Da quasi sessant’anni il Censis “fotografa” con rigore scientifico l’evoluzione della società italiana, offrendo ogni anno non solo dati, ma una sua visione interpretativa dei cambiamenti e delle dinamiche in atto. Con il suo 59° Rapporto 2025, la diagnosi è netta: l’Italia è entrata nell'”età selvaggia” o “età del ferro e del fuoco”, con il “Grande Debito” che mette in pericolo il welfare (inaugura il secolo delle società post-welfare) e un contesto internazionale dominato da guerre, dazi, (che mettono a rischio centinaia di migliaia di posti di lavoro e destabilizzano i flussi di esportazione) pulsioni irrazionali e crisi di civiltà. In questo scenario globale incerto e violento, “gli italiani non sono tipi da prendere alloggio nelle confortevoli stanze del Grand Hotel Abisso” e da abbandonarsi alla profezia dell’apocalisse, perché sono “impegnati a districarsi con sagacia e misura tra piccole cicatrici e grandi minacce”. il Rapporto restituisce l’immagine di un Paese che “tiene” solo grazie all'”arte arrangiatoria” dei suoi cittadini che si rifugiano nel privato e nel piacere (sesso, cibo, convivialità, cura del corpo e viaggi in classe economy). Un organismo sociale capace di “galleggiare” e resistere alle crisi, ma incapace di superarle.
Scrive il Censis: “Resistere, adattarsi, stare dentro le crisi è diventata un’attitudine italiana, nonostante la perdita di potenza dei grandi processi trascorsi di ascesa economica e sociale e di mobilitazione collettiva. Nel saper stare insieme sull’esistente si sfebbrano gli eccessi, si metabolizzano aggressività ed esclusione, si contrastano molte forme di instabilità politica e sociale, si limitano le conseguenze del ritardo di sviluppo economico. Ma − va detto − l’autonoma difesa immunitaria non basta”. La fotografia del Censis ci consegna un’Italia entrata nell’“età selvaggia” che si arrabatta tra la difficoltà di arrivare a fine mese e l’insofferenza per la questione politica a tutto tondo. E cerca diversivi e divertimenti, il sesso (reale e virtuale) in prima linea.
Questa rappresentazione, pur autorevole, genera una narrazione consolatoria che celebra l’adattamento passivo come virtù (“la capacità della lenta e silenziosa trasformazione, della sapienza di stare dentro i grandi processi epocali con minime variazioni di rotta”) e confonde la mera resistenza – in particolare del ceto medio – con una vitalità sistemica autentica. Celebrando l’adattamento individuale sterile come unica risposta all’”età del ferro e del fuoco”, il Rapporto finisce per assolvere il sistema dalla responsabilità di generare sviluppo collettivo duraturo. Si limita a constatare una condizione disastrosa della società italiana senza individuare le responsabilità e le soluzioni strategiche per tentare di uscire da tale condizione. Il Rapporto si concentra sui sintomi della crisi (debito pubblico, disuguaglianza, povertà), senza approfondire le cause strutturali e le dinamiche di potere che le alimentano.
L’enfasi sulla capacità di resistenza distoglie l’attenzione dal fallimento delle élite politiche e culturali nel proporre strategie di crescita reali per il Paese. Con un linguaggio complesso e criptico il Censis scrive: “Il faccia a faccia con l’attuale non ha il compito di inondare, ma di irrigare. E sarebbe un grave errore credere che tale attitudine equivalga semplicemente all’esserci tout court: niente dice che il presente si riduca alla presenza. Al contrario, è proprio la rincorsa individuale e collettiva verso l’eccesso di presenza a far sopravvalutare gesti e parole nell’auspicio di mobilitare i soggetti sociali; a trasformare dibattito e culture politiche, che naturalmente dovrebbero essere orientate al prossimo decennio, in una sterile disputa quotidiana su qualsiasi argomento di attualità”.
