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Abolish Frontex

di Stefano
Galieni

In giornate in cui, al centro di un serio discorso politico europeo è quanto sta accadendo al confine fra Polonia e Bielorussia, stupisce – ma fino ad un certo punto – la miopia dei mezzi di informazione mainstream nostrani. I crimini commessi dal governo reazionario polacco, l’intenzione di alzare altri 180 km di filo spinato, di 6 mt di altezza e dal costo di almeno 350 milioni di euro fa il paio con le dichiarazioni provenienti dalla vicina Lituania; un progetto di una fortificazione lunga 508 km che sbarrerebbe il confine. “Difendiamo l’Europa” si affrettano a dire i rispettivi governanti ma, se non c’è dubbio alcuno su come da Minsk si faccia un uso strumentale di qualche migliaio di profughi mandati cinicamente allo sbaraglio, la domanda da porsi ci riguarda più da vicino e coinvolge direttamente i confini italiani. All’apertura di un nuovo campo profughi, sorto sulle ceneri del vecchio a Samos in Grecia, ha fatto da controcanto la realizzazione di un “hub di transito” per migranti a Ventimiglia. Dopo la chiusura di quello sul fiume Roya e dopo che per mesi chi è rimasto in quelle zone ha dovuto arrangiarsi col solo aiuto degli attivisti antirazzisti, ora sembra prossima l’apertura di uno spazio più o meno stabile nella città di confine ma le cui possibilità di incidere su un problema reale sono quantomai incerte. La Francia continua a respingere chi tenta di oltrepassare il confine italiano. Da Oulx o da Bardonecchia (confine alpino), tra luglio 2020 e aprile 2021 sono state respinte in Italia quasi 7000 persone, in molti casi anche minorenni e ci sono esposti relativi ad illegittimi respingimenti collettivi, senza identificazioni personali. Il mese scorso la stazione ferroviaria di confine Briancon è stata occupata per una notte da almeno 200 attivisti antirazzisti che si opponevano ai respingimenti, ma nulla o quasi è trapelato. Per il confine Ventimiglia – Mentone gli unici dati certi restano quelli del 2020 ottenuti grazie ad una richiesta di accesso agli atti presentata dall’avvocata Alessandra Ballerini secondo cui, nonostante l’emergenza covid, dal 1 gennaio al 30 settembre 2020, sono state rimandate in Italia 12.045 persone, in aumento rispetto all’anno precedente. Dati non ancora certificati per il 2021 parlano di un ulteriore crescita numerica. Povera Italia che è costretta ad accettare profughi? Non è affatto così. Nella gara di cinismo dei diversi governi degli Stati UE, l’Italia non sfigura affatto. Se giustamente ci si lamenta che a fronte dei 59 mila nuovi arrivati via mare sono state ad oggi 97 dipende da numerosi fattori, non ultimo il fatto che il Bel Paese non svolge i propri compiti di accoglienza anzi, in termini di respingimenti illegali, di rimpatri e di violazioni si mette avanti. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati sta monitorando la situazione. L’incremento negli arrivi rispetto ai circa 32.000 del 2020 è complesso. La rotta calabrese ha registrato 9.687 arrivi al 14 novembre, rispetto ai 2.507 dello scorso anno – in gran parte iracheni, afghani, iraniani e curdi. In passato si trattava soprattutto di uomini da soli, ora aumentano le famiglie con molti bambini. La rotta calabrese è solo uno dei tanti modi in cui aspiranti profughi dal Medio Oriente, dal Sud-est asiatico e dall’Africa cercano di raggiungere l’Europa ma non è casuale. Accade perché alle frontiere libiche e tunisine i respingimenti collettivi, attuati con la copertura aerea di Frontex, sono divenuti la norma. La Libia, ancora in sospeso fra elezioni da confermare (la conferenza di Parigi si è chiusa con più ombre che luci) è tutt’ora il paese da cui si continua a partire con maggiore frequenza. Nonostante il rapporto Onu sui crimini che si commettono nei centri di detenzione per migranti, formali e informali (https://news.un.org/en/story/2021/10/1102052 ) e la Missione di inchiesta che si è messa in azione, dai notiziari italiani nulla o quasi sembra trapelare. Su queste vicende. Dall’Onu parte la necessità di definire non solo le responsabilità libiche ma anche quelle relative a Stati terzi e attori che ne sono diversamente coinvolti, in maniera diretta o indiretta. Il finanziamento e il supporto italiano alla guardia costiera libica – in cui con le decisioni prese in parlamento di sostenere per l’addestramento libico i militari turchi – è una palese forma di corresponsabilità. Ci sono prove che provengono da comunicazioni radio, da audio e video che comprovano la complicità dell’UE, in particolar modo di Italia e Malta, nel riportare i rifugiati verso le galere libiche, anche indirettamente, usando gli aerei dell’Agenzia Frontex per segnalare alle autorità di Tripoli quali sono le imbarcazioni da andare a riprendere e attuando poi una colpevole omissione di soccorso in mare.

Secondo l’International Rescue Comitee (IRC) nei primi 8 mesi del 2021 sono stati respinte in Libia circa 23.000 persone, il dato più alto dal 2017 (l’anno in cui in Italia ne arrivarono 180 mila) e quasi il doppio rispetto allo stesso periodo del 2020. Di questi – ma i dati sono per difetto – oltre 1000 erano bambini e più di 1500 donne, in parte anche in stato di gravidanza. In 4 anni, almeno 60.000 persone sono state bloccate in mare e riportate nei centri di detenzione del Paese nordafricano.

