Ci si interroga negli Stati Uniti e nel mondo su chi vincerà le elezioni del prossimo 3 novembre. In realtà questa è la domanda sbagliata. Se fossimo in Francia, dove vige un sistema semi-presidenziale, ad esempio, avremmo una serie di certezze sul voto che ci permetterebbero di dire che chi vince le elezioni diventa il Presidente e questo sarebbe valido anche per molti altri Paesi. Ma non per gli Stati Uniti.
In questo caso occorre formulare due domande. La prima che viene alla mente, “chi vincerà le prossime elezioni” non è la più importante. La domanda decisiva è “chi sarà il prossimo Presidente degli Stati Uniti?” e, per una serie di ragioni che cercherò di richiamare in questo articolo, le due domande non hanno necessariamente la stessa risposta.
Nelle elezioni degli Stati Uniti, chi perde può vincere
È necessario ricordare, innanzi tutto, quanto è avvenuto nel 2016. Allora Hillary Clinton ottenne il 48,2% mentre Trump raccolse solo il 46,1%. Mitt Romney, il candidato repubblicano sconfitto quattro anni prima da Obama aveva ottenuto il 47,2% dei voti. Otto anni prima John McCain fu largamente sopravanzato da Obama ma ottenne comunque il 45,7%, una percentuale simile a quella di Trump, con la differenza che nel suo caso produsse una netta sconfitta. Da parte sua Hillary Clinton ha ottenuto meno voti di Obama, sia rispetto al primo che al secondo mandato, e all’incirca la stessa percentuale degli sconfitti John Kerry e al Gore (che però aveva comunque superato Bush figlio nel voto popolare).
Quindi si può dire che la Clinton ha vinto le elezioni ma Trump è diventato Presidente degli Stati Uniti. Si è trattato per altro di uno scontro tra due candidati piuttosto impopolari. Se si ripercorre all’indietro la storia delle elezioni presidenziali si vedrà che solo in due casi negli ultimi decenni due Presidenti sono stati eletti con una percentuale inferiore a quella di Trump. E si tratta di due casi (una volta Nixon e una volta Clinton) nei quali erano presenti due forti candidati alternativi (il segregazionista Wallace e il miliardario populista Perot) che hanno sottratto voti ad entrambi i partiti principali del sistema).
La Clinton, espressione dell’establishment del suo partito, ha pagato il fatto di non riuscire a conquistare tutto il potenziale voto democratico, mentre Trump che irrompeva dall’esterno dell’establishment conservatore classico, ha potuto mobilitare quello repubblicano che però è tendenzialmente minoritario. Inoltre la candidata democratica ha commesso alcuni importanti errori nella campagna elettorale, non impegnandosi a conquistare consensi decisivi in alcuni Stati che ha poi perso per una manciata di voti.
Trump non ha vinto grazie ad un’ondata di favore popolare, ma ha saputo rinsaldare il voto dei settori tradizionalmente repubblicani (evangelici, possessori di armi, ambienti rurali, suprematisti bianchi, ma anche la maggioranza del ceto medio alto) e questo ha sorpreso soprattutto coloro che pensano che le elezioni si vincano al centro. Tesi che si basava sull’esito di due elezioni presidenziali nelle quali candidati considerati troppo sbilanciati a destra, come Barry Goldwater, o troppo a sinistra, come George McGovern, subirono una pesante sconfitta. Ma oggi sottovalutava l’impatto della crisi del neoliberismo e della globalizzazione.
L’America non è diventata trumpiana ma il partito repubblicano sì. Siamo di fronte a una situazione assai diversa da quella caratterizzata dalla vittoria di Ronald Reagan che aprì il ciclo neoliberista. In quel caso ci fu una vera e propria landslide (valanga) a favore del candidato repubblicano che pure era già considerato piuttosto sbilanciato sulla destra. Si parlò allora di “democratici reaganiani” per individuare un settore di elettorato che pur continuando a sentirsi democratico condivideva alcuni dei temi neoliberisti popolarizzati dall’ex attore hollywoodiano come la riduzione delle tasse e il ridimensionamento in generale del ruolo dello Stato assistenziale. Trump in questi quattro anni non è riuscito a conquistare in misura significativa elettori esterni al suo campo. Fecero eccezione alcuni settori di voto di working class di Stati del Midwest che si spostarono a destra perché convinti dalle promesse protezioniste di Trump, a cui faceva fronte una candidata come la Clinton considerata (non a torto) troppo legata alle grandi corporations e alla mentalità “globalista”.
