Durante la prima guerra mondiale circolò insistentemente, nei paesi dell’Intesa, la storia raccapricciante secondo la quale le truppe di occupazione in Belgio avevano l’abitudine di tagliare le mani ai bambini di quel Paese. Segno indubbio della innata barbarie che caratterizzava il popolo tedesco. Di questa vicenda scrisse ampiamente la stampa, vi furono giornalisti che raccontarono gli incontri che avevano avuto con alcuni di questi bambini, altri esperti diffondevano dettagliate informazioni sulla vicenda. Vi fu anche una grande ondata di solidarietà soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. In realtà quando, già durante la guerra, ma soprattutto una volta finita, si cercò qualcuno di questi disgraziati non se ne trovò nessuno. Era una classica invenzione della propaganda di guerra.
La storia è raccontata da Anne Morelli, storica belga, professoressa onoraria all’Università di Bruxelles (ULB) nel suo fortunato libro “Principi elementari della propaganda di guerra” pubblicato in italiano, in una nuova edizione aggiornata, dalla casa editrice Futura (2024, 150 pagine, 15,00 euro), ma che ha avuto anche numerose altre traduzioni in varie lingue. Il cognome indubitabilmente italiano è dovuto al fatto che è figlia di un emigrato politico rifugiatosi in Belgio durante il fascismo.
L’edizione originale risale ormai a parecchi anni fa ma il testo mantiene intatta la sua validità, tanto è vero che l’autrice ha potuto aggiornarlo con nuovi esempi tratti dalle guerre recenti senza doverne cambiare l’impostazione di fondo.
Questa prende le mosse da due libri pubblicati negli anni ’20. Il primo, scritto da Jean Norton Cru, metteva in discussione, esaminandone la fondatezza, molte delle testimonianze su vicende relative alla prima guerra mondiale, anche da parte di chi si presentava come testimone oculare. Il secondo, “Falsehood in Wartime” (Falsità in tempo di guerra), era stato pubblicato nel 1928 da Arthur Ponsonby, un aristocratico pacifista che si era sempre posto in conflitto con la propria classe d’origine, al punto da aderire al Partito Laburista, guidandone la sparuta frazione nella Camera dei Lord. Ponsonby era un pacifista radicale e lasciò i laburisti al momento dello scoppio della seconda guerra mondiale.
Nel suo libro Ponsonby elencava tutta una serie di meccanismi tipici della propaganda di guerra finalizzata a mobilitare e a manipolare l’opinione pubblica. Procedendo dalla sua traccia, Anne Morelli espone i dieci principi fondamentali che guidano tutti coloro che devono convincere alla giustezza di una guerra, dedicando ad ognuno di essi un capitolo esplicativo. Gli esempi richiamati percorrono tutta la storia del ‘900 e proseguono nel ventunesimo secolo, integrando anche le vicende più recenti relative alla guerra in Ucraina.
Il compito che si propone il libro non è “di sondare la purezza di intenzioni dell’uno o dell’altro contendente, né di capire chi mente e chi dice la verità, chi è in buona fede e chi no. Mio unico proposito è illustrare questi principi di propaganda, universalmente applicati, e descriverne i meccanismi”. Sintetizzando rapidamente i dieci principi fondamentali, chiunque potrà rintracciarne l’applicazione anche oggi, quando si legge la grande stampa italiana o si seguono i principali mezzi di informazione.
“Noi non vogliamo la guerra”. Questo è quasi sempre il punto di partenza. “La guerra e la sua compagnia d’orrori sono, in effetti, raramente popolari a priori ed è per questo di buon gusto presentarsi alla pubblica opinione come persone amanti della pace”. Ci si arma, ci si prepara alla guerra ma sempre affermando il presupposto che lo si fa proprio malgrado, e giusto per evitare la guerra. Anche il dirigente nazista Goring, all’inizio dell’agosto del ’39, affermava che “il Reich non voleva la guerra (…) ma si sarebbe difeso se qualcuno gli avesse rifiutato questa pace o avesse commesso la sciocchezza di far precipitare l’Europa in una guerra”. Curiosamente, questo discorso veniva tenuto alle maestranze della “Rheinmetal”, a dimostrazione che molte cose possono cambiare, ma qualcuno pronto a guadagnarci c’è sempre e a volte sono sempre gli stessi.
“Il campo avverso è il solo responsabile della guerra”. Naturalmente se “noi” siamo amanti della pace, quando scoppia una guerra la colpa è interamente dell’altra parte. Questo principio è ripetuto anche quando i paesi occidentali hanno iniziato la guerra contro paesi che non li avevano attaccati, come l’Iraq o la Serbia. Nel caso dell’invasione russa la propaganda ripete sempre che l’aggressione è priva di qualsiasi motivazione derivante dalle vicende precedenti (il conflitto interno all’Ucraina o l’espansione della NATO). D’altra parte la propaganda russa si è andata via via orientando sul tema della legittima difesa dall’aggressione occidentale.