“In soli otto mesi abbiamo visto più persone riportate in Libia dalla Guardia costiera libica di quante ne abbiamo mai viste prima. È un numero senza precedenti e mette in evidenza la gravità della situazione in Libia. Un decennio di violenze e disordini, un’economia in difficoltà e la pandemia di covid hanno esacerbato le sfide affrontate da tutti coloro che vivono nel Paese. Oggi, si stima che 1,3 milioni di persone abbiano bisogno di assistenza umanitaria, un aumento del 40% rispetto al 2020”, ha osservato l’IRC ( https://www.rescue.org/ ).

Ci si scandalizza e ci si indigna giustamente per quanto avviene al confine polacco e poi si mettono in atto, con numeri ben più elevati e in contesti ancora più rischiosi come il mare, le stesse pratiche. L’Italia, nel silenzio assoluto e non da sola, continua ad attuare violazioni del diritto di respingimenti collettivi, degli obblighi di soccorso e della garanzia di un porto sicuro di fatto non applicando le norme elementari di diritto internazionale. I respingimenti – tanto vituperati quando avvengono lontano da noi – violano diritti sanciti a protezione di particolari categorie di soggetti in condizione di vulnerabilità ma l’attenzione verso chi fugge per guerre, dittature o catastrofi ambientali sembrano essere finiti in luogo oscuro eppure, quotidianamente riguardano persone in carne ed ossa.

Così come è appurato che l’Afghanistan non è un luogo sicuro, soprattutto per le donne e soprattutto per chi ha collaborato con gli eserciti occupanti o vive “da occidentale” al punto di aver attivato positive pratiche di presa in carico delle persone più a rischio, non è luogo sicuro neanche la Libia, anche e soprattutto in quanto le persone che cercano di fuggire provengono da Paesi in cui non possono tornare.

“Non c’è da meravigliarsi se vogliono andarsene, ma, dal momento che i modi sicuri e legali sono estremamente limitati, arrivare in Europa attraverso il Mediterraneo è spesso considerata l’unica possibilità per raggiungere la sicurezza”, ha affermato il direttore nazionale dell’IRC in Libia, Tom Garofalo.

Dal caos libico stanno emergendo ogni giorno nuove complessità: dalle rivelazioni che comprovano le operazioni militari che Francia ed Egitto di comune accordo realizzano per fermare contrabbandieri e trafficanti ma sparando anche a civili da almeno 6 anni, alla prima condanna subita dal comandante del rimorchiatore, di proprietà della compagnia Augusta, di supporto alle piattaforme petrolifere al largo della Libia, a un anno di reclusione dal tribunale di Napoli. Nel 2018 la nave aveva imbarcato 110 fuggitivi dal Paese nord africano e li aveva riconsegnati, anche nonostante la presenza di donne in stato di gravidanza e di molti minori, alle autorità di Tripoli. Macro e micro eventi spariti dai radar della nostra informazione.

Anche dal Forum Tunisino dei Diritti Economici e Sociali giungono notizie simili in cui l’Italia giuoca un ruolo da protagonista. A detta dei loro esponenti che sono in grado di produrre testimonianze e materiale, da tempo avvengono intercettazioni col supporto italiano. I cittadini tunisini in fuga vengono direttamente riportati nel proprio paese, chi giunge dall’Africa Sub Sahariana è dirottati nei confinanti porti libici. Ma per i tunisini non c’è scampo neanche se si riesce ad entrare in Italia, recentemente, dopo gli accordi con la ministra Lamorgese, ai 2 voli settimanali per il rimpatrio, pagati dall’Italia, si sono aggiunti i 10 voli al mese messi a disposizione dal governo di Tunisi per garantire il funzionamento degli accordi.

Uno dei punti chiave che consente di riflettere per rivedere radicalmente le politiche migratorie UE è legato al ruolo giocato dall’Agenzia Frontex. Da mesi è partita una campagna europea “Abolish Frontex” (https://abolishfrontex.org/about-us/). La mattina di mercoledì 9 giugno 2021, i muri dell’edificio di dell’avenue d’Auderghem, al civico 20, Bruxelles, sono stati cosparsi di pittura rosso sangue, la strada ribattezzata “avenue meurtrière” (viale assassino) mentre dal balcone del primo piano due striscioni annunciavano l’inizio della campagna. Simili azioni sono state compiute a Vienna, Bologna, L’Aja, Ouida in Marocco, Berlino e Friburgo in Germania, Las Palmas nella Gran Canaria. “Non abbiamo nemmeno impedito alle persone di andare a lavorare” ha raccontato Stéphanie Demblon, dell’organizzazione pacifista belga che ha aderito alla campagna Agir pour la paix. Le azioni hanno provocato una dura presa di posizione del Direttore di Frontex Fabrice Leggeri – già sotto inchiesta per i respingimenti di cui l’Agenzia si è resa complice e, in parte, artefice. Leggeri ha parlato di “attacco fisico contro il nostro ufficio giunto al culmine di mesi di discorsi di odio contro Frontex”. Ma di Frontex, del muro di gomma che si erge ogni volta che si prova a cercare di sapere qualcosa di più sul suo operato, sulle risorse economiche, i mezzi e le persone di cui dispone, delle regole di ingaggio per i suoi funzionari, si evita di parlare. L’Agenzia, per curiosa coincidenza, decentrata in numerose città europee – il comando in Italia è a Catania – ha la sua sede centrale a Varsavia, in quella Polonia oggi al centro dell’attenzione. Beh ripartiamo dall’idea di smontare questo pericoloso giocattolo in mano a governi, a volte, spesso a decisioni prese in Commissione o al Consiglio europeo, in altre. A cosa e a chi serve se non si salvano le vite in mare o nelle zone di confine montuose della rotta balcanica? Di un altro strumento repressivo, l’UE, i suoi cittadini che hanno un’idea d’Europa non basata sui muri, non abbiamo assoluto bisogno.

Stefano Galieni

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