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Algeria e Tunisia: elezioni presidenziali ma a quali condizioni?

di Stefano
Galieni

Le elezioni in Algeria e Tunisia sono significative per comprendere come potrebbe cambiare il quadro dell’intera area nordafricana. Iniziamo da quelle tunisine, indette per il prossimo 6 ottobre. Si dovrebbe eleggere un nuovo presidente ma l’attuale, Kais Saied, sta facendo di tutto per non avere oppositori. L’ultimo concorrente ad essere stato tratto in arresto è l’imprenditore ed ex parlamentare Ayachi Zammel, accusato di aver falsificato dichiarazioni relative al sostegno economico ricevuto in campagna elettorale. L’arresto è avvenuto lunedì 2 settembre, poche ore prima che venisse confermato come candidato dall’Ufficio elettorale di Tunisi, l’Instance Supérieure Indépendante pour les Elections (ISIE). L’organismo, in una situazione autoritaria come quella tunisina, sembra avere ben poco spazio di azione. Tutti i candidati alle elezioni sono stati di fatto eliminati in questi mesi, in molti sono ancora in carcere. I componenti dell’ISIE, con l’approvazione del decreto legge 22 del 2 maggio 2022, sono funzionari nominati ed eventualmente deposti, proprio dall’attuale presidente, al punto che l’organismo, nonostante le richieste  del Tribunale amministrativo, si sia rifiutato di riammettere, nei giorni scorsi, 3 candidati detenuti o accusati ingiustamente. L’Isie, a cui spetterebbe il compito istituzionale di indire le elezioni, si è fatto da parte. A annunciarle è lo stesso presidente, al di fuori dalle proprie prerogative. Si tratta quindi di elezioni senza opposizione formale o sostanziale, il solo candidato alternativo rimasto Zubair Maghzaoui è apertamente sostenitore delle politiche autoritarie del suo concorrente e rappresenta un piccolo partito, Echaab Movement di impronta social democratica, panarabica e nasseriana, ma che alle precedenti elezioni aveva sostenuto Saied. Un’opposizione di facciata, in un contesto come quello tunisino, in cui, dopo la chiusura arbitraria del parlamento, l’intero sistema democratico è stato smantellato. La situazione nel paese è semplicemente gravissima tanto dal punto di vista politico che sociale. Nel luglio del 2022, è stata approvata, mediante referendum, con una affluenza al voto minore del 30%, la nuova Costituzione tunisina, voluta dal presidente, iper-presidenzialista. Le prerogative del Capo dello Stato sono state aumentate, a scapito di quello delle due camere, che sono: il parlamento, chiamato l’Assemblea dei rappresentanti del popolo, e il nuovo Consiglio nazionale delle regioni e dei distretti. Quest’ultimo, appena eletto, si è riunito per la prima volta il 19 aprile: una nuova istituzione che dovrebbe in teoria portare a un riequilibrio della rappresentatività delle varie regioni del paese, riassestando il baricentro, che è invece sempre stato focalizzato sulle città del Nord e della costa, motore economico del paese, senza dare peso (sinora?) al Sud e al Centro. Chissà se le riforme costituzionali e volte verso il premierato che si tentano di imporre in Italia nascano dall’esperienza del paese nord africano?