“Il nemico ha l’aspetto del diavolo o del ‘cattivo di turno’”. La demonizzazione del nemico è un elemento imprescindibile della propaganda. Abbiamo visto come ogni volta che la NATO e l’Occidente hanno iniziato un conflitto il nemico è stato identificato con Hitler (ma anche Putin si è proposto di “denazificare” l’Ucraina). “Si deve sempre, nella misura del possibile, demonizzare questo leader nemico, presentarlo come un essere immondo da sbaragliare, come l’ultimo dei dinosauri, come un folle, un barbaro, un criminale dell’inferno, un macellaio, un perturbatore della pace, un nemico dell’umanità, un mostro…”. Nella propaganda è indispensabile semplificare e ridurre il conflitto allo scontro tra “buoni” e “cattivi”.
“È una causa nobile quella che difendiamo e non gli interessi particolari”. Quasi sempre le guerre hanno motivi di ordine politico, economico o di difesa di una egemonia a livello globale o regionale che ricorre all’uso delle armi. Ma tutto questo tende a venire occultato per utilizzare una retorica che si ammanta sempre di grandi valori, sacri principi e così via. In questo schema retorico, forse Trump potrebbe rappresentare un’interessante eccezione, dato che mette sempre al centro il puro interesse degli Stati Uniti, per qualsiasi iniziativa di ordine internazionale intraprenda. Si distingue in questo dai Democratici come anche dai neoconservatori, per i quali la motivazione ideologica viene sempre esaltata come la ragione di qualsiasi iniziativa di guerra (difesa dei diritti umani, imposizione del modello capitalistico liberale, ecc.). L’opinione pubblica deve essere convinta che “quel che si fa non è che portare un contributo ad una nobile causa”.
“Il nemico provoca intenzionalmente delle atrocità; a noi possono sfuggire ‘sbavature’ involontarie”. In ogni guerra vengono commessi crimini, ma la funzione della propaganda di guerra è di far credere che solo i nemici ricorrono a tali strumenti efferati. “La devianza criminale diventa il simbolo stesso del solo esercito nemico, formato essenzialmente da briganti senza fede né legge”. È in questo contesto che durante la prima guerra mondiale circolò la storia dei bambini dalle mani mozzate. Per altro anche la propaganda tedesca non si risparmiò invenzioni sui crimini del campo avverso. Francesco Saverio Nitti che era stato ministro durante la guerra scriverà poi: “Abbiamo sentito raccontare la storia dei piccoli infanti belgi ai quali gli Unni avevano mozzato le mani. Dopo la guerra, un ricco americano, scosso dalla propaganda francese, inviò in Belgio un emissario per provvedere al mantenimento dei bambini cui erano state tagliate le povere manine. Non riuscì ad incontrarne nemmeno uno”.
“Il nemico usa armi illegali”. Il tema torna regolarmente in ogni guerra almeno dalla prima guerra mondiale durante la quale si fece ampio uso dei gas asfissianti che poi si decise di dichiarare fuori legge, anche se questo avvenne a favore di armi ancora più letali ma anche più facilmente controllabili.
“Le perdite del nemico sono imponenti, le nostre assai ridotte”. Lo si è visto anche nella guerra russo-ucraina sulla quale sono circolate cifre che appaiono, a mio modesto parere, piuttosto esagerate. In ogni caso le due parti hanno teso a sottolineare l’enorme numero di perdite attribuite alla parte avversa, accusata anche di mandare allo sbaraglio i propri uomini, ulteriore indice di barbarie e crudeltà, ma sono sempre state molto reticenti per quanto riguarda i propri caduti. Andando indietro nel tempo, racconta Anne Morelli che “il 22 aprile 1917 (dopo un’operazione per sfondare le linee tedesche, nelle quali le perdite francesi erano arrivate in poche ore a più di 100.000, tra morti e feriti), allorché il deputato francese Raffin-Dugens volle chiedere al governo l’entità delle perdite francesi, la Camera gli tolse la parola ancor prima che avesse concluso la frase”.
