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A 50 anni dalla Conferenza di Helsinki – intervento di Francis Wurtz

Il 1° agosto 1975, 35 paesi firmarono nella capitale finlandese un accordo che può essere legittimamente definito storico: l’Atto finale della “Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa” (CSCE). Si trattava, infatti, di creare le condizioni per una graduale uscita dalla «guerra fredda», in un momento in cui due blocchi politicamente, economicamente e ideologicamente antagonisti si fronteggiavano. A distanza di mezzo secolo, sorgono tre grandi interrogativi.

Come siamo riusciti a ottenere questo straordinario successo? In particolare, quali iniziative diplomatiche significative di quel periodo meritano di essere ricordate per trarne insegnamenti utili oggi?
Al contrario, come si spiega che, 50 anni dopo, nonostante la scomparsa dell’antica bipolarità strategica del mondo, un divario apparentemente insormontabile separi nuovamente le due parti del continente, che regni nuovamente un clima di guerra fredda e che persino un conflitto armato di alta intensità semini morte e distruzione, al punto da minacciare la pace mondiale?
Infine, in questo contesto, è auspicabile una nuova Conferenza paneuropea sulla sicurezza, una sorta di «Helsinki 2»? Sarebbe possibile? Quali potrebbero essere le sue caratteristiche principali nelle condizioni attuali?

Dalla «Ostpolitik» di Willy Brandt agli accordi di Helsinki

Fin dalla sua elezione come primo Cancelliere tedesco proveniente dalla SPD, nel 1969, Willy Brandt ruppe radicalmente con una dimensione essenziale della politica estera dei suoi predecessori della democrazia cristiana, impegnandosi a normalizzare le relazioni della RFT con l’Unione Sovietica, la RDT e gli altri paesi dell’Europa dell’Est. Negli anni successivi furono firmati una serie di trattati bilaterali e un accordo Est-Ovest su Berlino. Queste iniziative, basate sulla dottrina del suo consigliere Egon Bahr «Wandel durch Annäherung» («il cambiamento attraverso il ravvicinamento»), miravano a evitare che il divario tra le due parti del continente si allargasse sempre più. Esse contribuirono in modo significativo alla distensione che avrebbe portato allo «spirito di Helsinki». Da parte sua, l’Unione Sovietica sosteneva la necessità di una tale conferenza, alla quale gli Stati occidentali si unirono gradualmente, non senza reticenze e riserve. Ci vollero due anni e mezzo di negoziati nel corso di 2400 riunioni internazionali per arrivare all’Atto finale e ai suoi 10 impegni congiunti su tre temi: la sicurezza europea, la cooperazione tra gli Stati firmatari e i diritti umani.

