Il Congresso del Partito della Rifondazione Comunista era chiamato a trarre un bilancio severo della sua storia recente, delle sue indubbie difficoltà attestate dai dati relativi agli iscritti e alla consistenza elettorale e a decidere se aprire o meno una fase nuova. Era abbastanza inevitabile che questa doppia ricerca, bilancio e prospettive, aprisse un confronto difficile ed anche aspro. Si è voluto dare al Congresso, più dalla minoranza che dalla maggioranza uscenti, un taglio referendario al processo congressuale e questo ha limitato la libertà del dibattito, ma ha portato inevitabilmente ad esprimere una scelta netta.
Il Congresso non ha solo evidenziato i limiti e le difficoltà che attraversa Rifondazione ad oltre trent’anni dalla sua nascita, ma ha consentito anche di coglierne alcuni elementi di forza. La partecipazione ai congressi di circolo di oltre 5.000 militanti, invertendo una tendenza che nei congressi precedenti era caratterizzata da una costante riduzione, ha evidenziato il permanere di un tessuto militante ancora significativo in un contesto di crescente desertificazione della partecipazione politica.
Importante è stato anche il segnale che è venuto dalle numerose presenze esterne. Se queste hanno in parte tolto spazio al dibattito interno (che dopo alcuni mesi di confronto rischiava anche di essere ripetitivo) hanno però segnalato due elementi importanti. Il primo è che il PRC è in grado di dialogare anche con soggetti politici, sindacali o di movimento che tra loro non interloquiscono o sono in aperto conflitto. In secondo luogo gli interventi degli ospiti non si sono prodotti in meri esercizi retorici di circostanza ma sono intervenuti sulle questioni attorno alle quali lo stesso Congresso e i suoi partecipanti si sono interrogati. Segno di una forza ancora vitale non trasformatasi, nonostante i pericoli derivanti dalle sconfitte e dalla restrizione dell’insediamento sociale, in una setta autoreferenziale. Lo stesso esito del Congresso e i segnali messi in campo nell’ultima fase hanno certamente reso più interessante per gli interlocutori esterni volersi misurare, da prospettive anche molto diverse, con il dibattito e il ruolo di Rifondazione Comunista.
Quale bilancio e quali prospettive dunque sono emerse dal Congresso? Mi sembra di poter affermare sia stato accolto quell’invito (che personalmente avevo avanzato qualche tempo fa su questo sito) ad aprire una “fase nuova”. Solo nelle prossime settimane e nei prossimi mesi si potrà capire quanto questa prospettiva riuscirà ad affermarsi anche superando quegli elementi di diffidenza che in una parte del partito si sono espressi in queste settimane, in una certa misura frutto di una rappresentazione distorta delle posizioni della maggioranza.
La prospettiva politica del PRC era sembrata, a molti suoi iscritti e militanti come a tanti osservatori esterni, non pochi dei quali allontanatisi dal partito negli ultimi anni, essere entrata in un vicolo cieco e a rischio di un crescente ripiegamento settario. Per questo diventava indispensabile una correzione di rotta.
Se si ripercorrono gli anni che partono dal Congresso di Chianciano del 2008, che segnò la rottura con quasi metà partito, vanno segnalati tre momenti e scelte diverse che si sono andate nel tempo sovrapponendo.
L’ipotesi strategica del “partito panzieriano”
Il primo passaggio avvenne evidentemente nel Congresso 2008 in cui la maggioranza che prevalse di misura e che portò all’elezione a segretario di Paolo Ferrero era estremamente eterogenea. Ma nel tempo mi pare che quella direzione abbia sviluppato e precisato un indirizzo di identità politica che modificava in misura significativa le ragioni fondanti del Partito della Rifondazione Comunista. Questo era nato dalla volontà di molti militanti e un più ristretto numero di dirigenti di opporsi alla liquidazione della storia e della tradizione del comunismo italiano.
Questa storia e tradizione non erano rinchiuse in una sterile ortodossia ma avevano espresso una pluralità di orientamenti politici e culturali (si veda il recente volume di Liguori e La Porta sui Marx del PCI) che aveva consentito nel tempo di assorbire orizzonti diversi, dal socialismo di sinistra, alla nuova sinistra, al cattolicesimo progressista, persino a settori intellettuali dell’operaismo che ne erano i più radicalmente lontani. Rifondazione Comunista raccoglie ed esprime questa pluralità ampliandola anche a settori della nuova (o estrema) sinistra esterni e spesso ostili alla tradizione comunista. Da segnalare che nel suo intervento Raniero La Valle ricordando un’iniziativa di cattolici pacifisti rivolta al PCI, abbia dichiarato di considera Rifondazione la legittima erede di quella storia.