Questo spostamento limitato di una frangia di elettori, essendo molto concentrato in alcuni Stati importanti è diventato decisivo per effetto del sistema elettorale Usa che non si fonda sull’elezione diretta del presidente ma su un collegio elettorale a base statale e fondato sul principio maggioritario. In questo meccanismo pesano diversi fattori storici. Sicuramente la natura federale degli Stati Uniti, ma anche l’ispirazione oligarchica di coloro che definirono i principi costituzionali americani per i quali il riconoscimento della sovranità popolare (un popolo che comunque escludeva neri e donne) doveva comportare dei freni affinché non venisse messa in discussione la proprietà privata. Inoltre occorreva garantire il peso degli Stati del sud nei quali, per effetto dello schiavismo prima e del segregazionismo poi una larga fetta di popolazione era privata del diritto di voto.
In due occasioni recenti (Trump e Bush) questo sistema ha favorito i repubblicani. Il timore di questi ultimi è che le mutazioni demografiche e sociali in atto nel Paese rendano sempre più difficile tornare ad essere maggioritari e conquistare la Presidenza. Donne, neri, latinos ed elettori popolari dei grandi stati delle due coste sembrano sempre più difficilmente conquistabili dal Grand Old Party (GOP). Anche se nell’ultima Convenzione Nazionale Repubblicana è stato messo in atto un tentativo di valorizzazione di qualche esponente nero che sostiene Trump, si tratta soprattutto di rappresentanti di settori di ceto medio affluente che restano ancora molto minoritari nelle comunità di colore.
La paura di diventare strutturalmente minoritari spinge i Repubblicani ad utilizzare quei meccanismi istituzionali che gli garantiscono di avere un potere maggiore del loro consenso elettorale. Non c’è solo la Presidenza. C’è anche il Senato che essendo basato su una rappresentanza rigida di due eletti per Stato indipendentemente dalla popolazione rappresentata, favorisce il GOP che controlla molti Stati dell’America di mezzo, con meno abitanti, che pesano come i grandi stati dell’est e dell’ovest. Il Senato viene rinnovato per un terzo ogni due anni. L’attuale composizione assegna una maggioranza abbastanza netta ai Repubblicani ma se si guarda al voto popolare il quadro è piuttosto diverso. Gli attuali Senatori sono frutto di tre elezioni. Nel 2018, a metà mandato di Trump, i Democratici hanno avuto 52 milioni di voti contro i 35 milioni dei Repubblicani nelle elezioni senatoriali. Nonostante questa netta prevalenza il voto ha prodotto lo spostamento di due seggi a favori dei perdenti. Vi è chi in questi giorni nel campo democratico ha ipotizzato di far eleggere senatori anche in quelli che al momento sono considerati “non Stati”, ovvero il Distretto della capitale Washington e l’isola di Portorico, per sottrarre un vantaggio ai concorrenti.
L’altra roccaforte che i repubblicani vogliono difendere a tutti i costi è la Corte Suprema che è diventata oggetto di scontro politico per la scomparsa della giudice liberale Ruth Bader Ginsburg e la decisione di Trump di procedere subito alla sostituzione con un’esponente dell’anima più reazionaria e clericale della magistratura. La Corte Suprema è diventata sempre più apertamente oggetto di contenzioso perché il suo controllo è sottratto alla legittimità democratica. Con la nuova nomina di Trump, che molto difficilmente i democratici potranno impedire, la Corte viene fortemente sbilanciata a destra. Uno sbilanciamento che è anche effetto della tendenza alla polarizzazione della politica americana. La Bader Ginsbourg era di nomina democratica, ampiamente nota come liberal, ciò nonostante venne eletta praticamente all’unanimità. I repubblicani vedono nella Corte Suprema l’ultima casamatta da cui difendere la propria idea, sempre più reazionaria, di che cosa debbano essere gli Stati Uniti.
La manipolazione del voto oggi serve soprattutto ai repubblicani
Il sistema istituzionale statunitense offre molti strumenti per sottrare decisioni importanti alla volontà popolare e, contemporaneamente, ne offre di altrettanto numerosi per manipolare il voto. Oggi sono soprattutto i repubblicani a cercare di utilizzare ampiamente queste possibilità, ma non tanto perché i democratici siano moralmente superiori. Quest’ultimo è stato per molto tempo il partito dei Dixiecrats, i segregazionisti bianchi del sud, che impedivano in mille modi, violenza inclusa, ai neri di registrarsi nelle liste elettorali. Ed è stata anche il partito che ha costruito potenti macchine elettorali come quelle del famigerato sindaco di Chicago, Richard Daley, che ancora nel 1968 governava grazie al clientelismo e alla sopraffazione, in una delle città più segregate del Nord degli Stati Uniti.
