articoli

La lunga lotta per l’indipendenza  dell’Africa occidentale

di Luciano
Beolchi

In Africa occidentale non si registra un unico episodio rivoluzionario mosso da istanze sociali come fu tipicamente quello della rivoluzione russa e neanche un movimento unitario e concentrato di liberazione nazionale come fu, per citare l’esempio più noto, quello bolivariano dell’America Latina a inizio ottocento. L’elemento che caratterizza la regione è la continuità senza soluzione tra la lotta per la difesa dell’indipendenza e la lotta per la riconquista dell’indipendenza: il tutto nello spazio di poco più di ottanta anni.

La storia dell’Africa occidentale non si riduce al periodo coloniale, come insigni studiosi bianchi hanno preteso che fosse[1]. Nell’Alto Medioevo gli imperi del Ghana (VIII-XII° sec.), del Mali (XIII-XV° sec.) e del Songhai (XV°-XVII sec.)[2] erano più potenti, organizzati e ricchi di qualsiasi formazione statuale europea e grande era lo sviluppo contestuale dei regni e imperi del golfo di Guinea (regno del Benin, impero di Oyo).

Le testimonianze scritte dei viaggiatori e geografi arabi dal X secolo in avanti sono tanto abbondanti e dettagliate quanto piene di stupore, per quanto una delle conquiste più stupefacenti dell’Africa occidentale, sfuggita tanto agli eruditi arabi che ai colonizzatori bianchi, fu la costituzione di Manden, trasmessa identica, per via orale, attraverso linee di memoria che si tramandano dal XIV secolo in località distanti anche migliaia di chilometri. È la Costituzione del re Sundiata Keïta, un documento prezioso riconosciuto come patrimonio immateriale dell’umanità.

In termini giuridici sarebbe forse più corretto chiamarla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e della Donna che anticipa di sei secoli e per certi versi supera la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1948.

Gli europei che, arrivando dall’Atlantico sbarcarono a partire dal XV secolo nel Golfo di Guinea, furono d’altra parte stupiti nell’osservare e registrare l’alto livello di sviluppo sociale economico e culturale – in altre parole quello che si chiama civilizzazione – dei regni del Dahomey, di Ashanti e soprattutto del Benin, tutti e tre affacciati o prossimi- il Benin- alle coste del golfo di Guinea.

Fino alla fine dell’Ottocento, i bianchi si limitarono allo sfruttamento di aree costiere che servivano da campi di concentramento per gli schiavi in attesa di essere deportati oltreatlantico a milioni e da empori per lo scambio di merci: sostanzialmente l’acquisto di oro, avorio e soprattutto schiavi contro armi da fuoco, alcool e tessuti.

Con il Trattato di Berlino del 1885, l’Africa fu divisa tra le potenze europee che si riservavano ciascuna il diritto di colonizzare l’Africa Subsahariana. La motivazione principale che fu data allora e che soddisfece anche le anime più sensibili alle questioni sociali, fu che i bianchi portavano civiltà, cristianesimo e commercio, cosicché finalmente anche l’Africa sarebbe potuta entrare nella storia e questa storia sarebbe stata la storia della colonizzazione.

Violenze e inganni

Già a partire dalla metà degli anni settanta del XIX° secolo era ripresa la penetrazione dei colonizzatori bianchi nel Sahel. Erano, al momento, commercianti, avventurieri, diplomatici, mezzi razziatori, militari in aspettativa, pseudo-missionari, giovani intraprendenti e tutti alla ricerca di un colpo di fortuna più fortunato degli altri.

