Sulla Palestina riproponiamo due articoli in successione, dal più al meno recente.
Conflitto mediorientale. Nascita e involuzione dello Stato di Israele 11/06/2021
Con la Risoluzione n. 181, approvata dall’Assemblea Generale dell’ONU, iniziò il 29 novembre del 1947 l’iter che portò alla costituzione di Israele come Stato. Al costituendo Stato fu assegnato il 56% della “Palestina mandataria” e il 44% al futuro Stato di Palestina. La ripartizione non rispecchiava le proporzioni della presenza sul territorio di ebrei (20%) in quanto Israele era destinato ad accogliere gli ebrei desiderosi di una patria dopo l’incubo della Shoa.
Il mandato alla Gran Bretagna di amministrare la Palestina scadeva il 15 maggio del 1948 e il giorno prima, «vigilia di sabato 5 Iyar 5708, sul suolo della patria, nella città di Tel Aviv», il Consiglio di Stato provvisorio del costituendo Stato firmò la Dichiarazione della Fondazione di Israele. Esordisce così: «In Eretz Israel è nato il popolo ebraico, qui si è formata la sua identità spirituale, religiosa e politica, qui ha vissuto una vita indipendente, qui ha creato valori culturali con portata nazionale e universale e ha dato al mondo l’eterno Libro dei Libri». Ricordato che il primo congresso sionista aveva «proclamato il diritto del popolo ebraico alla rinascita nazionale del suo Paese» – diritto «riconosciuto nella dichiarazione Balfour il 2 novembre 1917», inserito nel Mandato della Società delle Nazioni e riconosciuto dalle Nazioni Unite – dichiara «la fondazione di uno Stato ebraico in Eretz Israel, che avrà il nome di Stato d’Israele» e «sarà aperto per l’immigrazione ebraica e per la riunione degli esuli, incrementerà lo sviluppo del Paese per il bene di tutti i suoi abitanti, sarà fondato sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace come predetto dai profeti d’Israele, assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso, garantirà libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura, preserverà i luoghi santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite».
Gli auspici dei “padri fondatori” furono smentiti immediatamente. Quando Ben Gurion proclamò, lo stesso 14 maggio, la nascita dello Stato di Israele, già da alcuni giorni bande armate avevano avviato l’operazione che avrebbe portato alla distruzione di 400 fra città e villaggi palestinesi e all’esodo forzato di circo 700.000 palestinesi. È quella descritta dallo storico israeliano Ilan Pappe nel suo libro La pulizia etnica, che con modalità diversa è proseguita sino a oggi.
Non a torto i palestinesi ogni anno da allora ricordano il 15 maggio come la Nakba, ovvero la catastrofe.
Ma come è avvenuto questo capovolgimento di prospettiva che ha dato luogo alla “guerra infinita” che dura da 73 anni e non accenna a finire?
I fattori sono diversi e intricati. I principali mi sembrano tre: le degenerazioni delle religioni in fondamentalismi e poi in fanatismi sino ad animare il terrorismo; l’esasperazione dei nazionalismi; l’imperialismo. Partiamo dall’ultimo, determinante per la nascita e la sopravvivenza di Israele, ma marginale per la sua involuzione.
Il legame dell’imperialismo occidentale con Israele nasce con la Dichiarazione di Balfour, è proseguito con il mandato conferito dall’ONU alla Gran Bretagna (v. Adista Segni Nuovi n. 21) e si è rafforzato con la crisi di Suez del 1956 quando, all’annuncio di Nasser della nazionalizzazione del Canale di Suez, le forze armate israeliane immediatamente invasero l’Egitto e fu guerra. L’Inghilterra e la Francia inviarono nell’area le proprie navi da guerra con truppe terrestri a bordo, con l’obiettivo di consolidare le proprie posizioni di potenze imperialiste intervenendo per far cessare i combattimenti e ripristinando la situazione quo ante. Ma le cose andarono diversamente. L’Unione Sovietica (altra potenza imperialista) alzò forte e minacciosa la propria voce e intervennero anche gli USA. La crisi fu superata, ma non grazie a Francia e Inghilterra, sicché quella vicenda segnò il cambio di bandiera dell’imperialismo occidentale, che da allora sostiene con ancora più forza il proprio avamposto nel mondo arabo, ma con la bandiera a stelle e strisce.