Comunque il Fronte di salvezza nazionale, raggruppamento delle principali forze di opposizione – dove spiccano il partito islamista Ennahda e Qalb Tunes – ha annunciato che, come nelle precedenti due tornate, boicotterà le elezioni in arrivo. A loro avviso non sussistono le garanzie sulla trasparenza e serenità attorno al voto, per il fatto che vari membri dei partiti che ne fanno parte sono in carcere. Un boicottaggio che non porterà all’attenuazione delle tensioni nel paese. Altro fattore di problematicità attorno a queste presidenziali, esito di tale autoritarismo, è il crescente astensionismo, che è sintomatico, di fatto, della progressiva perdita di interesse da parte della popolazione elettoralmente attiva rispetto alla politica e quindi, di riflesso, ai risultati dell’operato del presidente e del suo governo. Quando era stato eletto con uno score molto alto nel 2019 (72,71% dei voti con un’affluenza al 48,98%) Saïed si era presentato come l’“uomo nuovo” che avrebbe avuto successo laddove tutti i governi post-Ben Ali avevano fallito, ovvero nella risoluzione della persistente crisi economica che resta invece grave e a rischio di default. Non rassicurano i recenti dati ufficiali tunisini che registrano una diminuzione del tasso di disoccupazione nell’ultimo trimestre 2023, (si è scesi in un anno dal 46,3% al 45,8%) ma con una disoccupazione giovanile superiore al 39%. Il debito pubblico è ancora all’80% del Pil e il fabbisogno finanziario totale resta di 9 miliardi di dollari (che comprendono deficit e rimborso del debito pubblico, compresi 3 miliardi di dollari di debito estero). Nulla si muove ancora sul fronte dell’accordo con il Fondo monetario internazionale (Fmi) che garantirebbe un finanziamento di 1,9 miliardi di dollari. Il negoziato si è avviato nel 2022 ma si è fermato comprensibilmente nel marzo 2023. Il FMI vorrebbe imporre tagli ai sussidi, ristrutturazione (ovvero privatizzazione) delle imprese statali che di fatto avrebbero accentuato il malessere nei ceti più poveri, Un diktat inaccettabile a prescindere ma la cui accettazione avrebbe nuociuto soprattutto alla lunga campagna elettorale di Saied. Probabile pensare, visto che la Tunisia ha un infinito bisogno di quelle risorse che, ad elezioni vinte, nel prossimo anno il presidente si mostrerà più incline a modificare la propria posizione. Intanto il paese ha difficoltà a reperire fondi. Poche settimana fa il governatore della Banca centrale tunisina, Fethi Zouahir Nouri, ha condiviso la posizione critica del presidente Saïed verso il FMI “il Fmi ha sempre imposto un solo tipo di crescita ed è quello dei paesi ricchi! Un modello che i paesi poveri devono imitare a detrimento dei loro propri bisogni! […] Che cosa ci rimarrebbe se non ci fosse il Fmi? Non ci restano che i prestiti bilaterali”. L’Arabia Saudita intende condizionare un proprio sostegno – 500 mln di dollari – al recepimento poi delle richieste del Fondo monetario, l’Algeria offre (300 milioni di dollari) e l’African Export-Import Bank (400 milioni di dollari); in maggio il presidente Saïed si è assicurato inoltre 1,2 miliardi di dollari dall’International Islamic Trade Finance Corporation per finanziare le importazioni essenziali. Ma il deficit permane e mentre si continua a far ricorso alla Banca centrale tunisina che ha già impiegato 2,3 mld di dollari, si fa ricorso al prelievo delle riserve estere. Questo non fa altro che produrre inflazione (ufficialmente fra il 7,5% e l’8,1%). L’aumento dei prezzi internazionali ha incrementato alcune esportazioni come fertilizzanti e tessili, ma si sta ora attenuando. Resiste l’olio d’oliva, molto richiesto e non si è riusciti ad aumentare la produzione di fosfati. Il securitarismo di Saied ha prodotto un aumento del turismo, settore che si era fermato negli anni passati. In questo quadro si sono incrementate le migrazioni, soprattutto delle fasce più giovani e che meno sembrano avere prospettive nel paese. Dopo le “Primavere arabe” e la cacciata di Ben Alì, per un breve periodo la Tunisia è tornata ad essere terra di transito per chi fuggiva dall’Africa subsahariana. Oggi gli analisti definiscono la Tunisia un “hotspot europeo”. Grazie agli accordi fra UE e Tunisia del luglio 2023, in cui l’Italia ha giocato un ruolo chiave, la Tunisia sta mettendo in atto misure per fermare la cosiddetta immigrazione irregolare, considerate inaccettabili dalle grandi organizzazioni che si occupano di difesa dei diritti umani, Secondo i dati di questa primavera, forniti dal ministero dell’Interno, erano oltre 23 mila i migranti provenienti da altri paesi e bloccati in Tunisia. Una presenza che ha generato malcontento cavalcato dal presidente che continua a parlare di “colonizzazione” del paese da parte dei subsahariani e dichiara di essere allarmato dal rischio di una vera e propria “sostituzione etnica” con cui si vorrebbe rendere la Tunisia un paese africano.

Nonostante i tanto decantati, in Italia, incontri con Meloni e Van der Leyen, fa fede il ministro dell’Interno Kamel Feki, secondo cui: “La Tunisia non può in nessun caso assumere la parte della guardia-frontiera per gli altri paesi”, aggiungendo che gli accordi firmati dai suoi predecessori vanno rimessi in discussione. Anche lui se la prende con le Ong, non quelle che fanno soccorso in mare ma quelle che operano in Tunisia e che, secondo il ministro, “fanno di tutto per manipolare la questione migratoria al servizio degli interessi degli europei”. Di fronte ai trattamenti disumani imposti ai migranti sono infatti sorte organizzazioni non governative in loro difesa. Molte sono state prese di mira dalle autorità, anche mediante arresti. Il caso più celebre è stato quello denunciato dalla Lega tunisina per i diritti umani in merito all’arresto, avvenuto il 6 maggio di Saadia Mosbah, militante anti-razzista e presidente dell’associazione Mnemty. Pochi giorni prima l’esercito era intervenuto per sgomberare un accampamento di rifugiati ad Amra, nei pressi di Sfax, seconda città della Tunisia e primo porto di partenza per chi cerca di entrare in Europa. Centinaia di persone, anche donne e bambini, sono state lasciate nel deserto al confine fra Libia e Algeria senza acqua e viveri. Una foto che è un pugno nello stomaco, ha fatto il giro del mondo, ritrae una madre con sua figlia, accasciate, prive di vita, sulla sabbia. E questo per i governi italiani (non riguarda solo l’attuale) è un “paese sicuro”, in cui si possono rispedire le persone senza neanche prendere in considerazione le domande di protezione.

