È dal 2010 che il Consultorio di psicoanalisi applicata “Il Cortile” svolge attività rivolte agli uomini autori di violenza contro le donne. Attività svolte in collaborazione con la Casa internazionale delle donne, dove peraltro il Consultorio stesso ha sede, e maturate durante il periodo di gestione del Centro provinciale per donne e minori in difficoltà “La Ginestra” (2005-2013). Un’esperienza sperimentale e innovativa, dove il fenomeno della violenza sulle donne è stato affrontato utilizzando non soltanto l’approccio di genere (che da sempre è stato alla base dell’analisi e degli interventi di contrasto a questo fenomeno), ma introducendo alcuni elementi forniti dalla clinica psicoanalitica. Ciò ha permesso di introdurre una lettura non generalizzante del fenomeno, un approccio del caso per caso, che ha messo a lavoro l’intera equipe delle operatrici e del Consultorio.
La psicoanalisi ci insegna che “l’essere umano non è padrone in casa propria”, definizione che Sigmund Freud trovò per dare conto dell’esistenza dell’inconscio e distinguere la persona dal soggetto dell’inconscio. Detto in altri termini, l’essere umano è diviso tra una parte conscia, l’io, e una parte opaca, ovvero l’inconscio: una divisione tra volontà e desiderio.
Un altro elemento che ci viene dalla pratica clinica è che l’essere umano è abitato dalla “pulsione di morte”, ovvero esiste un al di là del principio di piacere che fa sì che egli vada verso la propria autodistruzione. Jacques Lacan, nel suo ritorno a Freud, riprende questo punto e conierà il termine di godimento, elemento che la psicologia tende a celare sotto l’idea che esista l’essere sano e l’essere malato e dandosi l’obiettivo di “curare” o “rieducare”.
La violenza umana non può essere ricondotta a una causa naturale o biologica. Il linguaggio, l’ordine simbolico snatura il biologico, cancella l’istinto. Dunque, si tratta di un fenomeno culturale trasversale e multifattoriale che riguarda l’intero globo, tutte le fasce di età, le diverse classi sociali, i diversi ambiti e livelli culturali.
L’obiettivo primario che come Consultorio ci eravamo preposte nella gestione del Centro antiviolenza “La Ginestra”, oggi definito Casa rifugio, era creare le condizioni per l’accoglienza di donne, bambini e bambine che avevano subito o assistito ad atti violenti più o meno ripetuti nel tempo.
E la prima scelta fu quella di istituire una riunione settimanale delle operatrici, con l’obiettivo di creare una equipe fissa di lavoro e definire i momenti di scambio e di formazione, affinché il clima all’interno del Centro perdesse, almeno in parte, la carica immaginaria che ogni istituzione, qualunque sia il suo indirizzo, produce con i suoi effetti o di esaltazione degli ideali (sul versante dell’amore) o di irreparabile caduta (odio e aggressività).
L’altro polo che ci ha impegnate è stato l’accoglienza e il lavoro con i bambini e le bambine, che da subito sono stati individuati come soggetti separati dalle loro madri, portatori e portatrici delle loro questioni e dei loro traumi. Alla loro parola e alle loro elaborazioni abbiamo dedicato un tempo e uno spazio, quello dei laboratori di parola e di gioco. L’attenzione e l’ascolto rivolto ai minori ci ha messe al lavoro su vari fronti1 e, tra questi, il rapporto con i padri.
Il primo passaggio, non facile da far comprendere e accettare all’Istituzione, è stato quello di introdurre un operatore uomo all’interno dell’equipe. La sua funzione è stata quella di occuparsi dei minori, affinché bambini e bambine potessero avere un “modello maschile positivo” con il quale confrontarsi, consapevoli dell’aspetto prettamente immaginario che rappresenta la differenza biologica del corpo, ma comunque rilevante in modo particolare per soggetti in formazione. Abbiamo lavorato nell’affrontare la dicotomia che si produceva dal fatto che alcuni bambini o bambine ci confidavano di voler incontrare i loro padri, alcuni ne sentivano il desiderio ma esprimevano anche il timore, altri si preoccupavano della reazione delle loro madri di fronte a tale richiesta, poiché molte di loro, di fronte alla manifestazione di tale desiderio, si sentivano “tradite”.
Sapevamo che era necessario sostenere le donne nel riconoscere il desiderio dei propri figli e figlie come qualcosa “non contro di loro”, esplicitando che il loro trauma e le loro ferite non potevano essere le stesse dei loro figli e delle loro figlie, e che il diritto di questi, diritto salvaguardato dalla legge, era quello di mantenere entrambe le figure genitoriali, laddove possibile. Mentre il lavoro con i bambini e le bambine verteva nel sostenere il loro desiderio come legittimo, separandolo da quello delle madri.