- La retorica della resistenza: l’autoassoluzione nazionale
Il Rapporto esalta la capacità italiana di “resistere” e di non “prendere alloggio al Grand Hotel Abisso” nonostante la cornice di incertezza e violenza globale. Attraverso strategie di adattamento che incarnano il survivalism teorizzato da Richard Sennett, la sopravvivenza in contesti ostili è pagata con la rinuncia totale alle aspirazioni collettive. I dati macroeconomici confermano che questa resistenza è mera stasi: la crescita media annua dal 2000 è tra le più anemiche dell’UE (0,5%, con stime 2025 allo 0,7%), la produttività è stagnante (+0,2% in 30 anni contro il +1,2% UE) e la mobilità sociale è tra le peggiori dei paesi avanzati. La resistenza diventa così accettazione rassegnata del declino. Il Rapporto ne riconosce i limiti ma la eleva a paradigma nazionale, in un paradosso autoassolutorio che legittima l’immobilismo.
- Il ceto medio e la crisi di sistema
Gli italiani sono più poveri oggi di trent’anni fa ma il ceto medio resiste anche se la sua febbre sale perché patisce la fase di stagnazione e rischia sempre di più di perdere lo status conquistato faticosamente nel tempo. L'”infragilimento” del ceto medio è centrale nel quadro del Censis, con la “cetomedizzazione dal basso” (un processo che per decenni è cresciuto con l’espansione sia del “capitalismo molecolare” sia del welfare) vista, erroneamente, come “un tessuto stabilizzatore”, “una base preziosa di stabilità”. Scrive il Censis: “Non riuscendo a spezzare la trappola del declino, il ceto medio rimodula attese e desideri”. Le famiglie sono schiacciate da un’inflazione che costringe a spendere di più ma consumare di meno, il costo del carrello della spesa è aumentato del 23% a fronte di una riduzione delle quantità acquistate del -2,7%. Ma il ceto medio italiano non si abbatte: “Si metabolizzano aggressività ed esclusione, si contrastano molte forme di instabilità politica e sociale”. “Ora la laguna della cetomedizzazione ha prodotto un nuovo ceto medio che non rinuncia a viaggiare e a consumare, ma lo fa con un biglietto di Economy, componendo diverse personalizzazioni, e di quando in quando, se il sistema lo permette, si concede l’upgrade di un biglietto Premium”.
In realtà, l’arrangiarsi e l’immobilismo del ceto medio sono sintomi di paralisi. La sicurezza sociale si basa sempre più sull’eredità e non sul merito, azzerando la mobilità intergenerazionale (l’ascensore sociale si è bloccato, anzi scende invece di salire), con redditi fermi da oltre trent’anni e consumi erosi. Il Rapporto evidenzia come l’effetto dell’inflazione e della stagnazione colpisca duramente proprio la fascia centrale: se il 50% delle famiglie più povere ha visto la ricchezza calare del 23,2%, anche le fasce medie (6°–8° decile) hanno subito significative riduzioni patrimoniali (tra il 24% e il 35%). In netto contrasto, solo il 10% più ricco ha visto il proprio patrimonio aumentare (+5,9%) e il 5% più ricco detiene il 48% della ricchezza. Normalizzare questo stato di immobilismo e di disuguaglianza finanziaria, sociale e territoriale (tra città in crescita demografica e “aree interne” in via di desertificazione, come buona parte dell’area Appenninica e del Mezzogiorno) significa occultare la putrefazione del modello di sviluppo.
I ricchi e parte del ceto medio sono “tentati” dalla via facile, ma pericolosa per il Paese, della rendita. Si vede nel mercato immobiliare, dove si registra l’aumento dei valori in presenza di una quota significativa di patrimonio che rimane inutilizzata o sottoutilizzata. Per chi se lo può permettere, la seconda o la terza casa diventano beni speculativi, anche grazie alle nuove opportunità offerte dagli affitti brevi, che in molte città turistiche garantiscono rendimenti superiori al lavoro. La casa invece di essere un bene d’uso, diventa un asset finanziario che alimenta il consumo di suolo (la corsa alla cementificazione) e avvantaggia i più abbienti e rende più difficile a tutti gli altri studiare, lavorare, vivere e intraprendere.