“Gli artisti e gli intellettuali sostengono la nostra causa”. La propaganda non può basarsi principalmente su argomentazioni razionali, ma deve suscitare emozioni, siano esse negative (la paura del nemico) o positive (la difesa dei nostri “valori”). Per questo si sono utilizzate agenzia di pubblicità come la Hill & Knowltown che inventò la storia dei bambini kuwaitiani strappati alle incubatrici dai soldati iracheni, ma anche artisti e intellettuali “abili professionalmente a manipolare suggestioni e sentimenti”. E qui non c’è nemmeno bisogno di portare esempi lontani nel tempo, avendone di recente proprio sotto i nostri occhi. Non bisogna sopravvalutare il senso critico degli intellettuali quando sono chiamati a schierarsi durante una guerra. Molti importanti esponenti della cultura tedesca (tra cui Max Planck e diversi professori di teologia cattolica), durante la prima guerra mondiale si dichiararono solidali con l’esercito tedesco che proteggeva la cultura del loro paese, “esposto come nessun altro ad invasioni che si ripetono di secolo in secolo”.
“La nostra causa ha un carattere sacro”. L’argomento religioso, segnala Morelli, è spesso utilizzato, anche da chi non crede in Dio, per rendere più convincente il sostegno ad una guerra. C’è il “Gott mit Uns”, Dio è con noi dei tedeschi, ma anche la tradizione religiosa cattolica non manca di legittimazione della guerra. Disse San Bernardo che “il cavaliere di Cristo ammazza con coscienza e muore tranquillo. (…) Quando toglie la vita a un pagano, non è omicidio, ma ‘malicidio’. Soffrire o dare la morte per Cristo non ha nulla di criminale, merita, invece, grande gloria”. Il più amato inno della seconda guerra mondiale, il cui autore Aleksandr Aleksandrov che compose anche l’inno nazionale sovietico e fondò il coro dell’Armata Rossa, di intitola “La guerra sacra” (“Sorgi, o terra immensa/Sorgi all’ultima battaglia!/Contro l’oscura forza fascista/Contro l’orda maledetta”).
“Quelli che mettono in dubbio la propaganda sono dei traditori”. Una regola già segnalata dal pacifista Lord Ponsonby ai tempi suoi, ma basta scorrere le liste di “putiniani” redatte dalla grande stampa italiana in questi anni per avere chiaro che anche questo principio elementare della propaganda di guerra è regolarmente applicato. Anche nel caso della guerra in Jugoslavia alcuni giornalisti o intellettuali “per non essersi fatti reclutare e intruppare, furono immediatamente accusati d’essere anti-occidentali, anti-democratici, in breve di ‘appoggiare Milosevic’”. Ci sono editorialisti che svolgono regolarmente questa funzione di denuncia di tutti coloro che osano sollevare anche solo qualche dubbio.
Nel caso della guerra in Ucraina la credibilità di questi meccanismi di propaganda ha avuto qualche problema di efficacia dato che nell’ultimo anno e mezzo è iniziata la guerra di sterminio israeliana contro i palestinesi di Gaza. Mentre in Ucraina ciò che era avvenuto prima dell’invasione russa non contava, nel caso di Israele ciò che era avvenuto prima giustificava qualsiasi crimine, purché il “prima” restasse limitato all’azione di Hamas del 7 ottobre del 2023 e non a tutto ciò che l’aveva preceduta. Anche il fatto che il comportamento russo in Ucraina, sotto la guida del “cattivo” Putin, sia indubitabilmente meno brutale e indiscriminato nel colpire i civili, di quello messo in atto dal “buono” Netanyahu, ha creato non pochi problemi di credibilità alla propaganda di guerra.
Nelle pagine finali, Anne Morelli si interroga su una questione che deve necessariamente essere tenuta presente. Il fatto che tutte le parti in guerra tendono ad utilizzare gli stessi meccanismi propagandistici, significa anche che esse siano sempre e necessariamente equivalenti? Il fatto che si inventino crimini da attribuire all’avversario non significa evidentemente che questi crimini spesso siano volutamente perseguiti ed utilizzati come strumenti di guerra.
“Il dubbio sistematico non comporta pure certi rischi?” ovvero quello di cadere nel relativismo. Se tutti utilizzano gli stessi argomenti “non si devono mettere tutti nello stesso sacco?”. La risposta è che “l’ipercriticismo – anche se può avere come esito desolanti scemenze come il negazionismo – ha pochi morti sulla coscienza e l’eccesso di scetticismo mi pare condurre a conseguenze meno tragiche che la cieca credulità. Il dubbio sistematico mi sembra ancora il migliore antidoto al veleno della persuasione a domicilio che i media ci distillano quotidianamente”. Direi che questo è certamente il punto di partenza necessario, ma oltre questo occorre darsi gli strumenti teorici e conoscitivi per andare a cercare la realtà oltre la propaganda, che sola consente di assumere poi una posizione corretta e un giusto criterio per l’azione.
Franco Ferrari