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Brutta aria sull’habitat delle democrazie europee

di Tommaso
Chiti

di Tommaso Chiti –

Dopo settimane di confinamento, con la diffusione del cosiddetto ‘lockdown’ di luoghi di aggregazione ed attività commerciali in tutta Europa, come pratica di distanziamento sociale per il blocco del contagio da Covid-19, alcuni effetti saltano immediatamente all’attenzione.

A suscitare un certo dibattito, oltre la cronaca della pandemia con il susseguirsi di bollettini e decreti governativi, a tenere banco sono soprattutto questioni legate alle controindicazioni di una globalizzazione sfrenata ed ingovernabile; e quelle legate alle ricadute dell’austerità sui tagli alla sanità pubblica, che hanno compromesso il sistema per rispondere all’emergenza.

Tuttavia, in un periodo di forti restrizioni agli spostamenti e di chiusure di diverse attività anche produttive, un altro aspetto non secondario è la sensibile diminuzione del traffico veicolare e più in generale delle emissioni inquinanti.

I provvedimenti anti-contagio hanno infatti letteralmente deviato il traffico dalle infrastrutture stradali a quelle digitali, ingenerando a loro volta questioni legate alla trasparenza di gestioni private e spesso speculative del web, oltre ad effetti collaterali, inerenti al digital divide e all’e-commerce.

L’aspetto più interessante però rimanda all’interdipendenza fra comportamenti degli esseri viventi, le malattie che li colpiscono ed il loro habitat.

Diverse organizzazioni ambientaliste hanno recentemente pubblicato prove di come la natura e alcune specie animali stiano ripopolando zone fortemente antropizzate. Così negli ultimi giorni sono stati avvistati delfini sulle coste meridionali italiane, trampolieri ed altri uccelli nei pressi di paludi e laghi metropolitani, oltre alle straordinarie immagini della limpidezza dell’acqua nei canali intorno a piazza San Marco a Venezia.

In tutta Europa la comunità scientifica si sta interrogando sul motivo per cui il Covid-19 si è diffuso in un modo così dilagante ed aggressivo proprio nel Nord Italia ed in particolare nelle regioni della Pianura Padana, dopo aver colpito la provincia dell’Hubei in Cina.

Una delle chiavi di lettura analizzata in diversi studi è proprio la correlazione fra l’inquinamento atmosferico e la capacità di propagazione del virus. Simili studi partono dalla constatazione della riduzione dei flussi di traffico e dei chilometri percorsi nelle ultime settimane nelle cosidette ‘zone rosse’.

Questa tendenza è stata inizialmente evidenziata all’inizio di marzo dalla NASA, con le immagini satellitari della Cina, dove le concentrazioni di biossido di azoto sono crollate verticalmente da gennaio a marzo, durante la quarantena. Un crollo improvviso ed inusuale, nemmeno paragonabile a quello percepito durante la crisi economico-finanziaria del 2008.

Grazie al programma UE ‘Copernicus’ simili indagini sono state portate avanti con foto satellitari della missione Copernicus Sentinel 5P.

Malgrado i programmi pubblici di mitigazioni delle emissioni, la nube tossica risultava persistente sopra le regioni di Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia-Romagna, dovuta prevalentemente ad elevati livelli di ossido di azoto in atmosfera. Questo tipo di smog, composto da particolato M5 e M10, deriva in particolare per quelle zone da allevamenti intensivi, fumi di fabbriche, pesticidi ed infine traffico veicolare.

Il referente della missione ESA, Claus Zehner, ha recentemente confermato l’evidenza di un calo repentino del biossido di azoto in atmosfera sopra la Pianura Padana.

A questo proposito, un dossier della Società Italiana Medicina Ambientale (SIMA) ha esaminato i dati sulle emissioni di PM10 e PM2,5 delle Agenzie Regionali per la protezione ambientale, incrociandoli con i casi di contagio riportati dalla Protezione Civile. 

Il lavoro di ricerca – intitolato “Relazione circa l’effetto dell’inquinamento da particolato atmosferico e la diffusione di virus nella popolazione” – rispetto alla qualità dell’aria ed alle emissioni inquinanti approfondisce il ruolo del particolato atmosferico come “carrier”, cioè come vettore di trasporto e diffusione per molti contaminanti chimici e biologici, inclusi i virus.  

Dall’analisi è emersa una relazione tra i superamenti dei limiti di legge delle concentrazioni di PM10 registrati nel periodo di metà febbraio e l’incremento del numero di casi infetti da COVID-19 aggiornati ad inizio marzo, considerando quindi il tempo di incubazione del virus fino alla identificazione dell’infezione contratta dalle persone.