L’obiettivo primo era di far firmare ai re grandi e piccoli e anche a semplici millantatori che si vendevano per poco, dei buoni accordi di protettorato – che era sembrata una soluzione così brillante per sottomettere nel 1881 la Tunisia senza che nessuno se ne accorgesse. I negri credevano che fosse un’alleanza alla pari e anzi, siccome i francesi s’impegnavano a passargli ogni anno qualche migliaio di franchi, pensarono che era una specie di vassallaggio, ma non loro bensì della controparte. Gli stranieri chiedevano il monopolio del commercio ed erano disposti a pagare per averlo; sicché diventava conveniente vendere i diritti di monopolio a due/tre potenze straniere, non ci vedevano niente di male. Per il momento quel genere di trattati non imponeva la presenza di truppe e anche il passaggio delle stesse sul territorio nazionale doveva essere preventivamente accettato. La stessa tecnica del resto fu adottata dalla Royal Niger Company per impadronirsi della Nigeria facendo firnare a capi e re il seguente accordo, dopo che gli interpreti gli avevano spiegato che era a garanzia della sottomissione dei mercanti inglesi all’autorità del r;

Noi sottoscritti Re e Capi […], al fine di migliorare la condizione del nostro Paese e del nostro popolo, cediamo oggi alla National Africa Company (Limited), ai loro eredi e aventi diritto, per sempre, l’intero nostro territorio […] Diamo inoltre alla suddetta National African Company (Limited) il pieno potere di risolvere tutte le controversie tra nativi che dovessero sorgere per qualsiasi causa, e ci impegniamo a non entrare in guerra con altre tribù senza l’autorizzazione della suddetta National Africa Company (Limited).

La resistenza fu aspra. In quella che è oggi l’odierno Senegal durò parecchi decenni e tra stermini, incendi e altri orrori, i francesi la considerarono esaurita solo con la fine dell’Ottocento. Rifarne in breve la storia non è possibile ma vi sono alcune figure che restano emblematiche della lotta globale per la libertà dei popoli. Tra di queste Samory Touré (1830-1900) che cominciò la sua guerra di resistenza nel 1878 e fu catturato dai francesi solo nel 1898. Nel corso di quella guerra costruì un vasto impero, creò scuole e un esercito in grado di affrontare i francesi con le risorse che offriva la società africane: l’impero di Wassolou tra Mali, Costa d’Avorio e Burkina Faso. La strategia di resistenza si basava sulla costituzione di un esercito ben addestrato, l’impiego di tecniche di guerriglia e l’uso raffinato della diplomazia. I suoi soldati, una volta arresisi, furono impiegati in massima parte come schiavi, proprio quella schiavitù che la potenza coloniale s’impegnava a sradicare. Gli altri esponenti della resistenza senegalese furono Lat Dior (1842-1886) che per venticinque anni combatté i francesi nel nord del Senegal, infliggendo loro più perdite che chiunque altro. Lottava per l’indipendenza della regione di Cayor. In venticinque anni impegnò i francesi in più di venti battaglie Anche lui seppe infliggere al nemico cocenti sconfitte e come ammise a malincuore il governatore francese Louis Faidherbe (1818-1889) : “Per venticinque anni, Lat-Dior ha sempre combattuto contro di noi, sia con le armi che con le azioni. Una volta ci inflisse un sanguinoso disastro a N’golgol, dove 103 dei nostri uomini su centoquaranta rimasero sul campo; nel 1869, i suoi cavalleggeri distrussero quasi completamente lo squadrone di spahi senegalesi a Mekhey […]”[3].El Hadji Oumar Tall (1797-1864) è l’esponente più noto della Jihad con cui si scontrarono i francesi, ma che come principale obiettivo aveva quellodi rovesciare i vecchi regni conservatori e classisti africani. Prima di lui a indicare la strada di un rinnovamento dell’Islam era stato Ousman Dan Fodio 1754-1817), noto anche come letterato che partito dalle montagne del Fouta Djallon, dove nascono i grandi fiumi africani, aveva finito per creare il grande impero Ulani nella odierna Nigeria settentrionale.   Gli imperi Jihadisti costituiscono un segmento del tutto particolare della lotta per l’indipendenza africana. Il più potente fu il califfato di Sokoto, nell’odierna Nigeria. Alboury Ndiaye (1847-1901), di famiglia reale, difese la libertà dei Wolof, lottando al fianco del figlio di El Hadji Oumar, Ahmadou (1836-1897). I due si ritirarono per quasi duemila chilometri dal Fouta Djallon alla Nigeria, affrontando i francesi in numerosi scontri senza mai arrendersi, ma prima di questa impresa militare Ahmadou aveva creato e difeso un vasto impero, con capitale Segou. Mamadou Lamine Dramè (1840-1887) nell’alta valle del Senegal guidò le rivolta che sollevò il popolo contro i francesi in tre successive ondate, tra 1885 e 1887.