Le vicende successive hanno dimostrato la difficoltà di tenere insieme correnti politico-culturali diverse ma anche un certo rimescolamento se non proprio fusione di queste diverse esperienze politiche. A partire da Chianciano 2008, ma con più chiarezza negli anni più recenti, è venuto delineandosi un diverso progetto ideologico. Cito in proposito quanto dichiarato da Paolo Ferrero al convegno su Lucio Libertini che si è tenuto a Pistoia nel dicembre 2022: “non a caso le migliori cose che ha fatto Rifondazione Comunista, non sono altro che il tentativo di applicare alcune delle intuizioni che c’erano in quella elaborazione (ndr: di Panzieri). Noi siamo andati avanti fino ad ora attingendo a quel patrimonio di elaborazione e tutte le innovazioni sono partite di lì, dalla riattualizzazione del tema della rivoluzione in Occidente propostoci da questo filone di pensiero.”
Rifondazione quindi come “partito panzieriano” almeno in fieri, laddove lo stesso autore interpreta lo stesso Panzieri (assumendone per altro una lettura filtrata da Pino Ferraris) come “iniziatore dell’altra sinistra”. Laddove l’altra sinistra è tale rispetto al PCI e alla sua matrice togliattiana, al quale si imputa di affidare la transizione al socialismo alla sola democrazia parlamentare (“la teorizzazione togliattiana” viene scritto nello stesso intervento al convegno su Libertini). In realtà Togliatti sosteneva (intervenendo al comitato centrale del PCI nel giugno del 1956 come anche in tante altre dichiarazioni): “chi ha detto che la via italiana voglia dire via parlamentare? (…) La via italiana è una via la quale prevede uno sviluppo sul terreno democratico, di rafforzamento della democrazia e di sua evoluzione verso determinate, profonde riforme sociali”.
Se da un lato l’ipotesi strategica è quella di collocare Rifondazione fuori dalla tradizione comunista italiana maggioritaria, dall’altro non mancano influenze diverse che si possono riconoscere sottotraccia nello stesso secondo documento congressuale. Non è casuale il riferimento al, pur non citato espressamente, Walter Benjamin, intellettuale tedesco fortemente influenzato dal messianismo ebraico (rimando in proposito agli scritti simpatizzanti di Michael Lowy ed Enzo Traverso). Questo elemento messianico emerge nella stessa rappresentazione del comunismo, la cui maturità si afferma al di fuori della realtà trasformandolo in una sorta di oggetto mistico sempre pronto ad irrompere nella storia. Lo stesso Benjamin pensava, appunto, che la Rivoluzione, come il Messia, potesse entrare nella storia in qualsiasi istante. Un “comunismo”, quello prefigurato nel secondo documento, che da formazione economico-sociale frutto della dialettica storica, determinata da volontà soggettiva e contesto oggettivo, diventa una costruzione immaginaria presentata come una sorta di “verità rivelata” alla quale prima o poi le masse aderiranno, malgrado il mascheramento imposto dalle classi dominanti che ne nascondono la piena attualità.
Dal punto di vista dell’identità politica la posizione prevalente emersa dal congresso ricolloca Rifondazione Comunista in rapporto critico con l’insieme della tradizione comunista, innovando laddove è necessario, recependo le elaborazioni giustamente critiche, sia sul piano teorico che su quello delle pratiche politiche e sociali, ma restando sul terreno originario su cui si è affermata Rifondazione Comunista di difesa dalla liquidazione del comunismo italiano sia che questa venisse da “destra”, in direzione socialdemocratica e social-liberale, come da “sinistra” in direzione socialmassimalista o estremista.
L’analisi concreta della situazione concreta
Il secondo passaggio critico messo in campo al Congresso riguarda il tema delle alleanze politiche. Gran parte del dibattito è stato impostato dagli esponenti del secondo documento come una denuncia delle malefatte del PD, sul cui riconoscimento per altro esiste un’ampia convergenza. Se si verifica il rapporto tra il dire e il fare si riscontra come tra i sostenitori del secondo documento vi sia chi con il PD abbia stretto alleanze come tra i sostenitori del primo vi sia chi, a Milano come a Roma per fare due esempi non da poco, conduce dure e coerenti battaglie di opposizione.
Occorre ricordare che, a livello nazionale, il PRC non si è mai alleato col Partito Democratico, mentre ha costruito rapporti di intesa più o meno ampia sul piano elettorale e programmatico con le coalizioni di centro-sinistra pre-esistenti. Nel Congresso del 2011, Rifondazione Comunista proponeva al PD la costruzione di un “fronte democratico” contro le destre, senza che da questo facesse discendere una effettiva alleanza politica. Nelle elezioni regionali del 2010 la direzione nazionale di Rifondazione spinse per intese con il centro-sinistra.