Dalla caduta del muro di Berlino all’aggressione russa contro l’Ucraina

Il successo di Helsinki non impedì né le tensioni tra Est e Ovest né gli scontri “per procura” tra i due “blocchi”, ma offrì un quadro di dialogo multilaterale e consentì importanti progressi, in particolare in materia di disarmo e misure di fiducia, elementi fondamentali per il consolidamento della pace. Quando si verificò la storica cesura rappresentata dalla caduta del muro di Berlino, la “Carta di Parigi per una nuova Europa” espresse la speranza dell’avvento di un’era fondata sulla cooperazione tra tutti i paesi del continente e sulla prevenzione dei conflitti. In questo spirito, all’inizio degli anni ’90 François Mitterrand propose di costituire una «Confederazione europea» che riunisse i paesi dell’Europa occidentale e orientale e l’Unione Sovietica, poiché, come egli stesso sottolineò, «non bisogna isolare la Russia». Ma Washington si adoperò per affossare questo progetto.
Dopo la caduta dell’URSS, il presidente Bush (senior) si considerava il «vincitore della guerra fredda» e deciso a impedire con ogni mezzo l’emergere di una potenza concorrente. Da questa scelta strategica derivò la deplorevole decisione di allargare la NATO verso est. Il pericolo che questa strategia rappresentava per il futuro fu sottolineato da numerose personalità americane. Tra queste, citiamo Georges Kennan, ex ambasciatore degli Stati Uniti a Mosca (ed ex teorico della guerra fredda nel 1947!), che il 5 febbraio 1997 pubblicò sul New York Times un articolo di grande impatto, di cui riportiamo un significativo estratto: «L’allargamento della NATO sarebbe l’errore più fatale della politica americana in tutto il periodo post-guerra fredda. È prevedibile che una tale decisione alimenterebbe le tendenze nazionalistiche anti-occidentali e militariste dell’opinione pubblica russa, avrebbe un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia russa, ripristinerebbe l’atmosfera della guerra fredda nelle relazioni Est-Ovest e orienterebbe la politica estera russa in direzioni a noi non gradite».
Questi avvertimenti premonitori furono ignorati non solo a Washington, ma anche dagli Stati europei membri della NATO. Così, il 5 giugno 2008, il presidente russo Medvedev tenne un discorso a Berlino proponendo all’Unione europea di firmare, sotto l’egida dell’ONU, un trattato paneuropeo di sicurezza che non eludesse nessuna delle controversie esistenti tra le due parti, a una sola condizione: l’indivisibilità della sicurezza. Ogni Stato firmatario doveva impegnarsi a non adottare misure per la propria sicurezza che mettessero a repentaglio la sicurezza degli altri Stati firmatari. L’obiettivo era impedire l’ulteriore espansione della NATO. L’Unione europea ignorò semplicemente questa offerta. Perché? «Non potevamo certo dare a Mosca il diritto di veto sulle decisioni della NATO!», mi risponderanno… O come da presunta «garanzia di sicurezza» per l’Europa, la NATO diventi un ostacolo a un trattato di sicurezza europea. Come non chiedersi: se le potenze occidentali non avessero gestito i loro rapporti con la Russia in modo così irresponsabile, dagli anni ’90 fino al 2008-2010 (continuo allargamento della NATO, ma anche bombardamento di Belgrado, riconoscimento unilaterale dell’indipendenza del Kosovo, ecc.), assisteremmo oggi alla «ondata nazionalista, antioccidentale e militarista» in Russia, che ha portato alla brutale e crudele aggressione contro l’Ucraina?
Porre questa domanda non toglie nulla alla schiacciante responsabilità di Vladimir Putin: spiegare non significa giustificare. L’obiettivo è, in particolare per gli europei, trarre insegnamento dai gravi errori  strategici  del  passato.  Continueremo  a  essere  vicini  della  Russia  a  lungo  termine:  dovremo quindi  trovare  il  modo di gestire le nostre relazioni con senso di  responsabilità e con uno sguardo rivolto al futuro. Ciò significa che occorre esplorare tutte le vie possibili che offrono la possibilità di arrivare a un cessate il fuoco definitivo e all’avvio di negoziati. E questo anche in collaborazione con paesi non europei che, da un lato, desiderano vedere la fine di questa maledetta guerra e, dall’altro, sono in grado di esercitare un’influenza sulla Russia, come la Cina, l’India, il Brasile, il Sudafrica… Ricordiamo che il primo punto del piano di pace proposto da Pechino era il rispetto della sovranità territoriale di tutti i paesi. Non si tratterebbe quindi di riconoscere l’acquisizione con la forza dei territori ucraini – totalmente contraria al diritto internazionale – ma di superare la fase parossistica dello scontro. Solo una volta ottenuto questo cessate il fuoco definitivo si dovrebbe cercare di stabilire tra i nemici di ieri le condizioni per una pace duratura, che passa attraverso la sicurezza comune di tutti i paesi e di tutti i popoli del continente europeo. Il che ci riporta allo spirito di Helsinki.

È possibile oggi un «Helsinki 2»?