Vere e proprie campagne militari, oltre a quelle del Senegal, furono le guerre del Dahomey, descritto dai contemporanei come uno stato altamente sviluppato. Nel mentre i francesi compivano le loro prodezze nei territori di competenza, gli inglesi combattevano guerre di rapina e di sterminio contro il Regno Ashanti e quello del Benin, al quale in un solo saccheggio, nel 1887) furono sottratti oltre cinquemila pezzi d’arte di squisita fattura, ora distribuiti tra musei e collezioni private di mezzo mondo e che i bianchi si rifiutano di restituire con la giustificazione che dei negri non ci si può fidare perché sono lazzaroni e ladri (si veda in proposito l’esimio giornalista Rampini nel suo recente libro sull’Africa).

Nell’odierno Ghana, l’Impero Ashanti sfidò gli inglesi in quattro successive guerre nel corso dell’Ottocento, oltre a una quinta, all’inizio del Novecento, nota come l’insurrezione Ashanti, guidata da grande personalità femminile.

Il Dahomey, odierno Benin, era una potenza regionale e resistette a lungo alla colonizzazione francese, col il suo re Bèhanzin e con la famosa divisione femminile di guerriere conosciute come Agojie o Agoledjeè o anche come Le nostre madri. I Francesi chiamarono guerre del Dahomey gli scontri più accaniti del 1893-1894[4].

Per i giovani militari francesi in cerca di gloria le occasioni di farsi strada non vennero a mancare neanche dopo, perché le guerre coloniali continuarono fino agli anni Venti, oltreché nel solito Camerun – cui anche Macron si è riferito specificamente come “teatro di crimini contro l’umanità” [insieme all’Algeria e al Madagascar] – anche in Ciad, che fu l’ultima colonia ad essere annessa al cosiddetto II Impero coloniale francese[5] tra 1900 e 1920, e in questo caso la lotta di resistenza fu in diretta continuità con quella di liberazione, L’occupazione fu fatta con gli stessi metodi sanguinari usati in precedenza e utilizzando in particolare il sistema delle rappresaglie sui civili in anticipo su quanto avrebbero fatto i tedeschi nella seconda guerra mondiale[6].

Stagione delle piogge 2012 – maggio 1913 : assedio del villaggio di Morgué nella Guéra. Secondo il rapporto del tenente Duault, gli abitanti del villaggio che rifiutarono di sottomettersi ai francesi si rifugiarono in “una posizione inespugnabile che poteva essere presa solo di sorpresa, o ridotta dalla fame e dalla sete”. Dopo oltre sei mesi di assedio, le truppe coloniali riuscirono a raggiungere la piattaforma dove si erano rifugiati gli insorti. Il capo Ratou e un numero imprecisato di abitanti del villaggio furono uccisi, mentre altri si arresero. Si dice che cinquanta giovani (ragazzi e ragazze) si siano gettati dalla piattaforma quando le forze francesi hanno attaccato. Il rapporto coloniale di Duault commenta che “forse la paura di terribili rappresaglie li ha spinti a preferire questo tipo di morte. Il gesto non è meno bello” (Duault, 1938)[7].