Non fu Chianciano 2008 a introdurre lo schema del “mai col PD” ma furono gli eventi politici successivi a rendere impraticabile una qualsiasi forma di convergenza elettorale. Nel momento in cui il Partito Democratico si alleava a una parte della destra per garantire le politiche di austerità di Monti, ogni ipotesi di collaborazione diventava impossibile. La situazione non cambiò in meglio con l’arrivo di Renzi e poi con l’adesione di Letta all’agenda Draghi e la rottura perseguita coi 5 Stelle, che ha facilitato l’arrivo della destra neofascista al potere.
È a tutti evidente che le politiche perseguite dal PD durante questo periodo così come la posizione assunta sulla guerra in Ucraina, con un esponente di primo piano come Del Rio che proclama la piena convergenza con la politica estera del governo Meloni, rappresenti un ostacolo anche per ipotesi di accordi meramente elettorali (come quelli ipotizzati con il cosiddetto “lodo Franceschini”). Ciò che viene messo in discussione dalla maggioranza del PRC è la trasformazione di una valutazione politica del contesto dalla quale far discendere una strategia, come quella intervenuta nel 2011, in un marchio identitario che fa del giudizio sul PD e della sua eternizzazione, l’alfa e l’omega di qualsiasi politica.
Il contesto non è quello di Monti, Renzi e Draghi, non tanto perché il PD avrebbe cambiato natura (anche se non si può sottovalutare la leadership di Elly Schlein, soprattutto nella percezione diffusa che se ne ha anche in settori popolari) quanto il significativo mutamento di fase. Il PD è nato nella prospettiva di creare un sistema bipartitico e non più solo bipolare. Per questo affermava la sua vocazione maggioritaria puntando ad eliminare qualsiasi soggetto politico concorrente nel perseguimento dell’alternanza con la destra. Questa operazione politica è completamente e fortunatamente fallita. Il PD è diviso al suo interno ed è anche attraversato da orientamenti contrastanti nel suo elettorato, benché questo abbia perso molta della sua componente popolare. L’unica alternativa elettorale alla destra può sorgere solo da una coalizione della quale il PD non rappresenterebbe più del 50%. La stessa questione della guerra attraversa e divide oggi qualsiasi ipotesi di “campo largo”.
Ma il vero mutamento del contesto è dato dal fatto che il PD non è più al governo, mentre al potere si trova una coalizione nella quale si sono rafforzate le componenti più reazionarie e di aperta tradizione neofascista. Ciò avviene in connessione con l’affermarsi a livello globale di una internazionale che collega l’ultraliberismo con l’autoritarismo. Ha sorpreso molti iscritti e militanti del PRC che nella illustrazione del loro documento, gli esponenti della minoranza abbiano praticamente ignorato questo elemento, considerando l’ascesa della destra come una semplice conseguenza delle politiche del centro-sinistra. Questo è in parte vero, ma non esaurisce la comprensione delle pulsioni profonde a cui l’estrema destra risponde e che in buona parte struttura con la sua azione politica e comunicativa. Anziché misurarsi pienamente con i compiti posti dalla nuova fase, il secondo documento continua a individuare nel PD il nemico principale.
Rimettere al centro l’analisi concreta della situazione concreta, adeguare proposta e azione politica alla nuova fase che si è aperta: questi mi sembrano le indicazioni di metodo che escono dal Congresso. Viene prefigurata un’azione politica che tiene insieme necessariamente la costruzione di uno schieramento alternativo alla destra con la lotta politica tesa a contrastare l’intreccio perverso tra guerra, autoritarismo, xenofobia e ultraliberismo. Nella piena consapevolezza che spazi politici si aprono anche se si attivano momenti di lotta sociale e di opposizione dal basso. Ma costruzione dei movimenti e prefigurazione di un’alternativa politica si alimentano a vicenda e non si possono schematicamente isolare.
In questa direzione il Congresso punta a rimettere alla volontà e alla decisione degli iscritti le decisioni in materia di alleanze e politiche elettorali. In primo luogo modificando una norma statutaria che nel precedente congresso aveva introdotto una rigidità su un tema che ora viene riportato alla piena sovranità delle strutture locali del partito. In secondo luogo ampliando il ricorso al referendum degli iscritti quale strumento prevalente nella formulazione delle decisioni finali. Per chi ama le reminiscenze storiche si può ricordare che così fecero i bolscevichi di San Pietroburgo quando dovettero sceglier nel 1906 se partecipare o meno alle elezioni della Prima Duma. Con 1.168 voti contro 926 (una limitata maggioranza) passò la linea del boicottaggio. D’altronde, come ha scritto lo storico marxista belga Marcel Liebman, nel suo libro “Leninism under Lenin” (pag. 50): “Lenin raccomandava che, come regola generale, un ‘referendum nel Partito’ dovesse essere effettuato ogni volta che si trattava di assumere importanti decisioni politiche”.