- L’industria in “autunno”: immobilismo produttivo e senilizzazione
L’analisi Censis conferma l’esistenza di un “lungo autunno industriale” che rischia di scivolare in un gelido inverno, quello della deindustrializzazione. La celebrazione della resistenza copre l’incapacità del sistema produttivo di investire in innovazione e competere sui mercati globali in modo strutturale: “l’Italia si è configurata più come un mercato di sbocco che un luogo di produzione dell’innovazione”, con un ruolo di “colonia tecnologica”. Il sistema manifatturiero italiano soffre di una stagnazione della produttività cronica e di una senilizzazione della forza lavoro (l’85% dei nuovi assunti ha oltre 50 anni e i lavoratori italiani sono i più anziani d’Europa) e imprenditoriale: solo il 5,5% degli imprenditori ha meno di 35 anni.
È confermata l’aspirazione dei lavoratori italiani al posto fisso, con il 46,4% che lo sogna nel settore pubblico, il 30,6% nel privato, mentre solo l’11% sceglierebbe la libera professione o l’imprenditoria. La stabilità (63,0%), la certezza del reddito fisso (55,1%) e l’evitare il rischio di licenziamento (35,2%) sono le principali ragioni di questa preferenza.
Le piccole e medie imprese boccheggiano, chiudono o vengono acquisite da gruppi multinazionali, spesso interessate ai marchi del made in Italy. Tra il 2004 e il 2024, il numero di titolari d’impresa è diminuito del 17%, con quasi 585.000 imprenditori in meno. Particolarmente colpita la fascia giovane, dove gli imprenditori under 30 sono calati del 46,2%.
Nonostante l’Italia sia stata la quinta potenza manifatturiera mondiale, la risposta del settore è meramente difensiva. La crescita del lavoro tra il 2023 e il 2024 (+3,7% occupati, +5,3% ore lavorate) supera il PIL (+1,7%), causando una riduzione degli indicatori di produttività: -2% del valore aggiunto per occupato. In parallelo, l’Italia è 14° per intensità di automazione e 6° nel mondo per robot industriali installati nel 2023. Nel settore automotive (1995-2022), segnala il Rapporto, la produzione è aumentata del 61,4% con una riduzione del 21,3% della forza lavoro, ma a fronte di un aumento del valore aggiunto per occupato del 48,8%, i salari sono cresciuti solo del 9,3%. Più in generale, i salari italiani sono tra i più bassi dell’Unione Europea, la produttività stagna, la qualità dei contratti è ridotta e la mobilità sociale è bloccata..
E intanto sul lavoro si continua a morire. Nel 2024 sono stati denunciati 518.497 infortuni sul lavoro, 22 ogni 1.000 occupati, con 1.191 esiti mortali. Negli ultimi dieci anni gli occupati sono aumentati del 9,2% e gli infortuni diminuiti del 10,7%, ma quelli mortali sono in lieve aumento (+0,8%). Nel primo semestre 2025, gli infortuni mortali sono aumentati del 7,1%, arrivando a 495 casi. Le malattie professionali sono state 88.384 nel 2024, un dato in crescita del 54,1% nell’ultimo decennio. Il genere è un fattore di rischio primario, con il 92% dei morti sul lavoro di sesso maschile. Anche i lavoratori stranieri e i giovani sono più esposti: gli stranieri, che sono il 10,5% degli occupati, hanno subito il 23% di tutti gli infortuni; i giovani 15-24enni, il 4,8% degli occupati, hanno registrato il 12% degli infortuni.
L’indice della produzione industriale ha segnato un dato negativo per trentadue mesi consecutivi, con l’eccezione di tre lievi rimbalzi. La produzione manifatturiera ha registrato un calo del -1,6% nel 2023, del -4,3% nel 2024 e del -1,2% nei primi nove mesi di quest’anno. L’unica eccezione, che conferma il clima di incertezza globale e il riorientamento degli investimenti, è l’aumento della produzione di armi e munizioni (salita del 31% in nove mesi). Questo dato è l’emblema di un’economia che trova un’inattesa vitalità nel settore bellico (il riarmo appare come l’unico “antidoto alla deindustrializzazione”) e della sicurezza in un’epoca di “ferro e fuoco”, mentre l’industria civile e manifatturiera che ha fatto la storia del Paese rimane frenata. L’immobilità del settore industriale è il più grande fallimento sistemico mascherato dall’adattamento.
