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A Lesbos finisce l’Europa

di Stefano
Galieni

di Stefano Galieni – Occorrerebbe coraggio, quello vero. Occorrerebbe la capacità di comprendere che il dramma epocale che si sta consumando a Lesbo, in altre isole greche, in Turchia, nei Paesi balcanici, sta producendo non solo drammi umani inconcepibili, ma fa entrare l’Europa in un percorso senza ritorno. Per la nemesi che spesso ci riserva la storia, quasi 4 anni fa, per l’esattezza il 20 marzo, veniva firmato l’accordo fra UE e Turchia per bloccare l’accesso di profughi siriani. Si sceglieva con un cinismo senza riguardi di destinare 6 mld di euro al regime di Erdogan per fermare l’afflusso in Europa di chi fuggiva da un conflitto dai mille risvolti in cui potenze regionali e mondiali giocavano sulla pelle delle persone, tanto gli jahedisti sostenuti da Arabia Saudita e Usa quanto il dittatore Assad che trovava sostegno russo e iraniano. Circa 3,5 milioni di persone da allora sono bloccate in Turchia, conducendo una vita di stenti, ai margini delle città, nello sfruttamento più assoluto, sognando l’Europa o il ritorno a casa senza bombardieri sulla propria testa. In molti e molte continuavano a tentare di varcare il confine, cercando di entrare in alcune isole greche o ricostruendo la “Balkan route”, infida e pericolosa.

A Lesbos, una delle isole più grandi veniva costruito un hotspot, in realtà un vero e proprio campo di concentramento che originariamente doveva contenere, solo per poco tempo, 3300 persone ma in cui oggi sono ingabbiati in un numero spropositato, fra i 20 mila e i 30 mila. All’inizio la convivenza fra profughi e greci non è stata difficile poi, l’aumento numerico, il crollo del turismo, la consapevolezza che i governi non si stavano muovendo per trovare loro altra collocazione ha lentamente ma inesorabilmente fatto alzare la tensione. Va detto che il cambio di governo non ha certo giovato ma neanche il precedente è riuscito ad imporre all’UE di trovare forme di collaborazione nell’interesse non solo dei profughi ma di chiunque paga lo scotto di una vera e propria emergenza umanitaria. Da ultimo i gruppi neofascisti, un tempo osteggiati dai locali, stanno acquistando giorno dopo giorno consenso: organizzano squadracce per i pestaggi, fermano le persone e se non parlano greco correttamente li aggrediscono, minacciano i volontari che tentano di arginare le sofferenze. Hanno risorse, arrivano nell’isola, noleggiano automobili e da queste organizzano aggressioni. Di alcune è giunta notizia, molte restano totalmente dimenticate o nascoste. Alcuni giorni fa l’incidente (se così vogliamo eufemisticamente chiamarlo) che ha dato la stura al caos.

Un gommone in avaria è stato soccorso da una motovedetta greca. Invece di far salire a bordo i profughi e portarli nel porto di Mytilene, il più grande e attrezzato di Lesbos, dalla nave hanno deciso di spingere brutalmente – alcuni video mostrano colpi di bastone – il gommone nei pressi di un villaggio, dove abitanti e fascisti, già radunati, hanno tentato di impedire l’approdo. Ci sono state aggressioni nell’indifferenza della polizia lì presente, di solito così pronta ad indossare le divise antisommossa quando a manifestare erano i profughi, una volontaria ha rischiato di essere investita e, quando ci sono state poi mobilitazioni dal campo, sono partiti i lacrimogeni.

La Grecia, come del resto l’Ungheria con altre motivazioni, decideva intanto di sospendere per un mese l’esame delle domande di asilo rendendo nei luoghi di concentramento gli animi ancora più esasperati. Ci raccontano da Lesbos che nei mesi passati si sono intensificati i rimpatri collettivi di profughi (vietati da numerose convenzioni internazionali); chi riceveva il secondo diniego all’asilo veniva e viene rinchiuso in un carcere e poi rimandato in Turchia. Da lì molti i rimpatri in Siria, in Iraq o in Palestina. Chi sta tentando di portare assistenza e sostegno ai profughi dichiara di sentirsi in una condizione di guerra aperta e chiede insistentemente l’arrivo di osservatori internazionali, di parlamentari, in grado di portare via da Lesbos i profughi e di trovare altre collocazioni.

La risposta UE è stata cinica e ipocrita. Sono andati al confine greco – turco Charles Michel presidente del Consiglio europep. Ursula Von Der Leyen, presidente della Commissione e David Sassoli, presidente del Parlamento. Ma la presenza delle più importanti autorità UE è servita solo a ribadire l’ipocrisia europea. Le dichiarazioni sono state raggelanti. “Ci aspettiamo che la Turchia faccia la propria parte nel rispetto degli accordi” ha dichiarato Michel. Ancora più netta la posizione di Ursula Von Der Leyen: “Le autorità greche hanno un compito molto difficile. Vorrei ringraziare la loro guardia costiera e di frontiera, la polizia e Frontex per gli sforzi instancabili. Abbiamo lanciato un meccanismo di protezione civile su richiesta della Grecia, che può ricevere assistenza in termini di medici, tendoni e altro. Una situazione che è responsabilità in toto dell’Europa, e lo gestiremo in modo ordinato, con unità e determinazione”. La presidente ha concluso: “È il momento per un’azione concertata, agire in modo logico e razionale. La Turchia non è un nemico, la gente non è un mezzo per ottenere un obiettivo. Ringrazio la Grecia per essere la nostra protezione europea questa volta”.

In soldoni: la Grecia come scudo per impedire l’accesso in UE (sono stati destinati altri 700 milioni a Frontex), la Turchia come partner affidabile – parliamo dello stesso paese il cui governo, per ottenere ulteriori risorse dall’UE ha spostato sul suo confine occidentale circa 100 mila profughi con cui intende minacciare l’Europa – e solidarietà a forze militari che hanno scelto la linea dura, che compiono esercitazioni militari a Lesbos per dimostrare agli abitanti che le armi ci sono e, per non entrare nei problemi interni di Atene, nessun riferimento alle bande neofasciste che impongono il terrore. Sassoli ha parlato, senza definire tempi e modi, della “necessità di rafforzare una politica comune per l’immigrazione in Europa. Per il Parlamento europeo, chi arriva in Grecia arriva in Europa e il continente deve procedere ad una distribuzione equa dei migranti che garantisca la libertà e i diritti delle persone”. Ha concluso la sua conferenza stampa dicendo poi  “Siamo qui anche per dire grazie ai cittadini della Grecia e a coloro che stanno cercando da tanto tempo di proteggere le persone, di fare in modo che non si aggiungano altre sofferenze.

L’impegno dei Paesi europei deve essere più forte, anche in generosità, perché spesso è stato improntato al proprio interesse. Lo spazio europeo merita qualcosa di più”. A chi si aspettava proposte concrete, interventi immediati – a Moria, nel campo di Lesbos si muore anche di freddo e a morire sono i bambini – si risponde con le “buone intenzioni”, con le parole rituali. In realtà è giusto rendersene conto, in contesti come quello di Lesbo, in assenza totale di impegni reali in favore delle persone colpite, senza ridiscutere e magari abrogare gli accordi infausti con la Turchia che hanno messo il continente nelle mani di un sultano spietato, con queste parole, con questa ipocrisia e queste carezze da complici dei carnefici, si uccide l’idea stessa di Unione Europea, non solo qualsiasi speranza di umanità diversa.


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