di Roberto Musacchio –
Marx, che di critica all’economia politica se ne intendeva, lo diceva chiaramente: al capitalismo serve la disoccupazione.
Serve un esercito del lavoro di riserva che prema per consentire al capitalismo di pagare il lavoro al più basso prezzo possibile, il mero costo della sua riproduzione.
Una contestazione secca del pensiero reazionario per cui la disoccupazione sarebbe colpa del lavoro che non si adegua ad abbassare le sue pretese e ad accompagnare il naturale equilibrio creato dal mercato (legge di Say).
Pensiero reazionario contestato anche da Keynes per cui al contrario solo incrementi salariali e interventi pubblici creano la domanda capace di assorbire la produzione e sostenere l’occupazione.
La critica sistemica e radicale di Marx e quella più “interna” di Keynes hanno convissuto a lungo convergendo nel paradigma virtuoso dei cosiddetti anni gloriosi.
Anni in cui la Piena Occupazione era al centro dei programmi politici e, in larga parte, degli stessi intenti degli Stati. La Repubblica fondata sul lavoro che apre la nostra Costituzione sta in questo contesto.
E così il riconoscimento del diritto collettivo del lavoro a progredire, il ruolo del pubblico per consentirlo, l’universalità del welfare e il carattere redistributivo delle politiche fiscali. La Piena Occupazione è stata addirittura trasversale in Europa ai due sistemi divisi dal Muro.
Poi, d’un tratto, la Piena Occupazione si eclissa.
E si eclissano le politiche ad essa connessa, il pubblico, il welfare, la redistribuzione fiscale. Il diritto del lavoro a crescere collettivamente era arrivato a intaccare le analoghe e ben più fameliche aspettative del Capitale.
L’economia, che in realtà più che una scienza è la “battaglia delle idee” del conflitto di classe, aveva attivato i suoi virus per indebolire la “classe”: ristrutturazione, inflazione e poi debito; ripristino dell’egemonia ideologica, politica, militare e tecnico scientifica, finanziarizzazione.
Sul terreno del lavoro e del suo senso di sé, la classe per sé la chiamava Marx, l’offensiva è genetica e torna al cuore del pensiero reazionario che la disoccupazione è colpa e rifiuto di adattamento.
E si spinge oltre, a stravincere. Non più il lavoro e il diritto ad averlo e a governarlo collettivamente ma “impiegabilità” che si conforma a ciò che fa l’economia e cioè la crescita e l’innovazione affidate alla azienda.
Hai diritto a lavorare sì, ma come essere impiegabile, adattabile, flessibile. Sulla base di questa rottura si determina lo straripamento che conosciamo.
L’impiegabilità diviene controllo totale sulla totalità del tempo e della vita delle persone, escludendo qualsiasi autodeterminazione.
Devi essere disponibile sempre. Quando e come servi lo decidiamo noi.
Lo stesso concetto di salario che era arrivato ad osare di dichiararsi variabile indipendente non solo diviene dipendente ma aleatorio. Se e quanto “prendi” lo decidiamo anche questo noi, fin sotto il limite di riproduzione di te stesso, cioè oltre Marx.
Anche perché il capitalismo globale finanziarizzato ha un appetito insaziabile e una capacità di astrazione che aspira all’accaparramento totale. Denaro per mezzo di denaro facendo scomparire la merce fisica e umana che lo genera.
Ma questo tracollo del lavoro porta con sé il tracollo di tutto il paradigma virtuoso, il welfare, la redistribuzione fiscale della ricchezza.
La vicenda delle pensioni è emblematica per come sono trasformate da welfare garantito dalla solidarietà intergenerazionale e tra lavoratori a quote sempre più residuali ed aleatorie di salario differito e per altro espropriato dal capitale finanziario e reso “incerto” dalla precarizzazione.
È veramente incredibile e scandaloso che i pensatori reazionari propongano come “colpa” l’innalzamento della aspettativa di vita o la mancanza di contributi non versati perché il lavoro è intermittente e mal pagato.
In questi giorni di coronavirus siamo arrivati ad un vero comma 22: se hai 65 anni sei fragile e devi stare a casa ma per andare in pensione ne serviranno 70.
Come la disoccupazione, divengono una “colpa” accollata a chi non accetta la presunta tecnicizzazione del “soldo messo da parte” suddiviso per aspettativa di vita.
Siamo all’abominio per altro senza fine visto che il connubio tra continua svalorizzazione del lavoro e andamento demografico porta verso il darwinismo “malgenetico”.
La mostruosità del Sistema è pari infatti alle sue contraddizioni.
Quella demografica appare esplosiva e infatti l’Fmi esplicita sempre più aggressivamente la sua teorizzazione sulla “insostenibilità” della vecchiezza.
Che è poi l’abbrivio all’insostenibilità dell’umano. In un capitalismo globale finanziarizzato dove l’estrazione del plusvalore è fatta su una “massa” lavorativa ridotta all’anomia nessun soggetto vivente viene riconosciuto come tale.
Ai “vecchi” soggetti operai e lavorativi che hanno ancora volto e corpo viene mossa la guerra della colpa del vivere oltre il soldo del loro salvadanaio biologico.
Con i giovani precarizzati, massa di estrazione, non ci sarà bisogno che l’astrazione finanziaria motivi il loro non diritto.
Come nei film di fantascienza dove il tempo di vita si compra, il capitalismo mostrerà sempre più draconicamente questa che è poi la sua vera natura.
Aveva ragione Marx, contro la barbarie c’è solo il socialismo. E il lavoro è il suo motore. Non come condanna ma come identità e riconoscimento reciproco. Come capacità di astrazione liberatoria.
Ieri il welfare, oggi perché no un reddito di cittadinanza. Magari come lo pensava André Gorz e cioè come doppio assegno, riconoscimento monetario alla partecipazione alla riproduzione sociale che accompagna la retribuzioni per le attività produttive.
In attesa che il tutto del lavoro evolva, con la specie liberatasi dal dominio di classe, verso le “libere attività”.
Utopie? Se si pensa al dominio dell’astrazione di cui è capace il capitalismo globale finanziarizzato che si avvale delle reti e arriva a farti lavorare senza pagarti, si capisce che il reddito di cittadinanza era ed è la continuazione necessaria del welfare per sostenere la battaglia delle idee contro il Capitale.
Invece siamo arretrati, addirittura franati. Purtroppo l’Europa prima e peggio di altri.
Addirittura per gli USA l’occupazione è condizione indispensabile ad eleggere un Presidente, come spiegano gli analisti.
Non è così in Europa dove la governance prescinde dalle condizioni sociali, si è resa dominio, funzione di servizio del Sistema.
Restano, come geroglifici di una lingua passata che nessuno sa più decifrare, gli “obbiettivi” di occupazione della UE affidati però alla impiegabilità, alla innovazione, alla crescita, al mercato…
Fonemi di corde vocali lacerate.
La Piena Occupazione resta nei cinegiornali d’epoca degli anni gloriosi, fino a Brandt, Palme, Berlinguer.
Ma un virus ci dice oggi che la globalizzazione non sa come sopravvivere a se stessa e al suo cumulo di bugie e violenza. Il capitalismo vive di crescita, ma non accresce benessere. Se c’è malattia, si ammala. Vive nella globalizzazione ma non regge la complessità.
Forse è l’ora di riprendere fiato e parola, ricucire le corde vocali. La Piena Occupazione è una cosa da tornare a chiedere.
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Ottima analisi.
Il problema che abbiamo, non da oggi, è che fare, con chi e chi è in grado e credibile di farlo.
Buona giornata
Franco Argada