Il declino degli investimenti, sia privati sia pubblici, avviene in presenza di una crescita del risparmio. Così l’Italia vive nel paradosso di avere ancora una consistente ricchezza privata (le famiglie italiane dispongono di circa 1.500 miliardi in contanti e depositi bancari, nonché di 5.900 miliardi di attività finanziarie) che, invece di sostenere la crescita, alimenta la rendita finanziaria. Complice un sistema creditizio con banche sempre più speculative, orientate alla gestione finanziaria anziché al sostegno dell’economia reale. Ma senza credito produttivo, le imprese non riescono ad innovare. La scarsa propensione all’investimento riguarda anche lo Stato che, nonostante la boccata d’ossigeno del PNRR, ha accumulato ritardi sempre più importanti. In un Paese in cui gli interessi sul debito tolgono risorse per i servizi essenziali (in primis la sanità) diventa difficile investire in infrastrutture o in ricerca (dove siamo lontanissimi dai livelli tedeschi o francesi, per non parlare di quelli cinesi, nettamente sotto la media OCSE).
- Giovani e tecnologia: la trappola del presentismo senza futuro
La presunta resistenza viene smentita dall’approccio del Paese ai giovani e all’innovazione. I giovani sono pochi e hanno sempre più paura. Il 74,6% di loro non si sente sicuro a girare per strada, il 67% teme il percorso verso casa la sera. Il 52,1% ha rinunciato almeno una volta ad uscire per timore che gli potesse capitare qualcosa di grave. Una generazione che si sente fragile e vulnerabile di fronte a pericoli che influenzano le scelte individuali. E anche nel mercato del lavoro, per il Censis, per i giovani c’è poco spazio.
Il documento identifica con acutezza la “trappola del presente” (il “presentismo”): un dibattito pubblico inchiodato all’immediato, privo di visioni future in campi cruciali come l’intelligenza artificiale e la digitalizzazione. Questo blocco strutturale si riflette drammaticamente sulle nuove generazioni: l’Italia mantiene uno dei tassi più alti d’Europa di NEET (giovani che non studiano, non lavorano e non sono in formazione), un fallimento che segnala la rottura del patto generazionale e riflette l’incapacità del sistema educativo e del mercato del lavoro di allinearsi con le nuove competenze richieste dalla trasformazione tecnologica. Senza una vera pianificazione sull’IA e sull’industria 4.0, il Paese condanna i suoi giovani all’esclusione e rinuncia alla leva di sviluppo più potente del XXI secolo. Mentre continua l’emorragia dei giovani più motivati (oltre 155 mila nel 2024, per un terzo laureati) che lasciano il Paese per andare a cercare maggior fortuna all’estero.
- Welfare e crisi istituzionale: il fardello del passato
La crisi si estende al sistema di welfare e alla governance. La resistenza si regge su un sistema di welfare informale insostenibile. La crisi del welfare è acuta: il 27% dei medici ha più di 65 anni e ben il 78,5% degli italiani esprime il timore concreto di non poter contare su servizi sanitari e assistenziali adeguati in caso di non autosufficienza, delegando la cura alle reti familiari (con il “lavoro invisibile” della gestione domestica e di caregiver che continua a ricadere quasi unicamente sulle donne). Lo stesso contesto sanitario è difficile (e sempre più privatizzato): in un anno si sono registrati 22.049 casi di aggressione agli operatori. Il 91,2% dei medici ritiene il lavoro nel SSN più stressante. Il 66% dei medici non ha tempo per dialogare con i pazienti, il 65,9% opera in strutture con carenze di personale e il 51,8% usa attrezzature obsolete. Il 41,2% non si sente sicuro a causa della violenza e il 71,8% si sente un capro espiatorio delle carenze del sistema.