La psicoanalisi ci ha guidato nel lavoro e ci ha permesso di distinguere il piano immaginario da quello simbolico, al punto di non credere affatto nella necessità di reintrodurre nella relazione il padre biologico “a ogni costo” (imponendo per esempio la mediazione familiare). Riconoscere l’importanza della funzione simbolica ci ha permesso inoltre, di liberarci di una certa ideologia della supremazia materna, dove figli e figlie “appartengono” più alle madri che ai padri, e che solo le prime saprebbero interpretare le loro necessità: un’idealizzazione della maternità che tanti danni produce nella vita delle donne, e non solo.
A sostenerci in questo doppio lavoro non è stato soltanto l’ascolto delle parole dei minori ma anche la realtà che ci si poneva davanti, realtà che leggevamo nei decreti del Tribunale dei minori o del Tribunale civile, quando i giudici emettevano disposizioni di incontri liberi tra figli-figlie e padri, anche laddove la violenza sulle madri, almeno quella verbale, veniva ancora agita davanti a loro. Sulla scorta di questa lunga esperienza, nel 2010 abbiamo sentito l’esigenza di dar vita a uno Sportello per uomini maltrattanti e papà in difficoltà, all’interno della Casa Internazionale delle donne di Roma.
Alcuni uomini sono stati inviati dai Servizi territoriali e dai Tribunali, altri sono giunti di loro spontanea volontà. Ma accogliere chi arrivava per obbligo, non ci sembrava bastasse. Per un uomo è infatti molto difficile riconoscersi autore di maltrattamenti e violenza contro la propria moglie o compagna, e allora abbiamo deciso di iniziare un lavoro in Carcere.
Ed è dal 2015 che operiamo nella Casa circondariale di Regina Coeli, promuovendo laboratori di parola aperti a detenuti condannati per violenze di genere. Un progetto finanziato dalla Tavola delle Chiese Valdesi, che svolgiamo in collaborazione con l’Associazione “Ponte Donna”, Associazione con la quale avevamo già lavorato nella gestione del Centro “La Ginestra”. Due differenti considerazioni ci hanno spinto a prendere in carico uomini autori di atti violenti: da una parte l’alto rischio di recidiva in questo tipo di reato. Sappiamo che il carcere, purtroppo, seppure svolge la sua funzione di luogo di segregazione e quindi di controllo momentaneo della pulsione, non riesce a garantire un percorso di interrogazione e di messa in questione dei comportamenti che hanno condotto ad atti di violenza.
Alcune di noi appartengono alla generazione sconvolta dai “fatti del Circeo” e sappiamo come uno degli autori, dopo anni di reclusione, scontata la pena, abbia nuovamente ucciso una donna e sua figlia. Ciononostante non siamo dell’idea che tali reati debbano avere una pena che preveda la reclusione carceraria a vita, riteniamo invece che la pena sia altro dalla vendetta. D’altra parte, pensiamo a questi uomini nel loro versante di padri, di educatori quindi, di coloro che trasmettono modi di essere e di pensare. Scontata la pena ma a volte anche durante, questi uomini riprendono i rapporti con i figli e le figlie, e il rischio è che continuino a trasmettere mancanza di rispetto, rancore e odio nei confronti delle madri e modelli di prevaricazione e disprezzo nei confronti delle donne.
Il progetto, nel tempo, ha avuto altri finanziamenti e si è andato consolidando, e ancora oggi vede l’Associazione “Il Cortile” presente all’interno di Regina Coeli, nell’ottavo braccio (sex offender), definito il carcere nel carcere. Si tratta della Sezione dei “protetti” ovvero di coloro che, a causa del reato commesso, devono essere protetti da eventuali aggressioni e violenze esercitati da altri detenuti.
Premesso che la nostra formazione di psicoanalisti ci fornisce alcune chiavi di lettura del fenomeno della violenza degli uomini sulle donne, senza nulla togliere alla lettura che di questo fenomeno ne fanno altre discipline o la stessa politica, pensiamo che questo fenomeno sia strutturale all’interno di tutte le società e che molteplici siano i fattori che lo determinano. Solo per citarne alcuni: il differente potere contrattuale che uomini e donne hanno nella società, anche a causa di disparità salariali e differenti opportunità lavorative; la divisione tra lavoro produttivo e riproduttivo; la differente posizione rispetto alla sessualità; l’illusoria complementarietà tra i sessi, la concezione dell’amore basata sul possesso e non sulla libera scelta, tutti elementi fortemente strutturati nell’inconscio di uomini e di donne. Il fatto che tale fenomeno sia trasversale e quindi colpisca uomini di ogni grado culturale, supporta l’ipotesi che non sia sufficiente un approccio educativo/rieducativo.
