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Piccola cronaca personale del 22 settembre a Roma

di Giancarlo
Scotoni

Durante la manifestazione per Gaza tenutasi il 22 settembre a Roma, ho partecipato assieme al gruppo del Centro Sperimentale del Cinema: loro venivano da Cinecittà e si erano uniti a un corteo che arrivava da quella zona, io li ho raggiunti a Termini alle undici. Ci siamo mossi in corteo dopo due ore scandite dagli slogan prevalenti: palestina libera e siamo tutti antisionisti, riassumerei. Soggettivamente, ma credo di riflettere un sentimento diffuso, per un bel po’ quello prevalente è stato di sollievo: ritrovarsi in tanti e tante ci ha consentito di dissipare la cappa di orrore che in tutte questi interminabili mesi ci ha quotidianamente raggiunt3 dalle televisioni, da internet, dalle conversazioni: mai un limite al peggio. Dire che le sofferenze dei palestinesi e degli abitanti di Gaza si sono diffuse come una nuvola su noi tutt3 può essere retorico e metafisico, d’accordo; ma in mezzo alla folla di (soprattutto) giovani che gemiva la piazza dei Cinquecento e che poi sfilava in un corteo di cui non si percepivano coda e testa a me è sembrato di respirare più liberamente, di tornare a godere della vicinanza con il mio prossimo. Sollievo, dunque di non essere soli.

Tra gli slogan, che a quanto ho potuto sentire non erano poi molto differenziati nè particolarmente articolati, non ne ho ascoltati molti che inneggiassero alla resistenza. L’appoggio alla Global Flottilla mi pare incanalasse una generale volontà di esprimere solidarietà diretta. Mentre lo slogan più vicino al sentimento comune e assieme quello più ricco di prospettive, sebbene generico, mi è sembrato il “siamo tutti palestinesi” che faceva capolino tra il “siamo tutti antisionisti” e il “siamo tutti antifascisti”.  L’affratellamento agli abitanti di Gaza in quanto vittime incolpevoli, perché “vogliamo “rimanere umani”, era evidentemente il moto d’animo basilare.

Ma in questa economia dei sentimenti che meriterebbe altra penna e anche più rispetto e profondità forse, forse solo implicitamente, erano presenti magari non in tutti e tutte i partecipanti anche altri sentimenti collettivi. Forse quella specie di disorientamento che a me è sembrato presente nelle ore iniziali conteneva anche paura. Paura di avvenimenti incontrollabili, di potenze dall’incontrollabile procedere, paura a cui veniamo esposti dai notiziari che sembrano catapultarci nell’incredibile per quello che dicono, per come lo dicono e per quello che travisano o nascondono. Annichilente sensazione di essere trascinati nel baratro da immobiliaristi pazzi, da fanatici religiosi, da nazisti di Marte, da catastrofi ambientali e di non poterci far nulla.

Man mano che il corteo macinava la strada c’era tempo di guardarsi attorno e mi facevo l’idea che il grosso dei partecipanti fosse costituito da studenti degli istituti superiori, sebbene, naturalmente fossero numerosissimi i gruppi organizzati: da Non Una Di Meno ai movimenti per la casa, da PaP all’USB. Forse era stata una partecipazione facilitata anche dallo sciopero del personale insegnante. Tutt’orecchie cercavo di ascoltare, impresa difficile nel chiasso del corteo e con orecchie non più giovani, i discorsi che i partecipanti si scambiavano. Nel mio attorno c’erano lavoratori e lavoratrici ancora in formazione o appena formati che discutevano di quanto convenisse un contratto a termine in Germania piuttosto che uno stage in Portogallo, che si rivedevano a distanza di mesi o che si stavano salutando perché avevano finito il corso. Un insieme di relazioni che disegnava cooperazione e governo della competizione, un generale riconoscersi diversi dai propri insegnanti, per lo più assenteisti nelle proprie responsabilità, pronti a sfruttare la propria posizione professionale, la propria rete di conoscenze e complicità. Ho chiesto quanti di quell’istituto avessero partecipato e, dopo aver saputo che si trattava di circa un terzo, ho avuto il piacere di spiegare che i crumiri non sono solo dei dolcetti.

Attorno e attraverso il piccolo spazio che occupavamo si muovevano molecole di società: mode, tendenze, comportamenti, strati sociali e anche qualche effluvio speziato. Madri con bambini per mano, coppie -omosessuali e non-, gruppi amicali, qualche turista disperso, anziani increduli di essere finalmente un bel po’ sopra l’età media dei partecipanti. E, naturalmente, qualche ciclista a cui la legge di incompenetrabilità dei corpi rimane evidentemente misteriosa.