L’Italia è anche il Paese dove 4 su 10 pensionati forniscono aiuti economici regolari a figli e nipoti (compreso il contributo all’acquisto della casa). La consapevolezza di questo necessario supporto a figli e nipoti giustifica, per il 54,2% degli italiani, l’indicizzazione all’inflazione anche delle pensioni lorde superiori ai 2.500 euro. E vista l’incertezza economica, il 94,2% degli anziani risparmia per malattia o non autosufficienza e l’82,2% monitora il bilancio familiare.
Al tempo stesso, persistono gli sprechi e le distorsioni redistributive del bilancio pubblico. La moltiplicazione di bonus, card, tax credit non combatte l’impoverimento ma alimenta micro-rendite da sopravvivenza. Un sistema che ha “prodotto un intreccio di mezzi e di obiettivi in cui convivono e si confondono impresa e filantropia, profitto e non-profit, enti commerciali e enti non commerciali. E con la conseguenza di parlare sempre meno di povertà e sempre più di soldi“. Il problema non è il welfare, ma la sua degenerazione: che si ha quando perde la sua funzione abilitante e diventa un sostegno passivo in un sistema che non investe sul futuro.
Questa situazione è aggravata dalla crisi istituzionale. Circa il 72% degli italiani esprime sfiducia e non crede più ai partiti o al Parlamento. Il 63% è convinto che si sia spento ogni sogno collettivo in cui riconoscersi. Un clima di ripiegamento individuale in cui l’immaginario politico si svuota e prevale la sensazione di un orizzonte condiviso ormai irraggiungibile. L’idea stessa di democrazia vacilla. Il 30% è convinto che gli autocrati siano più adatti allo spirito del tempo e tra questi quello che riscuote più fiducia è Papa Leone XIV (66,7%). Le urne sono sempre più deserte. Alle Politiche del 2022 l’astensione ha raggiunto la cifra record del 36% ovvero 9 punti percentuali in più rispetto alle precedenti elezioni del 2018 (Europee). Nel 1979 l’astensione si fermava al 14,3%. Nel 2003 il 57,1% degli italiani si informava regolarmente di politica, nel 2024 il 48,2%. La partecipazione ai comizi si è dimezzata: dal 5,7% al 2,5%. E le mobilitazioni di piazza raccolgono sempre meno adesioni: nel 2003 il 6,8% degli italiani aveva partecipato a cortei, vent’anni dopo solo il 3,3%.”Un’eccezione, dunque, le recenti proteste per il conflitto in Medio Oriente”, scrive il Censis.
“Ci siamo inoltrati in un’età di predatori e di prede – scrive il Rapporto – E il grande gioco politico cambia le sue regole, privilegiando ora la sfida, ora la prevaricazione illimitata”. Perciò il 62% degli italiani ritiene che l’Unione Europea non abbia un ruolo decisivo nelle partite globali. Il 53% crede che sia destinata alla marginalità in un mondo in cui vincono la forza e l’aggressività, anziché il diritto e l’autorità degli organismi internazionali. Per il 74% l’american way of life non è più un modello socio-culturale, un tempo da imitare e oggi irriconoscibile. Il 55% è convinto che la spinta del progresso in Occidente si sia esaurita e adesso appartenga a Cina e India. Il 39% ritiene che le controversie tra le grandi potenze si risolvano ormai mediante i conflitti armati, i cui esiti fisseranno i confini del nuovo ordine mondiale. “Assistiamo a un capovolgimento dei ruoli nel rapporto tra élite e popolo”, è scritto nel Rapporto. “Da una parte ci sono i leader europei − il nostro nuovo pantheon politico − con i volti sgomenti come pugili suonati, sotto i colpi sferrati da est e da ovest. Invece di rassicurare, esercitando la tradizionale funzione dell’offerta politica, eventualmente con il ricorso spregiudicato alla menzogna, annunciano la catastrofe, ci mettono davanti al pericolo di morte. Dall’altra ci sono gli italiani, per i quali non è scattato l’allarme rosso: l’apocalisse può attendere”.
Non si segnalano tentazioni di radicalizzazione: per il 47% le divisioni politiche e la violenza che scuotono gli Stati Uniti sono impensabili nella società italiana. E un intervento militare italiano, anche nel caso in cui un Paese alleato della Nato venisse attaccato, è disapprovato dal 43%. Il 66% ritiene che, se per riarmarsi l’Italia fosse obbligata a tagliare la spesa sociale, allora dovremmo rinunciare a rafforzare la difesa.