Consapevoli inoltre, che gli atti di violenza contro le donne non siano necessariamente alla base di una qualsivoglia “malattia mentale”, o effetto di raptus non meglio identificati, non pensiamo si possa affrontare tale fenomeno con un approccio esclusivamente psichiatrico o criminologico. Senza ovviamente negare che alcuni soggetti, in particolare autori di efferate violenze, possano essere affetti da allucinazioni o da patologie acute, e che quindi debbano essere sottoposti a cure particolari, riteniamo che l’approccio psicoanalitico possa essere di aiuto in ogni caso. Siccome crediamo che ogni atto umano vada letto all’interno delle coordinate simboliche di ciascun soggetto, tanto più pensiamo che gli atti violenti degli uomini contro le donne abbiano radici profondissime, che alloggiano nella storia del soggetto, uno per uno, e che pertanto ciò che si può proporre a ciascuno è l’opportunità di ripercorrere la propria storia per rintracciarne le origini, un processo di responsabilizzazione che solo così può aprire al nuovo.
Ecco perché non siamo d’accordo nelle facili generalizzazioni che vorrebbero classificare e raggruppare gli uomini violenti in un’unica categoria, quasi a costruirne un identikit, né tantomeno nella costruzione di protocolli universalizzanti da applicare in modo automatico. Pensiamo che tale universalizzazione portata avanti da un approccio scientista, un “uguale per tutti”, abbia come unico effetto la scomparsa della singolarità del soggetto e pertanto tenda a “produrre mostri”.
L’inconscio è frutto anche della cultura, quindi utile sarà il lavoro che si potrà svolgere con le nuove generazioni, fin dalla più tenera età, affinché si possa sviluppare una capacità di riconoscere e gestire le proprie emozioni, così come promuovere il rispetto delle differenze, di cui quella sessuale è alla base del legame sociale.
Ma insegnati da Freud e da Lacan, sappiamo che “la pulsione non si educa”. Ecco perché può essere utile dare uno spazio di parola in un luogo come il carcere dove i detenuti possano, se lo desiderano, senza sconto di pena o agevolazioni, partecipare ai Laboratori. Un luogo dove la loro parola viene presa in conto, dove poter riflettere insieme ad altri su ciò che li ha condotti al passaggio all’atto, causa della loro detenzione. Aprirsi, se possibile, agli interrogativi su cosa sia alla base delle loro azioni violente, primo e indispensabile passo per una messa in questione del proprio modo di pensare e di agire. Un luogo dove la parola ha uno statuto differente dalla chiacchiera o dalla diffamazione, modalità molto in voga in questo periodo. Non si tratta di portare l’analista in carcere, attraverso cure analitiche ma di introdurre il discorso dell’analista. Ovvero, l’unico legame sociale che prevede l’agente in posizione di oggetto causa del desiderio dell’analizzante, ovvero non in posizione di padrone.
Il sopraggiungere nel 2019 della nuova normativa denominata Codice rosso che prevede, oltre all’inasprimento delle pene per chi compie reati di violenza e la maggiore tutela delle vittime, anche l’obbligatorietà trattamentale. Se da una parte ci ha aperto alla contraddizione che non si possa rendere obbligatorio un percorso di messa in discussione profonda, che solo può far raggiungere una piena assunzione di responsabilità, dall’altra ci ha permesso di aprire una collaborazione con l’Ufficio Interdistrettuale Esecuzione Penale Esterna (UIEPE) attraverso un progetto che offre un ciclo di incontri con uno psicoanalista, nei casi in cui il Tribunale ne imponga l’esecuzione, o alla fine della detenzione, o nei casi di messa alla prova, di libertà vigilata o di arresti domiciliari. Lavorare con gli uomini necessita ascoltare anche le loro compagne per accedere alla verità? Pensiamo che per trattare la questione della violenza maschile contro le donne attraverso un approccio psicoanalitico sia determinante “dividere” la coppia carnefice/vittima, che tende a fissare l’uno e l’altra nelle loro modalità complementari.
Pensiamo inoltre che di verità non ce ne sia una sola: sicuramente c’è la verità processuale, che diamo per data e che lasciamo ai giudici: quella che noi cerchiamo di favorire, laddove sia possibile, è la verità del soggetto.
Ciascun soggetto è portatore della propria verità, e nel nostro lavoro con gli uomini che hanno agito violenza cerchiamo di tenere lontana ogni altra verità o giudizio, per favorire ciascuno nel suo percorso, affinché possa rintracciare la propria, di verità, e aprirsi alla responsabilità soggettiva, che è ben altro dall’ammissione della colpa.
Si tratta di una scommessa dettata da un’esperienza basata su una pratica che prevede la possibilità di aprire la porta del dire e chiudere quella dell’agire.
Laura Storti, psicoanalista, psicoterapeuta, membro della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi e dell’Associazione Mondiale di Psicoanalisi, coordinatrice del Consultorio Il Cortile all’interno della Casa Internazionale delle Donne di Roma.
- L. Storti, “Strumenti di fronteggiamento della violenza sui minori: studio di una buona prassi”, in Contro la violenza. I° rapporto dell’Osservatorio sulle vittime di violenza e i loro bambini della Provincia di Roma, a cura di F. Deriu, FrancoAngeli, Milano, 2011.[↩]