Riconquistare l’autonomia politica e strategica del PRC
Un terzo orientamento emerso dal congresso prende le mosse da un bilancio delle aggregazioni politiche tentate negli anni scorsi dal PRC. Anche qui è utile un breve riferimento storico. Dopo l’abbandono forzato della proposta del fronte democratico, Rifondazione Comunista tentò una prima aggregazione alternativa sia alla destra che al centro-sinistra. Rivoluzione Civile era certamente una coalizione eterogenea (comprendeva l’Italia dei Valori di Di Pietro) perché si era formata attorno ad un asse politico, più che su uno schema ideologico: il rifiuto dell’austerità imposta dal governo Monti.
Nel passaggio successivo, in presenza del formarsi di una nuova coalizione (di cui erano certamente evidenti i limiti) a sinistra del Partito Democratico, Rifondazione decise di partecipare ad una aggregazione dalla base politica e sociale decisamente più ristretta quale Potere al Popolo. Una scelta che lo stesso Acerbo ha rivalutato criticamente nel suo intervento al Congresso di Montecatini, ricordando come per altro fosse stata compiuta nella quasi unanimità. Non è qui la sede per fare un bilancio di quella esperienza o di quella successiva di Unione Popolare che in buona parte ne rappresentava una riedizione. Vi erano nei promotori del primo Potere al Popolo, influenze della prospettiva populista di sinistra, allora emergente a livello europeo con le esperienze dei Podemos e di Melenchon. Anche qui vi era una ipotesi strategica che ipotizzava la costruzione di un soggetto antisistema in grado di intercettare soprattutto settori popolari rifugiatisi nell’astensionismo. Una volta trasformato Potere al Popolo da coalizione aperta a partito, si sono accentuati gli elementi di chiusura e di contrapposizione ad altri settori della sinistra. Lo si è verificato nel percorso di costruzione di Pace, Terra e Dignità e, in modo ancora più manifesto, nel documento politico nazionale di PaP approvato nel settembre scorso, laddove si attribuivano etichette di “utili idioti” e “traditori” proprio a coloro che nel PRC (considerato nel suo complesso una “maceria da cui liberarsi”) erano i maggiori sostenitori di Unione Popolare.
La presenza degli astensionisti resta forse l’argomento principale portato a sostegno di chi propone una nuova aggregazione simile al primo PaP e poi a Unione Popolare, alla quale Rifondazione Comunista dovrebbe aderire. Il tema è certamente importante e meriterebbe un approfondimento che uscisse dalla genericità. Gli astensionisti sono una realtà estremamente differenziata. Può valere per loro ciò che Tolstoj affermava delle famiglie. Quelle felici sono tutte simili, quelle infelici lo sono ognuna a modo suo. Similmente l’astensionismo è il frutto di diverse e spesso contradditorie forme di infelicità nei confronti della politica.
Rimandando ad un’altra occasione una riflessione in materia, due considerazioni preliminari possono essere avanzate. La prima è che l’astensionismo storicamente non si è affatto presentato come l’anticipazione di una propensione al radicalismo e alla rivolta. Al contrario i Paesi nel quale è stato più elevato sono quelli nelle quali le classi dominanti hanno mantenuto una indisturbata egemonia, come gli Stati Uniti (e, in Europa, se vogliamo prendere un caso di elevato astensionismo, dobbiamo ricorrere alla Svizzera). La seconda è che l’offerta politica che si è incarnata prima in PaP e poi in Unione Popolare, così come nelle esperienze corrispondenti presentate a livello regionale, non ha intercettato nessuna corrente astensionista, limitandosi al più a rappresentare quella nicchia elettorale di estrema sinistra che in Italia è storicamente presente (in forme diverse) dagli anni ’70.
Traendo un bilancio di queste esperienze il Congresso di Rifondazione ha ritenuto che non esistano le condizioni per nuove aggregazioni dalla base politica e sociale estremamente ristretta e dall’analisi politica assai discutibile, come quella espressa nel libro di Cremaschi che riduce la realtà politica italiana ai fascisti e a coloro che si starebbero fascistizzando. Uno schema che rimanda ad approcci del “terzo periodo” del Comintern (ma con minore spessore teorico e seguito politico) che per altro ai comunisti e al movimento operaio non portarono molta fortuna e venne saggiamente e rapidamente abbandonato.
Il PRC rivendica quindi la propria piena autonomia strategica e organizzativa che si accompagna non all’isolamento ma al contrario alla piena partecipazione ad un insieme di fronti politici e sociali che puntano a raggiungere risultati e non solo all’autorappresentazione identitaria. L’ordine del giorno finale, approvato questo all’unanimità, indica i terreni concreti sui quali sviluppare un rilancio politico, organizzativo, ideale di Rifondazione Comunista. Scommessa difficile ma necessaria.
Franco Ferrari