La caduta di fiducia nelle istituzioni e nella politica è esacerbata dalla gestione delle risorse: le spese destinate agli interessi (85,6 miliardi, corrispondenti al 3,9% del PIL, il valore più alto tra i Paesi europei dopo l’Ungheria e ben oltre la media UE dell’1,9%) sul debito pubblico (3.081miliardi di euro pari al 134,9% del PIL) superano quelle per gli investimenti (78,3 miliardi), la spesa per i servizi ospedalieri (54,1 miliardi) e di ben dieci volte quella destinata alla protezione dell’ambiente (7,8 miliardi), evidenziando la priorità del passato sul futuro.
“Si annuncia uno shock per le finanze pubbliche analogo a quello vissuto durante l’emergenza sanitaria – rileva il Censis – ma questa volta il debito record sarà maturato in condizioni ordinarie, in assenza di una pandemia”. Il Grande Debito determina una mutazione ontologica dello Stato: da “Stato fiscale” a “Stato debitore”. Gli Stati debitori non potranno abbassare le tasse, obiettivo sempre promesso dagli Stati fiscali e puntualmente disatteso. L’ingente debito e la bassa crescita, legata all’invecchiamento demografico e alla riduzione della popolazione attiva, congiurano per un inevitabile ridimensionamento del welfare (il welfare state è un fenomeno storico, non imperituro: può nascere e svilupparsi, ma anche estinguersi). Gli interessi pesano come zavorre sui conti pubblici e restringono anche gli spazi di manovra sugli investimenti produttivi e gli stimoli alla crescita. Senza una critica sufficiente al blocco riformatore e istituzionale, il Rapporto si limita a descrivere le conseguenze di una situazione ormai sempre più deteriorata.
La vulnerabilità del Grande Debito è accresciuta dal fatto che i titoli del debito pubblico italiano sono in mano prevalentemente a creditori residenti all’estero: il 33,7% del totale (ovvero più di 1.000 miliardi), con i grandi fondi d’investimento con vocazione speculativa, ossia i grandi player della finanza globale, a fronte del 14,4% detenuto dalle famiglie e del 19,2% dalla Banca d’Italia. Il Grande Debito inaugura il secolo delle società post-welfare. Ma senza welfare le società diventano incubatori di aggressività e senza pace sociale le democrazie vacillano. “Di questo rischio gli italiani hanno piena consapevolezza, se il 65,2% è convinto che, privata di un’adeguata sanità, di pensioni soddisfacenti e di sussidi per i disoccupati e per le famiglie in difficoltà, la società italiana diventerebbe senz’altro più aggressiva e violenta”.
- Crisi culturale e immigrazione: chiusure difensive
Mentre il turismo culturale straniero cresce, la dimensione culturale degli italiani subisce una contrazione drammatica, registrando un crollo della spesa familiare per la cultura pari a -34,6% tra 2004 e 2024 (mentre quella per smartphone e computer ha avuto un aumento vertiginoso: +723,3%). Questo declino è guidato dal tracollo di giornali (-48,3%) e libri (-24,6%), mentre crescono i consumi esperienziali. Questa transizione, narrata come “evoluzione”, cela un depauperamento strutturale.
Parallelamente, la questione dell’immigrazione è affrontata quasi esclusivamente come questione securitaria. Il 63% degli italiani chiede di limitare i flussi, e il 59% li associa al degrado anche se sono il 9,5% della popolazione (quindi nessuna “sostituzione etnica”) e fanno lavori che gli italiani cercano di evitare (quindi nessun furto dei buoni posti di lavoro). Gli immigrati vanno bene se impiegati in lavori faticosi e poco qualificati, o nei servizi familiari, quando accudiscono gli anziani e i bambini, non quando chiedono gli stessi diritti degli “autoctoni”. Nonostante l’Italia sia in piena crisi demografica, l’immigrazione viene gestita in ottica emergenziale, ignorando la sua funzione demografica. La “resistenza” qui si manifesta come chiusura difensiva, perpetuando frammentazione anziché coesione.