Non si parla a caso di rappresaglie di tipo tedesco. Un esempio significativo è il seguente;

15 novembre 1917: “massacro dei tagliagole”. Il 23 ottobre 1917, il maresciallo Guyader viene pugnalato a morte ad Abéché (Ouaddaï). In seguito a questo evento, il capo del distretto, il comandante Gérard, sospettò che i dignitari dell’Ouaddaï complottassero contro i francesi – cosa che le fonti storiche negano. La mattina del 15 novembre, ordinò ai fucilieri di uccidere l’aguid (capo militare) di Dokom e i suoi uomini – furono uccise cinquantasei persone – e più di venti faki (insegnanti coranici). Le loro teste furono trasportate e allineate in due file all’ingresso orientale del distretto, dove oggi si trova il monumento ai caduti di Abéché. Anche lo sceicco Mahamid fu arrestato e ucciso a Biltine, insieme a una quarantina di suoi parenti e alleati. Tutte le case del quartiere di Chig-el-Fakara furono saccheggiate e una ventina di influenti personalità politiche e religiose furono deportate in altri Paesi dell’Africa equatoriale francese. Gli eventi del “coupe-coupe”, che causarono un centinaio di morti secondo Bernard Lanne e circa centocinquanta secondo Mahamat Adoum Doutoum, spinsero gli intellettuali di Ouaddaï a partire per il Sudan o l’Egitto. I villaggi si svuotarono a favore del Sudan. L’insegnamento dell’arabo fu colpito in modo permanente e l’ostilità verso i francesi fu rafforzata dal mantenimento di una politica repressiva. Per questa violenza, il comandante Gérard fu semplicemente costretto al pensionamento anticipato. Va notato che un centinaio di studiosi e accademici musulmani subirono la stessa sorte ad Agadez nel 1917[8] .

Schiavitù e lavoro forzato

La schiavitù era stata solennemente abolita dai francesi nel 1848 in tutte le colonie (dopo la prima abolizione, poi cancellata da Napoleone, del 1792), ma nel 1905, sempre nell’Africa occidentale “francese”, dove il governo giurava che la schiavitù era sradicata[9], scoppiò la rivolta di cinquecentomila schiavi che fuggirono dai loro padroni[10], mentre la resistenza contro i bianchi continuava particolarmente accanita in Gabon e in Camerun, il paese dove forse più che in ogni altro non ci fu soluzione di continuità tra la resistenza all’occupazione e lotta di liberazione nazionale.

La lotta sociale – che durante la prima guerra mondiale si unì alla lotta per la pace e contro gli arruolamenti forzati – continuò per tutto il XX secolo. Il Senegal è pieno di episodi eroici di resistenza antifrancese: dagli scioperi degli anni Venti e ripresi negli anni Quaranta, ricordati con passione nel romanzo di Ousmane Sembené, Les Bouts de bois de Dieu, del 1960, ai 34 fusillers che avevano combattuto per la Francia e che furono massacrati nel novembre 1944 alla periferia di Dakar perché chiedevano la paga per cui avevano combattuto. Anche in questo caso la memoria della tragedia ritorna nell’eccellente film girato sempre, da Ousmane Sembené nel 1987, Camp de Thiaroye. In quegli stessi anni il Senegal vedeva morire la sua eroina, Aline Siloe Diatta che aveva combattuto contro l’imposizione sa parte dei francesi di requisizioni e altre tasse di guerra. Il boicottaggio fatto da un movimento di donne ebbe successo e Aline fu arrestata. Deportata a Timbuctù, morì in prigionia il 24 maggio 1943.

La rivolta dei Mossi in Burkina Faso durante la Prima guerra mondiale fu, stando ai resoconti dell’esercito francese, una delle più dure e sanguinose campagne coloniali: venendo dopo, per sangue sparso, solo alla guerra di Algeria e alle due campagne di sterminio in Madagascar: al momento dell’occupazione e poi ancora nel 1947. Il trattamento ricevuto dai negri reclutati a forza nell’esercito francese fu discriminatorio quando non propriamente nazista e le vite dei negri venivano valutate meno di quelle dei bianchi. Assai suggestivo il libro di David Diop, Frêre d’ âme che nel 2018 ottenne il Premio Goncourt.

