di Stefano Galieni –
Il 9 maggio ha ormai assunto un valore fondativo per i processi di integrazione europea. Al di là dei vari e controversi passaggi che hanno portato all’attuale UE, la presentazione del Piano di cooperazione economica di Jean Monnet, esposto in quella che ormai è nota come “Dichiarazione Schuman”, in questa data del 1950, prospettava già un futuro certamente diverso da quanto si è poi realizzato ma il cui valore non va dimenticato. Una data non casuale, 5 anni prima, la definitiva capitolazione nazista segnava la fine del conflitto in Europa (il Giappone cadde 3 mesi dopo con le orrende stragi nucleari di Hiroshima e Nagasaki) e la data divenne dal 1985, in occasione di un vertice tenutosi a Milano, il “Giorno dell’Europa”. Ma proprio nel 1985 cominciavano a definirsi anche attraverso atti pubblici, anche i limiti dell’Unione che si andava realizzando. Già il nodo centrale era stato quello di una integrazione quasi esclusivamente a carattere economico e finanziario che lasciava di fatto ai singoli Stati gran parte delle competenze legislative ma, nello stesso anno, nella piccola città di Schengen, luogo di confine fra Francia, Germania e Lussemburgo, si predisponevano i meccanismi di circolazione delle persone nel continente che negli anni hanno prodotto una profonda disparità nei diritti. Lentamente negli anni, mentre l’UE si ingrandiva e il ruolo delle istituzioni economiche come la BCE diveniva preponderante, da una parte si realizzava una gerarchia interna nella libertà di movimento dall’altra si erigevano le prime barriere esterne. Dovremmo avere il coraggio di ricordarli bene i decenni trascorsi nel frattempo, dal crollo del Patto di Varsavia alla guerra nell’ex Jugoslavia, alle migrazioni dai paesi dell’Est fino all’ingresso, anche quello fondato su stringenti gerarchie, di alcuni di questi nell’UE. Anni che non sono lontani, parliamo di 10 o 15 e i cui effetti ancora perdurano. In cui anche se il singolo paese era diventato ufficialmente membro dell’Unione, i suoi cittadini avevano limitazioni di circolazione. I salari in paesi come la Romania, la Bulgaria, la Polonia, per fare esempi, erano rimasti bassissimi, migrare verso i paesi ricchi era una alternativa alla immediata crescita delle diseguaglianze interne cresciute una volta abbracciata l’economia di mercato. I paesi ricchi, all’epoca era considerato tale anche l’Italia in cui il salario medio era di poco ma superiore alla media europea (+ 0,8 nel 2004), ricorrevano ben volentieri alla manodopera a basso costo offerta su un piatto d’argento ma questo non si traduceva che raramente e soltanto per una parte limitata delle persone circolanti in una integrazione nei diritti. E se il gradino per superare questi ostacoli della ormai pronta Fortezza Europa era ancora basso divenne rapidamente insormontabile per chi giungeva da altri continenti. Il decennio che sta per terminare è stato forze da questo punto di vista il più drammatico. Le emergenze umanitarie dovute ai conflitti vecchi e nuovi del Medio Oriente e del continente Africano, i sommovimenti avvenuti con molte caratteristiche positive, gli effetti disastrosi delle politiche di austerity che contemporaneamente hanno ridotto il tenore di vita di molti nativi, hanno dato vita ad un combinato disposto la cui pericolosità è sotto gli occhi di tutti. Il riesplodere di nazionalismi di stampo spesso xenofobo, in gran parte dei paesi UE, la realizzazione di barriere verso l’esterno ma anche interne, fra i singoli Stati membri, per bloccare e controllare ogni forma di libera circolazione, la sospensione che sempre più spesso si attua dei dispositivi di Schengen per gli stessi europei, l’impoverimento (119 milioni di poveri censiti), potrebbero produrre anche a breve termine un ulteriore scollamento dall’ideale europeo, basato su una maggiore inclusione fra i popoli. L’Europa sociale, in cui a diffondersi debbono essere prospettive di conflitto per il miglioramento delle condizioni di vita di tutte/i è lontanissima da quella attuale in cui il divario fra ricchi e poveri ha raggiunto dimensioni stratosferiche, non solo in Italia. E se c’è una strada per sconfiggere ogni nostalgia sovranista, presente anche in alcune analisi che si definiscono di sinistra, è quella di una rielaborazione dell’idea stessa di Europa che rigetta gran parte dei trattati economici, che rifiuta gli strangolamenti finanziari e speculativi, che individua tanto un vasto campo avverso quanto un terreno immenso di alleanze nel continente e nei paesi di emigrazione. Una riflessione di carattere anche culturale, politica, sociale, aperta alla multidisciplinarietà, plurale per sua natura e capace di contaminazione biunivoche invece che di riproposizioni stantie e statiche. Pluralità perché sono tanti gli ambiti in cui questo lavoro è possibile. Il nostro spazio di Transform! Italia, nato esattamente un anno fa e non casualmente il 9 maggio vuole essere uno di questi ed è aperto a chi vuole arricchirlo, corroborarlo, criticarlo in maniera costruttiva. E sempre per ragioni legate al valore simbolico della data, il 9 maggio parte a Roma, in Piazza Montecitorio, con un presidio dalle ore 16.00 alle 18.00 una Marcia per i Diritti. A promuoverla sono stati le ragazze e i ragazzi, alcuni ormai donne e uomini cresciuti, della cosiddetta seconda generazione, traditi dalle promesse di un centro sinistra che aveva promesso loro una riforma tenue della legge per il diritto alla cittadinanza che li potesse rendere più rapidamente, formalmente e in maniera sostanziale, cittadini italiani e quindi europei. Il loro percorso durerà, sempre simbolicamente, fino al 2 giugno, data dai molteplici significati. Li seguiremo e saremo con loro.