- L’alibi della resistenza come immobilismo
Il 59° Rapporto Censis ritrae un’Italia sospesa in un limbo cronico. Come far fronte a questa condizione che alimenta non solo disaffezione, ma anche stagnazione economica e sociale? La politica “alta” non piace e provoca rigetto, dunque, la via d’uscita è in pieno spirito Censis: “Una politica ibrida che non abbia troppe ambizioni, né visioni astratte del futuro … che si tenga vicina alle dinamiche sociali di rigenerazione interna”. Consapevoli che “accanto alla politica vivono meccanismi profondamente radicati nella società che trova nei suoi processi storici stratificazioni successive delle istanze individuali da interpretare e accompagnare, che integrano nell’azione politica il faccia a faccia con il presente”.
Pertanto, il Censis glorifica la capacità di “tenere” come virtù, l’adattamento individuale (l’arte di arrangiarsi) come unica risorsa, mascherando individualismo predatorio, declino culturale e un preoccupante immobilismo industriale e tecnologico. La resistenza, celebrata come forza, diventa in realtà un alibi per l’immobilismo, non una spinta per la rinascita. Il vero interrogativo non è se l’Italia resisterà all'”età selvaggia”, ma se avrà la forza di sostituire l’adattamento passivo con una nuova visione strategica e una riforma del sistema che riporti il merito e la fiducia al centro della vita collettiva. Il Paese può davvero “tenere” quando combina una popolazione che invecchia rapidamente (le persone over 65 sono il 24,7%), il crollo delle nascite (solo circa 370 mila nel 2024), il crollo della spesa culturale (-34,6%) e la chiusura difensiva verso l’immigrazione (63% chiede di limitare i flussi)? Questa combinazione letale non è forse la vera smentita della retorica della resistenza? Sotto la superficie dell’adattamento, l’Italia sta solo “resistendo” o è già in una fase di declino inarrestabile e irreversibile?
Il Rapporto Censis 2025 descrive certamente i problemi del Paese, ma non offre soluzioni concrete e praticabili per affrontarli. Se si vuole tornare a guardare avanti – economicamente, socialmente, demograficamente e culturalmente – bisogna sapere che occorre mettere in campo un’azione sistemica, ispirata ad un disegno generale. Senza grandi riforme o adeguamenti strutturali alle grandi trasformazioni in corso, ossia se si decide di non agire, di non fare nulla (come implicitamente suggerisce il Censis), è bene sapere che l’anello debole sarà la democrazia.
di Alessandro Scassellati e Gianmario Folini

3 Commenti. Nuovo commento
Dove era il Censis il 4 dicembre 2016 ? So invece dove ero io a gennaio 2000 , ero ad Assisi da presidente Confindustria Pescara in un convegno in cui DeRita denunciava il flop delle deleghe alle regioni.
Modifica del titolo 5to della Costituzione e bocciatura delle riforme di sistema il 4 dicembre 2016 costituiscono un insuperabile vulnus strutturale alla crescita dell’Italia.
La conclusione a mio parere è scorretta per il tempo verbale.
L’anello debole non “sará” la democrazia, bensì “è stata” la democrazia che, come tutto l’articolo dimostra, ha fallito con le sue istituzioni nel compito di individuare e perseguire degli obiettivi di miglioramebto delle condizioni di vita della comunitá dei cittadini, abbandonandoli alla individuale ricerca di una salvezza privata.
L’articolo evidenzia bene che è ai minimi storici la fiducia nella politica, che ha comprato a debito il consenso e il favore delle elite.
Quelle che chiamiamo autocrazie hanno un consenso interno enorme ( hanno delle elezioni molto partecipate) e la fiducia dei cittadini in politiche che hanno in 20 anni liberato milioni di persone dalla miseria, anche non tutelandone le libertá individuali.
Noi siamo “liberi” di emigrare o di arrangiarci per far fronte alla crisi.
L’opzione di un rinnovato patto sociale non è contemplato. Quindi? Adattiamoci a vivere piacevolmente nella barbarie?