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Cinquant’anni di ‘soffocante occupazione’

di Tommaso
Chiti

A quasi trent’anni esatti dal riconoscimento reciproco dei ‘due popoli in due stati’ con gli Accordi di Oslo (settembre 1993), siglati sotto l’egida USA fra il Capo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), Yasser Arafat ed il Premier israeliano Yitzhak Rabin – poi assassinato da estremisti sionisti per questa apertura -, il conflitto israelo-palestinese ha subito una nuova terribile escalation.

Proprio sfruttando lo scompiglio politico creatosi dopo la morte di Rabin nel 1996 il Likud, principale partito della destra confessionale e colonialista, prese il potere nel 1996 con l’ascesa di Benjamin Netanyahu a primo ministro. Fra le recenti tappe politicamente più significative della deriva nazionalista di stampo illiberale si annotano il riconoscimento unilaterale USA di Gerusalemme come capitale di Israele (dicembre 2017), la modifica costituzionale con la designazione del paese come “Stato ebraico” (luglio 2018) e infine la riforma del sistema giudiziario (gennaio 2023), con il controllo governativo sulla composizione della magistratura.

Passaggi politici interni che segnano tuttavia una strada autoritaria, contestata duramente nei mesi scorsi con numerose proteste di piazza non solo a Tel Aviv; e lastricata sulle ripetute guerre alle popolazioni palestinesi, divise prima territorialmente dal muro della Green Line (2002) e poi politicamente dalle contrapposizioni fra l’organizzazione di Hamas – eletta a Gaza nel 2004 – e la fazione di Fatah di Abu Mazen, al potere come ANP in Cisgiordania, incapaci perciò di rappresentare la popolazione in modo unitario.

Per questo sul piano diplomatico i continui raid nei campi profughi, come a Jenin, le incursioni con rastrellamenti di minori, la detenzione di migliaia di prigionieri politici – arrivati nelle ultime settimane intorno alle 7mila persone detenute in Israele -, compresa l’uccisione di una giornalista di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, hanno accompagnato il progetto israeliano di pacificazione con il mondo arabo, escludendo il coinvolgimento dei palestinesi con i biblici ‘Accordi di Abramo’.

Una strategia d’isolamento dei palestinesi di Gaza – stretti da anni nella morsa di continui embargo – e di separazione «dai palestinesi di Giudea e Samaria», come ha dichiarato all’Assemblea ONU di qualche mese fa lo stesso primo ministro Nyethaniau.

Dichiarazione di un piano di segregazione internazionale diventata ancor più esplicita durante una successiva riunione del Likud, in cui lo stesso affermava che «chiunque voglia ostacolare la creazione di uno stato palestinese deve sostenere il rafforzamento di Hamas».

In questo contesto sono dunque intellegibili le ragioni che hanno spinto lo stesso Segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ieri a poche ore dalla dichiarazione congiunta d’invasione di terra dell’esercito israeliano e dopo giorni di incessanti bombardamenti su obiettivi civili, con circa 6 mila morti, di cui un terzo bambini. Nella riunione del Consiglio di Sicurezza Guterres ha affermato che “nessuna parte in un conflitto armato è al di sopra del diritto internazionale umanitario” riconoscendo “che gli attacchi di Hamas non sono arrivati dal nulla. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione”. Sebbene sussista nel diritto internazionale la difesa dell’integrità territoriale e della propria popolazione, questa non ammette però crimini contro civili inermi o eccessivo uso della forza nella ritorsione ad attacchi.

Il paradosso agghiacciante della politica oppressiva del colonialismo israeliano poi parte dal presupposto che i diritti umani abbiano fatto il loro ingresso nel diritto internazionale proprio con il Processo di Norimberga ai responsabili nazifascisti dell’Olocausto, ovvero il progetto di sterminio di minoranze come quella ebraica (Shoah) o rom (Porrajmos). In quel primo processo internazionale ad autorità di regimi oppressivi nei confronti anche dei loro stessi cittadini, alle popolazioni apolidi o comunque diffuse in più paesi per diaspore precedenti veniva comunque riconosciuta per la prima volta una soggettività giuridica nel consesso in cui – ad eccezione di pochi casi come per i prigionieri – gli unici attori erano gli stati nazionali e le loro organizzazioni.

La violenza disumana dello sterminio nazifascista con la percezione dell’Europa come luogo insicuro per le popolazioni ebraiche da un lato, così come la costernazione dei governi occidentali e l’accondiscendenza ad un progetto di insediamento nazionale, sulla scorta della dichiarazione Balfourt del 1917, furono di fatto propulsori della ripartizione delle terre di Palestina fra ebrei e palestinesi, con la risoluzione n.181 dell’Assemblea ONU del novembre 1947.

Inseguendo oggi la contromisura vendicativa della “punizione collettiva” del governo di estrema destra di Tel Aviv, con l’approccio “occhio per occhio” esplicitato dal ministro della Difesa, Yoav Gallant, per cui «Gaza non tornerà mai più a quello che era»;  l’Occidente rischia di diventare cieco di fronte alle violazioni dei diritti umani, in atto da settimane in quella prigione a cielo aperto, che è la Striscia di Gaza, con la popolazione intrappolata sotto ai bombardamenti israeliani, senza acqua, cibo ed energia elettrica.

Già perché mentre USA e UE avallano il piano di “sradicamento esemplare del terrorismo di Hamas” anche in conseguenza della strategia di lotta al terrorismo islamico, pare non ci si voglia rendere conto delle vittime civili di una semantica genocida, che identifica negli obiettivi militari di un’organizzazione da annientare l’intera popolazione palestinese, a Gaza, come sempre più a Jenin.