Gli Stati Uniti non dispongono di un sistema di voto equiparabile a quello che si ritrova normalmente nei Paesi europei. In questi casi, gli elettori sono certi, il sistema di voto è affidabile, i livelli di contestazione del risultato molto modesti (solo Berlusconi ha attribuito le sue sconfitte ai “brogli” secondo una logica simile a quella trumpiana).
Negli Stati Uniti il diritto di voto è incerto. Le regole elettorali dipendono in parte dalle decisioni politiche dei singoli Stati che le piegano all’interesse di chi controlla le istituzioni (non solo quelle elettive ma anche le corte supreme locali).
I metodi per alterare la competizione elettorale sono numerosi. Innanzitutto si può rendere difficile la registrazione al voto, richiedendo un documento di identità (che negli Stati Uniti non è obbligatorio) o mettendo altri ostacoli che colpiscono soprattutto i più poveri. Questo è il classico sistema utilizzato dai segregazionisti del sud. Ma se ne sono aggiunti altri. In alcuni Stati repubblicani è stata ridefinita la distribuzione dei seggi elettorali. Nelle zone benestanti, tendenzialmente a favore della destra, i seggi sono numerosi, mentre in quelle che votano a sinistra sono stati ridotti. In questo modo si creano file di ore che tendono a scoraggiare gli elettori. Questo meccanismo funziona anche perché negli Usa si vota in un giorno lavorativo (il primo martedì, dopo il primo lunedì di novembre) e molti non si possono permettere di perdere il salario di una giornata per votare.
Un altro meccanismo utilizzato dai repubblicani soprattutto in Florida, uno stato in bilico e influente nel conteggio dei delegati elettorali (grazie ad un risultato abbastanza dubbio questo Stato fu decisivo nella vittoria di Bush figlio su Gore), riguarda l’esclusione di chi abbia subito condanne giudiziarie, pur avendo già scontato la pena. Gli Stati Uniti sono caratterizzati da un’estesa criminalizzazione di comportamenti che in altri paesi sono trattati a livello amministrativo e non penale. Criminalizzazione che colpisce ovviamente i poveri e le minoranze, dato che le due condizioni tendono a sovrapporsi. In Florida i repubblicani avevano approvato una legge che escludeva queste persone dal voto (e parliamo di centinaia di migliaia di persone). Un referendum popolare ha bocciato la legge restituendo a questi cittadini il diritto di voto, ma i repubblicani hanno trovato un altro accrocco legale per non dare seguito al referendum. Per poter riacquisire il diritto di voto i condannati devono liquidare il costo delle procedure giudiziarie derivanti dalle loro condanne. In molti casi lo Stato non è in grado nemmeno di definire a quanto ammontino e gran parte di questi condannati appartengono agli strati più poveri e quindi non sarebbero in grado di farvi fronte. L’ex sindaco di New York Michael Bloomberg, repubblicano ostile a Trump, ha raccolto fondi per coprire queste spese e ridare il diritto di voto a questi cittadini e allora i repubblicani hanno aperto un’azione legale per cercare di bloccarlo.
A livello di elezioni statali un altro trucco usato a volte anche dai democratici, ma sul quale si sono specializzati soprattutto i repubblicani è il cosiddetto “gerrymandering”. Ispirato al nome di un governatore del Massachusetts dell’inizio ‘800, consiste nel ridisegnare i collegi elettorali in modo da favorire l’elezione di candidati di un partito rispetto all’altro. In questo modo, in alcuni Stati un voto a maggioranza democratica ha prodotto parlamenti a maggioranza repubblicana. La possibilità di ridisegnare i collegi è legale e possibile ogni dieci anni e finora ha trovato pochi ostacoli anche quando è stata esercitata in modo palesemente truffaldino. Gli elettori della Virginia, uno degli Stati nel quale i Repubblicani hanno largamente applicato il “gerrymandering”, dovranno votare il 3 novembre in un referendum che limita la possibilità di ricorrervi imponendo che i collegi siano rivisti da una commissione paritaria. Il dilemma per i democratici è che da poco hanno conquistato la maggioranza nello Stato e se passasse il referendum che prima avevano sostenuto, rischierebbero di trovarsi nell’impossibilità di correggere i collegi dovendoli concordare con i republicani.
Il “gerrymandering” non incide direttamente sul voto presidenziale perché in questi casi i collegi corrispondono agli Stati federali e non possono essere alterati. Possono però influire indirettamente perché creano maggioranze statali, diverse dal voto popolare e con queste intervenire sulle modalità di voto per favorire uno dei candidati presidenziali.