Il governo francese che aveva introdotto una forma surrettizia di schiavismo nelle sue colonie, il lavoro forzato che riguardava quasi tutta la popolazione negra, si oppose con tutte le sue forze alla Risoluzione del BIT del 1930 che condannava lo schiavismo e il lavoro forzato in Africa e lo proibiva sia pure con molti distinguo. Accettò di abolirlo solo nel 1945 per mantenere la promessa fatta ai negri se avessero combattuto la guerra dei bianchi, ma la rivolta del Madagascar, nel 1947, scoppiò appunto contro l’imposizione del lavoro forzato nelle piantagioni dei coloni e fece più di trentamila morti. La pratica del lavoro forzato dei negri come normale rapporto di produzione continuò in tutte le colonie dell’africa occidentale ed equatoriale francese. Peraltro, alla fittizia abolizione dello stesso si associò il 22 dicembre 1945 l’istituzione del Franco CFA che alle catene sostituiva la schiavitù finanziaria delle nazioni africane, tuttora in vigore.

I cantieri stradali e ferroviari e in genere tutti i lavori pubblici per il quale si costringeva la popolazione al lavoro forzato erano inferni. Uno non diverso dagli altri assurse a una qualche notorietà perché negli anni venti ne parlarono scrittori famosi come André Gide o come Celine, che vi si era imbattuto per caso o Albert Londres (Terre d’ébène), che invece era andato a cercarlo.

Gide, in Voyage au Congo, pubblicato dopo il suo viaggio nell’Africa equatoriale, descrisse la ferrovia Congo-Oceano come “uno spaventoso consumo di vite umane ”, salvo avvisare il lettore che “Non si possono fare progressi in certi settori senza sacrificare vite umane”. Sempre che siano negri.

Il governatore generale dell’AEF aveva previsto di reclutare operai in una fascia di territorio di 100 km lungo il futuro tracciato, ma ben presto le riserve umane si esaurirono e questo perché la maggiora parte degli operai era morta. Fu quindi necessario reclutare più lontano, utilizzando il principio del lavoro forzato, cercando “maschi” adulti da un capo all’altro del Medio Congo. Ma gli indigeni abbandonarono presto il sito, poiché era ben noto a livello locale che il lavoro nel massiccio di Mayombe[11] era sinonimo di morte. Nel febbraio del 1925 si decise di reclutare i lavoratori più lontano, nell’Oubangui-Chari (oggi Repubblica Centrafricana), dove tra il 1926 e il1931 furono reclutati quasi 6.000 uomini all’anno. Gli altri venivano da Camerun e Ciad. Una volta arrivati, le condizioni di vita in questo ambiente ostile erano terribili. I lavori di sterro venivano eseguiti con i picconi e la terra veniva trasportata a spalla dagli uomini. La situazione migliorò solo nel 1929, anno in cui i dati ufficiali registrarono “solo” 1.300 morti contro i 2.600 dell’anno precedente, grazie alle prime machine portate nei cantieri.

Per risolvere il problema della manodopera, il Ministro delle Colonie, André Maginot, ebbe l’idea di far venire lavoratori cinesi. Così 600 coolies furono portati in Congo da Canton e Hong Kong, ma quando arrivarono a Mayombe si ribellarono. I più riottosi furono subito licenziati- e abbandonati in Africa senza lavoro né alloggio. L’anno seguente i superstiti 400 coolies furono rimpatriati, mentre altri morirono sul posto.

La stampa dell’epoca ha riportato che la costruzione della Congo-Ocean è costata la vita a un nero per traversina e a un bianco per chilometro. Ciò avrebbe significato più di 600.000 morti tra i neri e almeno 500 morti tra gli i tecnici bianchi, ma le cose non andarono poi così male perché le vittime di quel solo cantiere si calcolano in non più di sessanta/ centomila negri e una cinquantina di bianchi.

Nel febbraio 2014, il Conseil représentatif des associations noires de France (CRAN ) ha avviato un’azione collettiva contro lo Stato francese e la Spie Batignolles (quest’ultima in qualità di erede della Société de construction des Batignolles, per crimini contro l’umanità durante la costruzione della linea Chemin de fer Congo Ocean, ma  la risposta deve ancora arrivare, se mai arriverà dai tribunali dei bianchi.