A essere determinante nel configurare Israele quale patria nazionale esclusivamente del popolo ebraico, come stabilisce la Legge sullo Stato-Nazione approvata nel luglio 2018, e fare dell’essere ebreo un’identità che garantisce supremazia su altre persone, è stato il fondamentalismo.
Con questo termine si è indicato originariamente un fenomeno sviluppatosi in seno al cristianesimo statunitense a impronta protestante. Originatosi all’epoca della guerra di secessione, si rinfocolò dopo le Seconda guerra mondiale (1939-45). In realtà il fondamentalismo è una malattia di tutte le religioni, che consiste nell’irrigidimento in un’adesione intransigente ai principi fondamentali dell’ortodossia e si sviluppa di solito in presenza di tensioni prodotte da traumi e shock sociali. Come talune malattie possono comportare complicazioni capaci di portare alla morte, i fondamentalismi (che possono derivare anche da fedi non religiose ma ideologiche) possono degenerare in fanatismi e dare la morte se sfociano in terrorismo.
In Medio Oriente si scontrano due fondamentalismi, quello ebraico e quello islamico, che si incentivano a vicenda. Ne ha fatto e ne fa le spese Fatah, movimento politico laico e democratico che rivendica la Palestina in nome del Diritto.
Il fondamentalismo ebraico lo si può datare dal 70 dopo Cristo, anno in cui il Tempio di Gerusalemme fu distrutto dai Romani. Per quel che ci riguarda, basta risalire ad anni molto più vicini, cioè alla formazione di una corrente religiosa in seno al sionismo. Il quale era nato laico, come laico era il suo fondatore Theodor Herzl. Ponendosi l’obiettivo di costituire uno Stato per gli ebrei senza attendere la venuta del Messia, rappresentò una sorte di secolarizzazione dell’attesa messianica. Tanto che ebrei ortodossi e ultraortodossi considerarono il programma sionista come una sfida a Dio.
Nonostante la ferma posizione avversa dei loro rabbini molti ebrei ortodossi videro nel programma sionista l’anticipazione della redenzione messianica e vi aderirono con entusiasmo. Nacque così il sionismo religioso che si nutrì anche di acceso nazionalismo. Da lì al fanatismo il passo fu assai breve come frequentemente dimostrano i coloni degli insediamenti, nonché al terrorismo cui non poche volte ha fatto ricorso lo stesso Stato israeliano utilizzando raffinatissime tecnologie.
È appena il caso di sottolineare che l’ebraismo non va identificato con i suoi fondamentalismi e i relativi seguiti, come la religione musulmana non va identificata con i suoi fondamentalismi e tampoco con le loro degenerazioni fanatiche e terroristiche.
Il fondamentalismo islamico lo si data al 1928 con la nascita in Egitto dell’Associazione Fratelli Musulmani. Ve ne sono versioni diverse. Da esse sono derivati anche movimenti di fanatismo assoluto che sono ricorsi al terrorismo stragista come mezzo abituale di lotta. Ai nostri fini conviene soffermarsi su uno solo dei fondamentalismi islamici, su Hamas. Fondato nel 1987 con forte impronta religiosa e nazionalistica, si oppone all’occupazione israeliana con una strategia differente da quella di Fatah e con l’obiettivo di uno Stato islamico.
In questi intrecci di fondamentalismi e nazionalismi vanno individuati, a mio avviso, i fattori dello stravolgimento di Israele in Stato religioso per soli ebrei.
Gli opposti fondamentalismi si incentivano a vicenda, per cui Hamas, eccitando i fondamentalismi ebraici, ha in qualche modo contribuito anch’esso allo stravolgimento della natura di Israele, e non si può escludere che anche Fatah vi abbia influito, pur rivendicando legittimamente il diritto dei palestinesi sulla terra di Palestina, perché su di essa i fondamentalismi ebraici vantano l’esclusiva per lascito divino.
Appunto questo lascito è stato il principio ispiratore delle coalizioni che si sono succedute al governo di Israele, che hanno modificato Israele sino a farne uno Stato confessionale con la promulgazione della Legge dello Stato-Nazione e il trasferimento della capitale a Gerusalemme.