Già nel 2010 con la diffusione dell’influenza aviaria era stata notata una simile correlazione esponenziale, fra casi di infettati e concentrazione delle polveri sottili.

In generale, è ormai noto che la pessima qualità dell’aria sia responsabile di larga parte dei decessi prematuri in UE, come attesta anche il Rapporto dell’Agenzia Europea per l’Ambiente sulla Qualità dell’Aria 2019, secondo il quale il particolato fine PM2,5 da solo ha causato circa 412.000 decessi prematuri di persone in 41 paesi europei nel 2016, di cui circa 374.000 di questi decessi si sono verificati negli stati membri dell’Unione Europea.

L’Italia ha il valore più alto dell’Ue di decessi prematuri per biossido di azoto (NO2, 14.600 persone), seguita da Germania (11.900 persone) e Regno Unito (11.800 persone). E il nostro paese è primo anche per le conseguenze da esposizione all’ozono O3: 3.000 morti premature, contro 2.400 della Germania e 1.400 della Francia. Mentre per il PM2,5 è secondo con 58.600 morti premature, dopo la Germania che ne ha 59.600.

Secondo il dossier SIMA infatti “Il particolato atmosferico, oltre ad essere un carrier, costituisce un substrato che può permettere al virus di rimanere nell’aria in condizioni vitali per un certo tempo, nell’ordine di ore o giorni. Il tasso di inattivazione dei virus nel particolato atmosferico dipende dalle condizioni ambientali: mentre un aumento delle temperature e di radiazione solare influisce positivamente sulla velocità di inattivazione del virus, un’umidità relativa elevata può favorire un più elevato tasso diffusione del virus cioè di virulenza”.

In sostanza i danni ai polmoni causati dall’inquinamento renderebbero ancora più aggressivo e letale il virus COVID-19. Le misure di distanziamento sociale per la prevenzione del contagio, così come gli effetti collaterali delle precauzioni prese dai monatti durante la diffusione della peste all’inizio del ‘600, starebbero in realtà producendo effetti proprio su una delle fonti di diffusione, ovvero sull’abbassamento delle emissioni del particolato, che rendono attivo il virus nell’aria.

Questo fenomeno di spillover, afferente all’ecologia ed all’epidemiologia, si focalizza sul passaggio di un patogeno passa. Per questo il WWF parla di ‘effetto boomerang della distruzione degli ecosistemi’. 

Salute ed ambiente sono due facce della stessa medaglia ed è perciò necessario approfondire questo tipo di correlazioni, non solo per fermare la pandemia, ma sul lungo periodo, per ripensare le politiche di prevenzione e tutela di ambiente e salute.

La gestione straordinaria in continuo stato d’emergenza, con commissari speciali, provvedimenti restrittivi e piano di investimento scriteriati rischia di non incidere sulle cause strutturali di questa epidemia, o peggio di compromettere la tenuta delle democrazie europee, sia sulla ripartizione dei poteri istituzionali, che sulla fiducia delle persone verso le autorità stesse.

I tagli orizzontali al welfare e quindi ai sistemi sanitari nazionali, così come ai diritti sul lavoro hanno comportato un peggioramento delle condizioni di vita di molti europei, oltre a spingere verso una privatizzazione dei beni comuni.

In una fase di stagnazione economica, dopo la pesante recessione iniziata circa dieci anni fa con la crisi dei debiti sovrani europei, la sfida politica più importante per il superamento dell’emergenza guarda ad un modello di sviluppo più equo e sostenibile.

In proposito, l’uso efficiente di risorse per un’economia pulita e circolare, con la decarbonizzazione e l’efficientamento del settore energetico, verso l’impatto climatico zero nel 2050, così come previsto dal Green New Deal rappresenta uno spunto interessante.

Questo piano tanto ambizioso quanto necessario deve però fondarsi su obiettivi tangibili, vincoli giuridici rigorosi, incentivi ed investimenti economici adeguati, rivalutando sotto questi aspetti anche l’annunciato ‘Meccanismo di Transizione Giusta’ da 100miliardi, proposto dalla Commissione Von der Leyen. 

A tal fine un ruolo dirimente sarà quello dell’innovazione tecnologica – che in questi giorni assume particolare rilievo con le teleconferenze e le piattaforme di e-learning – oltre alla condivisione democratica di simili provvedimenti, in un processo (bottom-up) di radicamento dalla base delle popolazioni e dei territori, più prossimi alla conoscenza delle specificità dei rispettivi habitat.

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