L’approvazione con urgenza del decreto sicurezza, che alcune persone con molta previdenza chiamano “decreto paura” perché scritto per iniettare paura nelle vene, vede fra le vittime più indifese coloro che hanno meno titoli nella società: giovani, donne e detenuti. Le generazioni in divenire si difendono anche da sole, altre e altri forse hanno bisogno di uscire dall’oscurità. Proviamo ad inquadrare le detenute e le parenti dei detenuti. Il piatto è servito.
Se leggiamo le motivazioni (04.04 schema DL sicurezza rev.11.45) dell’urgenza a cui si è ricorsi dopo manifestazioni di protesta nel paese e opposizione in Parlamento, troviamo:
- la necessità e urgenza di prevedere misure volte a potenziare le attività di prevenzione e contrasto del terrorismo e della criminalità organizzata, nonché al miglioramento dell’efficienza e della funzionalità dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata;
- la necessità e urgenza di adottare misure in materia di sicurezza urbana e di controlli di polizia;
- la straordinaria necessità e urgenza di introdurre misure in materia di tutela del personale delle Forze di polizia, delle Forze armate e del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, nonché degli organismi di cui alla legge 3 agosto 2007, n. 124( Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto);
- la straordinaria necessità e urgenza di introdurre disposizioni in materia di vittime dell’usura;
- la necessità e urgenza di introdurre misure in materia di ordinamento penitenziario.
Si nota subito che, come da tempo viene detto, il governo Meloni vuole colpire la libertà di pensiero e di azione, scegliendo come soggetti da criminalizzare coloro che hanno meno diritti e perciò deve essere inculcato nelle loro menti la convinzione che agitarsi può ritorcersi loro contro.
Nessun merito particolare deve però essere attribuito al governo in carica, perché una pietra miliare di questa strategia può essere individuata nella legge Turco-Napolitano n. 286 del 1998, che nel regolamentare i diritti delle persone migranti istituiva la cittadinanza minore che non era ancora concepita nella legge Martelli del 1991, e i CPT, centri di permanenza temporanea, con la logica poi perfezionata con la Bossi-Fini, fino ad arrivare ai CPR esportati in Albania.
Abbiamo detto delle carceri, dove la maggior parte dei detenuti e delle detenute sono stati condannati per reati minori, figli anche delle condizioni ambientali nelle quali queste persone sono cresciute, compressi fra poche speranze oggettive di futuro e modelli propagandati di affermazione nella società di tipo individuale e lontani da qualsiasi spirito collettivo, in poche parole contrari ai principi della Costituzione. Affrontiamo la pressione fisica e psicologica esercitata nei confronti delle donne.
Le donne detenute in Italia sono circa 2.700 su 62.000 persone.
Le madri detenute sono costrette ad affrontare un’istituzione pensata dai maschi per i maschi, e la stessa istituzione peraltro non ha certo risultati positivi sui detenuti.
In carcere vivono, dati del 31 marzo, 15 donne con bambini, di cui 10 non hanno la cittadinanza italiana e solo 5 sì.
Un anno fa è stata poi lanciata, in risposta alle dichiarazioni del senatore Cirielli che vorrebbe togliere la patria potestà alle donne recluse, la campagna “Madri fuori contro lo stigma” con primo appuntamento il 14 maggio 2024, festa della mamma.
A quell’epoca veniva affermato anche lo stigma contro i tossicodipendenti per i quali il sottosegretario Delmastro proponeva l’utilizzo in maniera coercitiva l’utilizzo delle comunità, e la risposta da parte di Società della Ragione, Forum droghe, CNCA, Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, Antigone, CGIL era stata forte.
Nell’ultima stesura del decreto legge 1660 la norma in tema di detenzione delle donne incinte o con figli minori di un anno è stata lievemente ammorbidita con previsione che la stessa debba essere istituita in un istituto a custodia attenuata. Però la norma che evita la custodia cautelare non viene affatto ripristinata, ed inoltre gli ICAM, istituti a custodia attenuata per le madri, sono veramente pochi.
Salta all’occhio la necessità pretesa di esercitare la punizione e lo stigma, come affermato dalle donne un anno fa. La donna è colpevole anche davanti ai figli, rea di avere data cattiva immagine, per cui la pena deve in qualche modo essere estesa anche ai bambini.
Sono quindici attualmente le donne detenute con i rispettivi figli e sono quattro gli ICAM in Italia, dopo la chiusura nel febbraio scorso di quello di Lauro, in provincia di Avellino, l’unico situato al Sud (i cui ospiti sono stati smistati nelle altre strutture).Gli arresti domiciliari per donne incinte o con bambini fino a un anno erano una norma antica e consolidata nella nostra giurisdizione, addirittura prevista dal codice Rocco; abolirla e stabilire che adesso andranno non in carcere ma in un ICAM, che è pur sempre un carcere, dove è negato il principio di territorialità della pena, il diritto all’affettività, alla famiglia e all’inclusione sociale innanzitutto è compiere un’ingiustizia.
Entrando in contatto, in qualità di attivisti, con i gruppi di auto aiuto psicologico per parenti di detenuti si acquisisce il punto forse più evidente sul quale sarebbe interessante ragionare: la maggior parte dei genitori che hanno figli in carcere sono donne, o perché anche questo ruolo viene loro attribuito sempre come lavoro di cura, o perché molti nuclei familiari sono effetto di separazione. E sono loro che li sostengono, trattano con gli avvocati e con i direttori.
Il lavorio di frequentazione di questi gruppi per chi svolge il ruolo di attivista è comunque utile se si riesce a costruire un equilibrio dinamico, né di solo ascolto né di proposizione a priori.
Dalla sofferenza comunicata dalle donne nasce il confronto fra il ruolo simbolico che in passato era stato loro assegnato in situazioni di privazione di libertà e di guerra.
Penso alle crocerossine, ma anche alle fidanzatine di guerra, che scrivevano ai militi durante la prima guerra mondiale, per arrivare alle fidanzate dei guerriglieri baschi descritte così bene in “Patria” di Fernando Aramburu, fino alle donne dei soldati al fronte in URSS ne “La ragazza d’autunno” di Bacalov.
Interagendo con le donne che sostengono i loro parenti nel 2025 si incontrano alcuni dei frutti forse meno conosciuti del femminismo. In una palestra di disperazione, richieste di aiuto, escono allo scoperto l’orgoglio, la dignità, la necessità di conoscere, sapere, proporre.
Perché allora non indirizzare le nuove generazioni e non solo, alla conoscenza del mondo dell’ingiustizia, nell’utilizzo solo punitivo della detenzione, nella piena disapplicazione dell’articolo 27 della Costituzione?
Non sarebbe utile, seguendo l’insegnamento di Gino Cecchettin che si presenta ampiamente al pubblico e ai detenuti su Ristretti Orizzonti, far entrare questo mondo che rappresenta migliaia di persone, quasi tutte donne, in contatto con quello esterno, in particolare con quello universitario, nelle facoltà dove queste tematiche sono materia di corso?
Tempo addietro si era parlato di far trascorrere ai futuri giudici un periodo di apprendistato nelle carceri, per conoscere le pene applicate.
Sarebbe validissimo mettere in contatto, anche solo tramite web per superare le distanze e la necessaria privacy nella sofferenza, tante realtà per fare istruire e consolare sul campo. Un progetto da costruire con le dovute competenze ma non in una “turris eburnea”, dove la consolazione sia fonte di riscossa e di dignità.
Marcello Pesarini