Non va trascurato che per conseguire tali risultati è stato necessario che morissero due premi Nobel per la pace: Rabin, per mano di un colono ebreo, e Arafat, per una malattia di cui si è molto scritto e parlato, e che venissero stracciati gli Accordi di Oslo di cui erano stati autori. Dopo di che il cammino verso la realizzazione del Grande Israele su tutta la Palestina sembrava inarrestabile.
L’era Netanyahu sembra però tramontare e Joe Biden ha inaspettatamente rilanciato la prospettiva di due Stati per due popoli. Nonostante le condizioni sul terreno non siano le migliori per attuarla, si può forse sperare che non siano i fondamentalismi a dire l’ultima parola?
Ebrei e palestinesi. All’inizio era la convivenza 27/05/2021
Le piogge di razzi e di bombe sono cessate, ma la situazione sembra peggiorare. Dallo scontro bellico con Israele il fronte palestinese esce più diviso di prima, con Hamas rafforzato, mentre sul fronte israeliano sembra di nuovo in sella Netanyahu che prima sembrava dover lasciare il potere anche grazie alla disponibilità dei partiti arabi di entrare nella maggioranza di governo, pur di sbarazzarsene.
Dello scontro causato dal tentativo di un gruppo di coloni israeliani di impadronirsi, con l’appoggio dell’esercito di occupazione, della Moschea di al-Aqsa a Gerusalemme risultano vincitori i due opposti estremismi al prezzo di 252 morti e di grandi rovine a Gaza. La pace resta ancora lontana.
Per capire qualcosa della “guerra infinita” tra Israele e il popolo palestinese occorre andare molto indietro nel tempo, a prima della proclamazione nel 1948 dello Stato di Israele. Gli effetti di quell’avvenimento sarebbero infatti incomprensibili senza sapere della nascita del Sionismo e della Dichiarazione di Balfour. Per apprezzare però il ruolo di questi due antefatti bisogna rapportarli al contesto europeo che li ha originati.
È quello che, anche se sommariamente, proviamo a esaminare.
In Europa come nei Paesi arabi ci sono state da sempre molte comunità ebraiche. Nei Paesi arabi non ebbero problemi. Anzi, quando nel 1492 la cattolicissima Spagna li espulse, gli “ebrei erranti” vi trovarono accoglienza e amicizia e lì hanno vissuto per secoli in armonia. Era del tutto normale che tra famiglie palestinesi e famiglie ebraiche vi fossero legami di amicizia.
Non così nei Paesi europei dove i “perfidi ebrei”, come nella liturgia cattolica è stato menzionato il “Popolo del Libro” sino a quando il Vaticano II abolì quella insulsa dizione, erano oggetto di discriminazioni e persecuzioni, anche di pogrom. Relegati nei “ghetti” e limitati nelle loro attività, quando nacque l’esigenza di finanziare il commercio sempre più fiorente, l’esercizio del credito fu affidato a loro, infedeli, poiché per i cristiani prestare soldi a interesse era peccato. Lo stereotipo dell’ebreo spilorcio, avido e usuraio è sorto così. La “questione ebraica” insomma è stata causata in Europa. Sin dai tempi antichi, per sfociarvi poi in un’orrenda tragedia.
Nel 1938 la situazione si aggravò terribilmente: in Germania e in Italia e anche in Austria, Francia, Polonia e Ungheria arrivò l’ignominia delle leggi razziali. Negli anni successivi fu l’orrore: si giunse a pianificare scientificamente e con precisione teutonica la tragedia della Shoah, che costò la vita a 6 milioni di ebrei.
Anche il colonialismo è un venefico prodotto dei Paesi del primo continente che hanno disseminato di “imperi” e “colonie” tutto il resto del mondo. Negli ultimi due secoli hanno dedicato al Medio Oriente particolare interesse, sfruttandone le enormi riserve energetiche e costruendovi, su progetto italiano e a opera di una compagnia francese, il Canale di Suez. Aperto nel 1869, è di vitale importanza per i commerci europei, tanto che Francia e Inghilterra non esitarono a inviare nell’area navi da guerra e truppe quando nel 1956 il presidente egiziano Nasser annunciò di volerlo nazionalizzare.