Oggi è difficile immaginare un progetto di questo tipo. Eppure, lavorare in questa prospettiva è fondamentale per creare le condizioni per una pace duratura. Certo, nell’attuale contesto, è più facile raccomandare che realizzare il realismo, il sangue freddo, il senso del compromesso e l’intelligenza politica necessari per raggiungere un accordo come quello di Helsinki, soprattutto per il popolo aggredito, ma la sicurezza reciproca ha questo prezzo. Bertrand Badie, eminente studioso di relazioni  internazionali,  ci  ricorda  che  «Mandela  affermava che non si può fare la pace se non lavorando con il proprio nemico e facendone addirittura un alleato». Ciò non implica alcuna indulgenza nei confronti dell’aggressore né alcun tradimento degli interessi dell’aggredito. È la difficile scelta della diplomazia contro la tragedia certa della guerra. Ecco perché, per quanto possa sembrare impensabile a prima vista, è fondamentale riflettere ora sui contorni che potrebbe assumere un processo che, una volta stabilito il cessate il fuoco, porti a una Conferenza paneuropea sulla fiducia e la sicurezza nelle condizioni del nostro tempo.
Questo progetto potrebbe riprendere dall’esperienza di cinquant’anni fa tutto ciò che è ancora attuale. E innanzitutto, la cosa più importante e imprescindibile: la riaffermazione per il futuro dei principi fondamentali del diritto internazionale oggi calpestati: il non ricorso alla forza o alla minaccia; l’integrità territoriale; la risoluzione pacifica dei conflitti. Ecco perché, anche se non si ottenesse dalla Russia il ritiro delle sue truppe dai territori occupati, sarebbe escluso riconoscere l’annessione con la forza di questi territori ucraini. La risoluzione definitiva di questa questione cruciale rimarrebbe quindi in sospeso. È del tutto utopistico immaginare che, in un tale contesto di negoziati multilaterali, si possa indurre Mosca a rinunciare a queste annessioni a determinate condizioni? Una di queste condizioni sarebbe il congelamento definitivo dell’espansione della NATO, che soddisferebbe una richiesta legittima e di lunga data della Russia: il famoso principio dell’«indivisibilità della sicurezza», perfettamente logico nel quadro di una regolamentazione globale della sicurezza collettiva europea. L’altra condizione sarebbe la graduale ripresa dei legami economici, scientifici, ambientali e umani tra le due parti del continente.
Si  tratterebbe  ancora  una  volta  di  una  sfida  ardua,  dopo  la  rottura  senza  precedenti  tra  l’Europa occidentale e la Russia dal 2022 e le 19 serie di sanzioni dell’Unione europea!  Una tale metamorfosi è solo immaginabile? Nel corso di diversi anni di negoziati – e questa volta il processo sarebbe più lungo rispetto a 50 anni fa – una diplomazia attiva può riservare sorprese, a patto che esista la volontà politica di raggiungere dei risultati. Ma nessuno può sottovalutare l’immensità degli ostacoli da superare per riuscire in un’impresa del genere. Tanto più che rimarrebbero inoltre da gestire le condizioni per la ricostruzione dei siti distrutti o danneggiati in Ucraina, per non parlare delle conseguenze giudiziarie del mandato d’arresto emesso dalla Corte penale internazionale contro Vladimir Putin…

L’estrema complessità di un simile processo giustificherebbe un’innovazione significativa rispetto all’esperienza del 1975. Essa consiste nel coinvolgimento dei cittadini – giovani, movimenti sociali, attivisti per la pace, donne e uomini di cultura, scienziati, insegnanti, ONG umanitarie… – nel maggior numero possibile di paesi. Una sfida del genere, fatta di tante contraddizioni ritenute irrisolvibili, non può più rimanere appannaggio dei soli leader politici che finora non hanno dato prova delle loro capacità diplomatiche. Si può invece immaginare il clima favorevole alla ricerca di soluzioni inedite a favore della pace che potrebbe suscitare una mobilitazione civica ampia e risoluta. La vita è fatta di scommesse audaci. Questa è una di quelle. Osiamo coglierla!

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