In questi giorni i repubblicani sono stati anche accusati, da un documentario di Channel 4 News, di aver utilizzato sottobanco i profili personali degli utenti delle reti sociali per diffondere propaganda negativa (fondata principalmente su notizie false o manipolate) contro la Clinton, mirata a favorire l’astensione tra gli elettori afroamericani. È probabile che sia vero ma non va sopravvalutato l’effetto di una simile iniziativa che rischia di nascondere ciò che ha veramente pesato sul comportamento degli elettori, ovvero l’insoddisfazione verso il profilo centrista e neoliberale della Clinton.
A sua volta Trump e l’ultradestra hanno lanciato accuse sui “brogli” che favorirebbero i democratici. Una analoga campagna era già stata avviata nelle elezioni del 2016. Lo stesso Presidente eletto sostenne di avere in realtà prevalso anche nel voto popolare, benché i risultati dicano il contrario, avendo dovuto subire l’effetto di diversi milioni di voti illegittimamente attribuiti alla rivale. Per la destra repubblicana sono tre gli strumenti principali attraverso i quali i democratici falsificherebbero il voto: la manipolazione del voto postale, che negli Stati Uniti è largamente diffuso, l’ammissione al voto di immigrati clandestini che in realtà non potrebbero votare, meccanismi tali da consentire a molti elettori di esercitare i loro diritti elettorali in due Stati diversi. Nessuna di queste accuse è stata supportata da informazioni credibili.
Analoga campagna è in corso quest’anno ma con particolare attenzione prestata al voto postale, dato che si prevede un suo maggior utilizzo in conseguenza della pandemia di Covid19. Trump ha nominato un proprio sostenitore alla guida del servizio postale statale a pochi mesi dal voto, con il compito di “ristrutturarlo” e di apportare dei tagli e l’obbiettivo di ritardare od impedire la raccolta dei voti postali. L’operazione non è riuscita per la reazione dei democratici ma anche per l’azione di alcuni giudici che hanno vietato di applicare questa “ristrutturazione” del servizio prima del voto. Ma la campagna contro il voto postale prosegue in altri modi.
Trump è il primo candidato di uno dei due partiti dominanti a mettere in discussione la stessa correttezza e legittimità del voto negli Stati Uniti. Un’operazione che se da un lato può forse ottenere dei benefici politici portando alla mobilitazione del proprio elettorato e a danneggiare il voto per Biden, dall’altro riduce sensibilmente la credibilità di un Paese che si è sempre proposto, soprattutto a partire dalla seconda guerra mondiale come guida e guardiano del “mondo libero” e arbitro in ultima istanza della correttezza delle elezioni in tutto il resto del mondo.
L’obbiettivo del Presidente degli Stati Uniti sembra essere, più che spostare voti a proprio favore, quello di creare una situazione di incertezza nell’esito del voto tale da rendere necessario l’intervento finale della Corte Suprema, come avvenne nell’elezione Bush-Gore, fortemente orientata a favore dei conservatori. Molto dipenderà dai margini di vantaggio eventuali di Biden. Al momento i sondaggi danno, mediamente, un vantaggio abbastanza stabile a Joe Biden che si aggira attorno ai sette punti (50 a 43). In generale il candidato democratico, che presta molta più attenzione della Clinton alla classe operaia (prevalentemente bianca del mid-west), viene dato in vantaggio in quasi tutti gli Stati che nel 2016, spostandosi, avevano determinato il successo di Trump.
Biden non è un candidato molto carismatico ma contemporaneamente è meno impopolare della Clinton in alcuni settori di elettorato e la campagna repubblicana non è riuscita finora ad alimentare la stessa ostilità, spinta fino all’odio irrazionale che era riuscita ad esprimere quattro anni fa. L’ex vice Presidente di Obama sembra in grado di vincere le elezioni anche con scarto di voto popolare più ampio del 2016. Ma non ha ancora un vantaggio decisivo e può ancora perdere, per propri errori, per eccessiva moderazione politica tale da raffreddare gli elettori che nel campo democratico si collocano più a sinistra. Trump sembra non avere possibilità di vincere il voto popolare, ma potrebbe ripetere il colpo fortunato di quattro anni fa anche alimentando una serie di conflitti legali sull’esito del voto.
A poco più di un mese dal voto del novembre si può dire che probabilmente Biden vincerà le elezioni, ma la domanda su chi sarà il prossimo Presidente degli Stati Uniti è ancora senza risposta.