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Mettere una parola al servizio dell’umanità mi sembra in questi giorni così necessario e allo stesso tempo così drammaticamente difficile. Il mio corpo è percosso da una sensazione di oppressione che mi costringe a stare piegato, devo ragionare per tirarmi su. Lo stomaco è un grumo di tensione, mi ritrovo con la mascella serrata e la bocca deformata in uno spasmo di disgusto. Ma la parte più opprimente è la mente, vorticano nuvolaglie di pensieri indistinti e angosciosi, vedo grida, urla, accuse, vedo rovesciare sugli altri la scure del torto e chiudersi sulle caviglie i ceppi della ritorsione. La parola vendetta si moltiplica in una eco che risale indietro nel tempo e si proietta sempre più vasta sul futuro.
Ma non riesco a non credere che una diversa narrazione sia possibile. Non rinuncio a crederci, anche se con così poca forza la vedo rappresentata nei messaggi e nei media, nelle dichiarazioni rilanciate dai notiziari, dalle reazioni annichilite o annichilenti di chi condanna o gioisce, di chi sceglie una parte, di chi accoglie la dinamica del nemico e fa dell’altro un bersaglio disumanizzato.
Scrivo in un’aria rarefatta, sento che mi serve, che alleggerisce la mia pena, ma è una scrittura senza destinatari, fatta per mettersi a nudo, per esprimermi per come sento anche se spero di trovare interlocutori.
Non sono stato attento all’inizio, non ho capito subito cosa fosse successo e quando lo scenario mi è apparso lo ha fatto con una violenza indicibile e inusitata. La molla della tapparella è scattata, l’inferno ha raggiunto persone innocenti, giovani sono stati inseguiti e trucidati, famiglie sterminate, bambini…
Non possiamo non piangere, ma non dobbiamo solamente piangere. E soprattutto non dobbiamo separare i fatti, ma seguire le spire della molla mentre si stringe e si avvicina al punto di rottura. Cercare ragioni non si fa nel qui e ora, si deve allontanare lo sguardo, cambiare punto di vista, interrogarsi. Perché la questione non è Israele oggi, l’Ucraina solo ieri, l’Armenia nel mentre e decine di altri sullo sfondo, la questione è per quale “umanità” abbiamo progettato il nostro sistema produttivo. A chi pensiamo quando diciamo “essere umano” e chi lasciamo fuori come elemento inservibile e sacrificabile.
Certo, nessuna giustificazione è possibile, teniamo fermo questo concetto. Ma una riflessione è necessaria. Cosa ci serve per finalmente capire che non è quello che fanno gli altri, ma cosa facciamo noi quello su cui possiamo agire e dirci che è diventato impellente farlo?
La copertina del libro di Alessandro Scassellati Suprematismo Bianco, edito da Derive Approdi, riporta i crani rasati di maschi bianchi, che rimandano alle forze reazionarie di uno squadrismo fascista da cui possiamo certamente sentirci distanti, ma è forse l’unico abbaglio in cui cade quel libro illuminante e necessario. Il suprematismo bianco che noi soffriamo oggi è quello che viviamo e coltiviamo nel nostro quotidiano, quello su cui tutti ci appoggiamo, che ci rende ciechi e sgomenti quando usciamo dalla nostra bolla. È un rimosso colossale su cosa comporta per gli “altri” il modello di sviluppo occidentale e capitalista, che permette ai nostri politici di considerare i senegalesi migranti economici (e quindi da restituire al mittente) senza considerare le conseguenze devastanti dei patti commerciali sulla pesca, agli investitori europei che spiantano gli orti di sussistenza per piantare colture da reddito di non considerare i destini delle popolazioni locali, come già ci raccontava il maestro Alberto Manzi nel suo E venne il sabato (Baldini e Castoldi) per gli indigeni dell’Amazzonia e, attenzione il salto è micidiale, ai giovani israeliani di godersi della buona musica a un passo dalla prigione di Gaza.
Quando ero bambino la paura e la responsabilità più grande che provavo era quando aiutavo mio padre a risistemare le tapparelle di casa. All’epoca erano pesanti, in legno, e per tirarle su nell’incasso della struttura c’era un meccanismo a molla. Per me quella spirale di acciaio aveva un fascino morboso, maneggiarla era una prerogativa che volevo mi fosse affidata, anche se il rischio era palese, bisognava caricarla e quando era al massimo della tensione agganciarci la corda piatta della tapparella, con una vite corta che andava prima infilata nella stoffa e poi avvitata alla molla, tutto era da tenere in mano precariamente, la corda già agganciata all’asse di rotazione, la molla nell’alloggiamento da reinserire nel muro. Era esaltante governare tutta quella precarietà, ma la fantasia continuava a dipingere gli scenari peggiori, in cui qualcosa andava storto e la molla si liberava fendendo aria e ferendo mani e braccia. Questa molla che scatta mi è rimasta a simbolo di tutte le situazioni in cui cerchiamo di costringere gli altri a piegarsi al nostro desiderio, senza ascoltarli e senza, drammaticamente, rispettare la loro natura.
In questi tempi di dolore, in cui governi e decisori politici stanno dando prova di una cecità ecosistemica totale, cerco il coraggio affinché come persone, abitanti, cittadini, popoli si riesca ad alzarci e parlare, far sentire lo sgomento e il dissenso, testimoniare apertamente la richiesta di pace, costruire nei cuori e nelle azioni l’alternativa che vogliamo veder realizzata.
Dentro di me cerco una strada per dare luce all’idea di una scelta umanitaria che non abbia altri come destinatari, ma incida su ciò che noi riteniamo possibile: che il benessere ci sia e sia per tutte e tutti, che il pianeta sia preso per quello che è e non spremuto per ciò che può essere trasformato in un prezzo, perché la vita, di ciascun uomo, donna, essere vivente sia considerata nel suo profondo inestimabile valore.