Altro elemento critico nel paese è quello della libertà di espressione e di stampa. Con la stretta autoritaria del 2022, a settembre, è stato approvato un decreto legge, il 54 che punisce con pene detentive che possono arrivare a cinque anni, chi diffonde sui media “notizie false con lo scopo di minacciare i diritti altrui o colpire la sicurezza pubblica”. Il decreto era ufficialmente stato emanato per combattere il cybercrime, ma è stato per lo più utilizzato per mettere il bavaglio a giornalisti scomodi. In particolare, a maggio sono stati arrestati alcuni personaggi particolarmente noti: Sonia Dahmani, avvocato e celebre opinionista, prelevata con la forza da agenti incappucciati dalla sede dell’Ordine nazionale degli avvocati (scena ripresa da una diretta televisiva di France 24 e rimbalzata sui social); Borhen Bssais, presentatore in un’emittente radio privata e Mourad Zeghidi, commentatore politico televisivo, condannati a un anno per diffusione di fake news e false dichiarazioni aventi l’obiettivo di diffamare altri. Il presidente, facendo un’allusione indiretta agli arresti, ha affermato: “Quelli che denigrano il loro paese nei media … non possono restare impuniti e dovranno renderne conto”. Gli arresti di personalità note hanno generato scioperi, come quello dell’Ordine degli avvocati, e dimostrazioni, a cui il governo ha risposto col pugno di ferro. Ad oggi ci sono decine e decine di giornalisti detenuti arbitrariamente nelle poco accoglienti carceri tunisine.

Più vicine – si svolgono il 7 settembre – e sulla carta meno problematiche, le elezioni presidenziali che si stanno per svolgere in Algeria. Appare scontata la conferma di Abdelmajid Tebboune, 78 anni, ufficialmente “indipendente” ma in realtà esponente di rilievo del Fronte di Liberazione Nazionale, politico dalla lunga carriera e che nel 2019 era stato eletto con oltre il 58% dei voti ma a fronte di una partecipazione inferiore al 40% a causa del boicottaggio dei partiti di opposizione. Il suo principale sponsor, come per i predecessori, resta l’esercito, il direttore della sua campagna elettorale è il ministro dell’Interno, Brahim Merad, forte di antenne sul territorio come nessun altro, data la sua posizione. Tale modalità è considerata aberrante dalle opposizioni, che hanno accusato il presidente di usare i mezzi statali per la sua candidatura personale. Tebboune vanta indicatori economici positivi – anche grazie agli alti costi degli idrocarburi sui mercati mondiali – alcune riforme sociali popolari, come un’indennità per oltre due milioni di disoccupati e l’abolizione dell’imposta sul reddito per i salari bassi. Sempre più aperto agli investitori stranieri, il Paese risulta attraente, non solo per la sua posizione geografica e le sue ricchezze naturali, ma anche per la sua stabilità. Resta anche qui il nodo della repressione della libertà di stampa e delle voci critiche della società civile. Il quotidiano indipendente Liberté è stato costretto a chiudere, El Watan ha avuto serie difficoltà, ed è emblematico il caso del direttore di Maghreb Emergent e Radio M, Ihsane El Kadi,  condannato a 7 anni di carcere con l’accusa di aver ricevuto finanziamenti dall’estero. Il movimento Hirak, che nel 2019 portò alla caduta del presidente Abdelmajid Bouteflika, non ha trovato sbocchi politici ed è stato indebolito da arresti e ostacoli. Insomma una repressione più soft ma altrettanto efficace. Tebboune avrà in queste elezioni due competitori convalidati dalle autorità competenti in materia di elezione: Abdelali Hassani Cherif, presidente del partito “islamista” Movimento della Società per la Pace (Msp), e Youcef Aouchiche, primo segretario del Fronte delle forze socialiste (Ffs), partito laico di sinistra originario della Cabilia, regione storicamente in contrasto con il potere centrale di Algeri. La partecipazione di queste forze è segno di maggiore solidità del paese ma ben 13 sono stati i candidati esclusi, spesso con motivazioni arbitrarie. In questo caso i due avversari ammessi sono reali oppositori ma non contano di giungere ad un ballottaggio – per cui non è stata nemmeno prevista una data – ma, al massimo a rafforzare il proprio peso in vista delle prossime elezioni parlamentari. Il candidato riduttivamente presentato come islamista, dichiara di poter garantire al paese “opportunità”. Promette riforme economiche e sociali volte a sostenere il potere d’acquisto dei salari e a prendersi cura delle fasce più deboli della popolazione. Il suo programma prevede una revisione delle pensioni di anzianità, al rialzo,  e l’istituzione di un sistema nazionale per garantire diritti e forme di sostegno, giungendo a dichiarare di voler riconoscere il lavoro non retribuito delle casalinghe e di voler fornire loro un sostegno economico diretto. Se dal punto di vista economico vuole incrementare turismo e artigianato, punta, dal punto di vista politico, sui temi dell’unità nazionale e della stabilità. Avrà il sostegno del movimento islamista Ennahda (omologo di quello tunisino), ma non di El Bina, partito populista e islamista di destra, di Abdelkader Bengrina, che sosterrà il presidente uscente. Il terzo candidato Youcef Aouchiche è il più giovane (41 anni) e lo slogan con cui si presenta è “Una visione”. Da sempre dichiara di proporre un cambiamento strutturale che garantisca una reale sovranità popolare e una maggiore indipendenza della giustizia. Annuncia l’aumento dei salari e l’aumento dei sussidi concessi dallo Stato alle componenti più vulnerabili. Propone di creare un sistema economico diversificato, escludendo gli idrocarburi, attraverso l’incoraggiamento degli investimenti, il lancio di iniziative e la creazione di un super ministero della Pianificazione e della Prospettiva. Originario della wilaya di Tizi Ouzou, Aouchiche non gode soltanto di appoggi nella regione cabila, ma ha basi in tutto il Paese, come dimostrato dal raggiungimento degli endorsement per la qualifica alla candidatura. Data anche l’età del candidato che dovrebbe risultare alla fine vincente, queste si traducono come elezioni di passaggio, alla prossima scadenza il FLN dovrà avere un nuovo candidato e sarà interessante vedere la composizione del prossimo parlamento. Intanto però il presidente agisce la campagna elettorale con estrema energia. Tante le notizie che riguardano il paese nordafricano: è di un giorno fa l’agenzia che comunica come l’Italia sia divenuto paese importatore delle colonnine per la ricarica elettrica e del gas, prodotte dal gruppo Sonelgaz e recente l’adesione del paese alla NDB, la banca dei BRICS. Forte è poi l’impegno internazionale per la causa palestinese, più volte Algeri ha chiesto la convocazione del Consiglio di sicurezza dell’ONU per fermare il genocidio a Gaza. L’altra faccia della medaglia è però tragica, per quanto capace di portare consensi.