Dopo la guerra, in Camerun si riaccese più forte la lotta armata contro i poco più di tremila coloni francesi che attraverso l’infame “diritto coloniale” si arrogavano in pratica diritto di vita e di morte su tre milioni di negri. Lo stesso accadeva parallelamente in Madagascar, dove la repressione dell’eroica legione straniera francese fece settantamila morti nel 1947.

Anche qui, per chi voglia aprire gli occhi c’è una testimonianza raccapricciante che è il documentario bellico storico Fahavalo diretto da Marie-Clémence Paes.

Perciò, quando si può dire che cominciò la lotta di liberazione dal colonialismo? Di sicuro i precursori vennero perseguitati, imprigionati e uccisi. Sékou Touré proclamò l’indipendenza della Guinea nel 1958 senza aspettare le grazie di De Gaulle, che indispettito portò via da Conakry anche i telefoni e i cessi.

Alla svolta della colonizzazione, nel 1960, i più restii a capire che il mondo cambiava furono i portoghesi e così scoppiò la rivolta armata nella Guinea Bissau – Isola di Capoverde. Una delle più crudeli, con uno dei leader più autorevoli e più coerenti sostenitori dell’unità africana, Samora Machel. Quando finì la lotta per l’indipendenza? Quando fu incarcerato il presidente socialista della Federazione del Mali Keita? Quando fu ucciso Thomas Sankara nel 1987? O quando i cubani lanciarono l’operazione Carlota nel 1975 per salvare il regime angolano rivoluzionario attaccato dai bianchi sudafricani?

 

Luciano Beolchi

[1]  Valga per tutti, per non disturbare il solito Hegel, l’illustre professore Trevor-Roper, Professore ordinario di storia moderna a Oxford e autore de L’ascesa dell’Europa cristiana che tale genere di cose proclamava con estrema sicurezza nel 1965, dopo un secolo di colonialismo inglese in Africa. Vedi: Zeinab Badawi, Storia africana dell’Africa, Rizzoli 2024, p 224.

[2]             Jean Suret-Canale,  Afrique noire Occidentale et centrale : Géographie, civilisation et histoire, Editions Sociales, Paris, 1961.

[3]             Faidherbe, Le Sénégal, la France dans l’Afrique Occidentale, Hachette, 1889, pag. 443.

[4]             Sull’argomento esiste un’ampia letteratura. Netflix ha prodotto un film di successo, The woman king  e MyMovies il documentario Dahomey, sul furto e la difficile restituzione delle opere d’arte saccheggiate in Dahomey.

[5]             Il primo impero fu il frutto dell’espansione coloniale al tempo dei re di Francia,

[6]          Marielle Debos, Violences coloniales et résistance au Tchad (1900-1960), http://bo-k2s.sciences-po.fr/mass-violence-war-massacre-resistance/fr/document/violences-coloniales-et-resistance-au-tchad-1900-1960.

[7]              Jean Chapelle, Le peuple tchadien, ses racines, ses combats et sa vie quotidienne, Paris, L’Harmattan, 1980, p.223.

[8]             Il resoconto, con tutti i riferimenti documentari è nella tesi sopra citata di Marielle Debos

[9]             Lo stesso governo, fornendo i risultati del censimento del 1904, ammetteva però che su una popolazione di 10 milioni di persone, gli schiavi erano almeno due milioni.

[10]            Richard Roberts and Martin A. Klein. The Banamba Slave Exodus of 1905 and the Decline of Slavery in the Western Sudan, The Journal of African History , 1980, Vol. 21, No. 3 (1980), pp. 375-394.

[11]            Il Mayombe era un massiccio di montagne a una sessantina di chilometri dalla costa, in piena foresta equatoriale e dove l’unico attrezzo che avevano gli opera per scavare tunnel lunghi chilometri erano i picconi.

Articolo precedente
Il coraggio della Memoria. Educare non è militarizzare
Articolo successivo
 Trieste tra inverno demografico e altri problemi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.