Tra l’‘800 e il ‘900 l’Europa è stata pure culla del nazionalismo che non risparmiò i Paesi arabi. Il nazionalismo è un movimento politico e ideologico che mira all’esaltazione e alla difesa della nazione. Senonché le nazioni, come afferma il filosofo Bendict Anderson, sono degli «artefatti culturali», delle «comunità immaginarie » che a volte si scontrano con la realtà. Andando in cerca di un nemico, infiammano gli animi e pongono i popoli l’uno contro gli altri. Nell’ultimo secolo ha causato guerre con milioni di morti.
In un clima di acceso nazionalismo, nel 1894, anno anche di forsennato antisemitismo si ebbe in Francia un errore giudiziario che fece epoca. Fu condannato e imprigionato per spionaggio e tradimento un ufficiale dell’esercito francese, Alfred Dreyfus, di religione ebraica (a distanza di anni l’errore fu stato riconosciuto e Dreyfus riabilitato e reintegrato nell’esercito tanto da partecipare alla guerra del ‘14-‘18). Il caso ebbe grande clamore e non solo in Francia. Colpì particolarmente un giornalista ungherese, di lingua tedesca, Theodor Herzl, corrispondente da Parigi del quotidiano viennese Neue Freie Presse. Herzl, ebreo, convinto che gli ebrei dovessero avere un proprio Stato per vivere in pace, colse l’“affaire Dreyfus” per fondare insieme a Max Nordau un movimento ebraico irredentista che, con il significativo nome di sionismo, prese vita nel Congresso di Basilea del 1897. Il sionismo, con diverse posizioni culturali al suo interno e una forte impronta nazionalista, mosse alla ricerca di «una terra senza popolo per un popolo senza terra». In un primo momento si orientò anche verso aree ben lontane dalla Palestina, quali Kenya, Uganda e persino America Latina e Canada. Ma un nuovo avvenimento ne mutò l’indirizzo.
Nel 1914 era scoppiata la “grande guerra” tra quattro imperi dell’epoca, l’Austro-Ungarico e l’ Ottomano contro Gran Bretagna e Francia. Vi si aggiunsero, per ragioni irredentistiche l‘Italia e, per ragioni economiche, gli USA.
Al profilarsi della sconfitta e quindi della dissoluzione dell’Impero ottomano l’attenzione delle principali potenze vincitrici, Gran Bretagna e Francia, puntò sull’opportunità di spartirsene le spoglie e di porre nell’area strategicamente rilevante del Medio Oriente un proprio avamposto. Il 12 novembre del 1917 il primo ministro della Gran Bretagna, Balfour, dichiarò ai massimi esponenti del sionismo che la Corona britannica avrebbe visto di buon occhio l’insediamento in Palestina di un “focolare” per il popolo ebraico. Così, per dirla con le parole dello scrittore ebreo Arthur Koestler, «una Nazione promise a un’altra Nazione la terra di una terza Nazione». È la nascita della “questione palestinese”.
Finita la “grande guerra” e dissoltosi l’Impero ottomano, non per caso la Società delle Nazioni affidò il “mandato” di amministrare la Palestina proprio alla Gran Bretagna che non mancò di fare inserire nel “mandato” i termini della Dichiarazione di Balfour. L’Inghilterra si fece così dare ufficialmente l’incarico di costruire le condizioni per la nascita di uno Stato per gli ebrei in Palestina.
Durante il “mandato britannico” iniziò l’afflusso nella “Palestina mandataria” di una consistente corrente migratoria di famiglie ebree che vi comprarono quanti appezzamenti di terreni agricoli poterono. Verso l’ultimo periodo del mandato – scadeva il 15 maggio del 1948 – iniziarono, debolmente contrastate dalle forze armate britanniche, anche scorribande di squadre di civili armati, considerati eroici patrioti dagli ebrei sionisti e temibili terroristi dai palestinesi. Appartenevano alla Banda Stern, di cui la Storia non parla bene.
Le condizioni perché potesse rapidamente sorgere in Palestina uno Stato per il popolo ebraico erano dunque realizzate e l’obiettivo degli imperialismi europei raggiunto. Un nuovo soggetto stava quindi per entrare nella Storia del mondo. È di tale importanza che merita un racconto a parte.
Queste note non possono concludersi però senza sottolineare l’enorme responsabilità dell’Europa che da 73 anni assiste inerte alla guerra tra due popoli che si contendono una terra sulla quale per secoli erano convissuti in pace e amicizia. Guerra causata dallo scontro delle due “questioni” da essa stessa direttamente generate.
Nino Lisi è membro della Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese