamata una nuova giornata di mobilitazione in tutto il paese, questa volta in automobile.

I movimenti stanno sperimentando nuove forme di mobilitazione, in auto o in fila ad un metro di distanza, sul web o in televisione, come con Assolta4, la TV online della rivolta lanciata in Libano da 10 attiviste. E si stanno concentrando sulla contestazione delle politiche pubbliche di approccio alla pandemia e alle sue conseguenze sociali e mettendo in campo una miriade di attività mutualistiche e di solidarietà. Ma per ora le partite politiche che avrebbero potuto portare al cambiamento delle costituzioni di tutti e tre gli stati mediorientali attualmente in rivolta sono quantomeno rinviate, sperando di poterle riprendere.

Algeria, Assolta4, Covid-19, COVID-19 Civic Freedom Tracker, Giordania, Iraq, Libano
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