Tanta felicità, se capite quello che voglio dire, tanto starsene bene assieme senza il bisogno di sentirsi identici. E dunque un’occhiata benevola anche alle squadre di ragazzotti innamorati delle partecipazioni organizzate, quelli che si muovono in gruppi imbandierati, hanno un capo e gli piace tanto spostarsi di qua e di là richiamandosi l’un l’altro. Anche questa bella gente tutto sommato. Ma non vorrei alleggerire troppo i toni: era e rimaneva un corteo per Gaza, non una passeggiata spensierata. Sono io che sono felice alle manifestazioni riuscite. D’altra parte se fosse stata una passeggiata non avrebbe espresso tanta serietà e soprattutto tanta energia: il corteo è durato tantissimo e io non ce l’ho fatta a vederne lo scioglimento.

Tornando a quello che ho visto, in effetti di partecipazione gestita collettivamente ce n’era, ma era inglobata in una massa e contribuiva anche lei dare un contributo felicemente combattivo: due ragazze (di cui una decisamente intonata) e un tagazzo con tre megafoni che si alternavano davanti a alcuni striscioni mooolto organizzati erano davvero efficaci. Comunque penso che qualcuno si è sentito testa del corteo è bene sia prudente senza nulla togliere al peso del contributo che ha dato.

Ho voluto raccontarla così per arrivare a un punto che mi preme e cioè se sia lecita tutta questa gioia di essere in tanti e di non aver paura quando a Gaza si viene cecchinati mentre si cerca di raggiungere cibo e acqua.

Uno slogan che ho lasciato per ultimo era quello che minacciava di bloccare TUTTO se il genocidio non fosse stato condannato e fermato. Faceva eco al “pagherete tutto” che, diciamocelo, è un poco consolatorio in questa situazione. Certo “bloccare tutto” è un poco ambizioso, se lo prendiamo in senso letterale, ma lì aveva un significato molto realistico perchè, effettivamente, la manifestazione stava paralizzando l’intero centro della città. Questa dimensione di efficacia è essenziale per ogni mobilitazione, e ha una sua felicità anche con la consapevolezza di quel che a Gaza continua a avvenire –ma forse non proprio lo stesso, non allo stesso modo. Può non essere consolatoria o assolutoria.

A questo proposito sia ieri che oggi mi è spesso tornata in mente una osservazione di un compagno caro che ieri mi diceva “mancano i lavoratori: la manifestazione è una moltitudine monca”. Penso avesse ragione e credo sia giusto considerarla una occasione mancata a meno che la mobilitazione non vada avanti così, per modo di dire, su occasioni che si alternano.

Ma alla mia immaginazione mancano anche altr3,  Roma è piena di lavoro semi-clandestino, precario, sottopagato o sotto ricatto. La notte si popola di uomini silenziosi che trasportano sacchi di biancheria da e per gli affittacamere, di ciclisti per le consegne, per la ricarica delle batterie degli scooter, di facchini e trasportatori e questo è solo il lembo intercettabile per strada della folla di invisibili che nella grande manifestazione di ieri era assente, assieme a tanti altri.

Questa assenza non toglie nulla alla significanza del corteo, secondo me. Ma mi interroga su quanto, per pura ipotesi, quel corteo sarebbe cambiato se a ingrossarne le fila ci fossero stati anche loro, i più prossimi alla dimensione coloniale che il dominio capitalistico sta sviluppando anche all’interno dei propri confini.

E in effetti, se penso a Gaza e al ruolo di Israele, e alla guerra in Ucraina, e di nuovo alle funzioni di controllo regionale svolte dallo Stato israeliano, e all’inflazione di violazione di tutti i diritti, quello all’esistenza compreso, in Palestina e ovunque nel mondo, e alla criminalizzazione del conflitto e della alterità dentro le nostre società trovo solo l’antico bandolo della matassa: occorre che la lotta degli sfruttati passi innanzitutto per il loro reciproco riconoscimento e per la costruzione collettiva di percorsi in grado di misurarsi con la concretezza dei compiti.

Giancarlo Scotoni

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2 Commenti. Nuovo commento

  • giancarlo smetta di fare filosofia, i servi della gleba si sono ribellati solo quando hanno avuto un fucile in mano!franca

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    • redazione
      28/09/2025 22:06

      Cara Franca, che dire? Lei sa meglio di me che la filosofia è molto utile, per cui capisco che la mia non è abbastanza buona, e me ne dispiace. Però potrà trovare accanto al mio articolo altri e più utili contributi al dibattito a cui comunque contribuisco per quello che posso. Un caro saluto
      Giancarlo Scotoni

      Rispondi

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