Da gennaio ad oggi, quasi 20.000 persone migranti, secondo la rete Alarme Phone, tra cui molte donne e bambini, sono stati arrestate dalle forze di sicurezza algerine e espulse in maniera arbitraria in Niger attraverso il confine terrestre nel Sahara. Solo parte dei deportati proviene dal Niger, ma alle autorità algerine questo non importa. Le espulsioni avvengono in condizioni brutali, secondo il responsabile della comunicazione della rete Moctar Dan Yaye, spesso provocando conseguenze fatali.

Alarme Phone Sahara afferma di aver raccolto “molte testimonianze di abusi, violenze e confisca delle proprietà dei migranti da parte delle forze algerine”. Gli arresti avverrebbero durante retate in città, in casa, sul posto di lavoro o alla frontiera tunisina. Vengono poi trasferiti a Tamanrasset, nel sud del Paese, e abbandonati al cosiddetto “punto zero” da dove devono camminare 15 km fino alla cittadina nigerina di Assamaka, che subisce le pesanti conseguenze di questi trasferimenti forzati.

Anche con queste pratiche Algeri acquisisce autorevolezza nei confronti dei governi UE, che considereranno tali “azioni di dissuasione”, fondamentali per poter rendere efficace, quando entrerà in vigore, il Patto europeo su immigrazione e asilo. E per l’Unione Europea ora diventa fondamentale che, prima dell’entrata in vigore del Patto, prevista per il 2026, anche in Libia si giunga a “libere” elezioni ma soprattutto ad un governo che rappresenti tutto il paese. Gli interessi economici, ripristinare e riportare ai tempi gloriosi delle dittature che hanno governato gran parte dei paesi del Nord Africa fino al 2011, per vedersi garantiti gli investimenti nel campo delle estrazioni petrolifere e del gaso, si sommano alla volontà di creare una completa barriera anti immigrati, stabile e duratura, da sostenere ma in grado di divenire area del pianeta in cui selezionare coloro che avranno diritto ad entrare in Europa, in quanto servono al mercato, separandoli da coloro a cui ogni movimento resta precluso

Stefano Galieni

 

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