Dalla dichiarazione israeliana dello stato di guerra l’8 ottobre scorso, il bilancio dell’Osservatorio sugli Affari Umanitari (OCHA) è impietoso e addirittura nel bollettino di ormai dieci giorni fa riportava di 14 civili uccisi ogni ora, 6mila bombe sganciate in una settimana – quasi quanto quelle lanciate in un anno dagli USA in Afgahnistan – con la distruzione di 71 scuole, 5 ospedali, 62 fra centri di accoglienza, emittenti stampa o sedi dell’Agenzia delle Nazioni unite per il soccorso e il lavoro (UNRWA). Gli ordini di evacuazione del nord della Striscia poi secondo le organizzazioni per i diritti umani rappresentano un trasferimento forzato di popolazione palestinese, che equivale del tutto ad un crimine di guerra, paragonato da molti osservatori ad una seconda ‘Nakba’, la ‘catastrofe’ dell’esodo forzato palestinese dopo il conflitto arabo-israeliano del 1948.

Intanto solo 14 dirigenti di Hamas sono stati ufficialmente uccisi secondo l’esercito israeliano, bilancio di vittime superiore invece nel caso dei giornalisti accreditati, oltre alle migliaia di vittime inermi rimaste sotto le macerie della Striscia.

Sempre per tornare al 1996, all’ascesa della destra di Nyethaniau e alla deriva devastante che ha esposto anche la stessa popolazione israeliana alle reazioni dell’apartheid antipalestinese, proprio in quell’anno avvenne anche l’ultima significativa occupazione del Libano meridionale da parte di Tel Aviv con lo scopo di eliminare definitivamente Hezbollah, con cui tuttora si è rinfocolato il conflitto, a monito e riprova della strategia deleteria del governo.

All’opposto dell’invasione di terra, il minimo da chiedere in questo momento è un immediato cessate-il-fuoco, permettendo una tregua per l’apertura di corridoi umanitari.

In secondo luogo poi non è più sostenibile perseguire la soluzione militare di occupazione israeliana di nuove colonie, da un lato e di ritorsione armata palestinese, dall’altro. Serve invece una soluzione politica al conflitto sui confini dei due stati, che non trascuri neppure l’opzione di confederalismo democratico come prospettiva di convivenza plurale e pacifica di popolazioni con origini diverse, racchiuse in aree post-coloniali europee.

Al centro dell’annosa questione è indelebile il diritto all’autodeterminazione, la cui lotta non può tuttavia macchiarsi di altrettanti crimini contro popolazioni civili inermi. L’agguato di Hamas del 7 ottobre, oltre ad aver clamorosamente colto alla sprovvista i potenti apparati di difesa israeliana, ha puntato ad uno stragismo diffuso, pari a quello perpetrato anche negli ultimi anni dalle frange estremiste israeliane in una crescente escalation, evidente già nel 2021 con lo sfratto delle famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme, e poi con le irruzioni della polizia israeliana nella Spianata delle Moschee alla fine del Ramadan.

Dov’era la comunità internazionale in quel frangente? Dov’era durante la ‘marcia del ritorno’, mentre manifestanti pacifici e spesso armati solo di bandiere e qualche fionda, si accingevano alla battitura del muro di frontiera, venendo presi di mira come bersagli dei cecchini israeliani? Dov’era la comunità internazionale durante i raid nei campi di Jenin in Cisgiordania con l’uccisione impunita di una giornalista palestinese? Dov’era durante i rastrellamenti nella zona sacra della moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme?

Oggi siamo tutti ostaggi di questa spirale di violenza e sopraffazione. E mentre le cancellerie europee non sanno far altro che rincorrere la smania bellicista, in Germania e Francia arriva il divieto di manifestazioni in solidarietà del popolo palestinese, con i posti di blocco della polizia intorno ai quartieri arabi di Berlino, l’uso di lacrimogeni per disperdere manifestazioni nel quartiere di Kreuzberg; fino al clamoroso arresto di venerdì scorso a Lille di due componenti del sindacato francese più rappresentativo, la CGT. Brutto segno, di repressione del dissenso, che in tempi di guerra viene tacciato di tradimento, probabilmente con la funzione preventiva di silenziare l’indignazione da un’ulteriore escalation del conflitto, con l’imminente invasione di terra israeliana. Il portato inedito di queste restrizioni, oltre alla sovversione dell’assetto democratico come regime di garanzia del pluralismo e della libertà d’espressione pacifica, è altrettanto preoccupante se si pensa come proveniente da formazioni politiche sedicenti ‘progressiste’ o liberal-democratiche.

Altrettanto preoccupante è il corollario dell’ennesima retorica da ‘scontro d’inciviltà’, come quella scatenata dopo l’attentato alle Torri Gemelle, fra occidentali e gruppi di religione islamica. Un’involuzione di propaganda xenofoba, che rischia di ricacciarci nel terrore diffuso di venti anni fa e perciò da rifiutare assolutamente, a meno di non essere fra quei beneficiari politici, esponenti del radicalismo religioso e dell’estremismo politico reazionario, che da tempo ormai profittano reciprocamente di questa deriva, che un riferimento internazionalista come Vittorio Arrigoni sintetizzò dicendo: “fanno il deserto e lo chiamano ‘pace’ “.

Tommaso Chiti

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