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Orfani di guerra a Natale e altri pensieri

di Giancarlo
Scotoni

Queste righe non riguardano gli orfani di guerra intesi in senso sarcastico: coloro che soffrono senza una guerra che faccia prosperare i loro affari o doni alle loro vite un senso o solo l’ebrezza di essere pronti e tosti. A questi vorrei essere capace di trasmettere i miei ricordi di Erbil, nell’Iraq curdo, e della sua grande piazza. Anzi a quei ricordi vorrei portarceli trascinandoli per le orecchie. E non riguardano nemmeno i bambini e le bambine che popolavano quella piazza, che giocavano tra loro silenziosi e soli e che chiedevano l’elemosina senza disturbare dato che non potevano sperare in altro aiuto.

E queste righe riguardano solo indirettamente gli orfani e le orfane di guerra veri, lo fanno per così dire per interposto discorso. Però, alla fin fine sono dedicate proprio a loro.

Il tema della riflessione si è –per così dire- imposto da solo. Forse a suggerirlo è stato lo Spirito del Natale Passato di quel diavolaccio di Dickens e della sua storia. Se così fosse, questo Spirito deve essere un tipo un poco anticonvenzionale perché ha accompagnato i suoi suggerimenti con il venticello inquietante della cattiveria e questo a Natale non si fa, credo.

Quando ero ragazzo, per quanto io possa testimoniarne, “orfano di guerra” era un’espressione tra il cinico e il pietistico. Ora che sono passati tanti anni di benessere dalla miseria di allora, può essere sgradevole il ricordarlo ma dato che quel primo welfare nacque in una logica di pura assistenza… persino l’essere orfano di guerra poteva essere considerato una bella fortuna da chi, pur in condizioni altrettanto miserevoli, non possedeva titoli… Per cui, dopo il doveroso rincrescimento per la perdita del padre al fronte o della madre sotto un bombardamento l’animo attento avrebbe potuto giungere abbastanza in fretta a nutrire una implicita, inconfessabile invidia per chi nelle apposite liste della Prefettura era riuscito a entrarci. E così se non si insinuava anche il malfidante sospetto di una furbizia, di una millanteria, di una frode,  restava il sapore di una fortuna che per gli sfigati è comunque un poco un privilegio immeritato. Così parlava a se stesso, magari in dialetto, un diffuso sentire comune resosi cinico per corazzarsi contro la miseria propria e altrui, diffusissima, risucchiante come il fango. Gli altruismi e le compassioni andavano messe da parte, occorreva pensare a se stessi e alla famiglia e se il peso dell’ingiustizia del mondo era così ingente tanto valeva aggiungervi la propria, impercettibile briciola.

Quando ero ragazzo, comunque, qualche anno dalla tragedia era già trascorso. Nelle scuole erano ancora appesi cartelli di avvertimento: se vedete un oggetto come questi non toccatelo. E sopra la scritta dipinta a colori drammatici c’era l’esplosione che investiva bambini troppo curiosi. Attorno, una decorazione di arti mutilati e i colpevoli: bombe a mano, mine, ordigni ben rappresentati a scopo didattico. Io ero molto colpito dalle Balilla quadrotte e con uno strano cappucccio e dalle bombe di mortaio che ricordavano un po’ i missili spaziali. Anche allora dunque l’Esercito entrava in rapporto con le scuole, però in modo meno sicuro di sè rispetto a oggi.

Ma parlavo di orfani di guerra e non di bambini mutilati da ordigni dispersi. Man mano i tempi andavano cambiando: si cominciava a poter tirare il fiato e a rilassarsi un poco. Una strada per un impiego, un lavoro la si era alla fine trovata, le cose andavano meglio e così si cominciava a fare spazio una maggiore tolleranza per quei gran privilegiati che anzi, poverini, in fin dei conti erano diventati pure più bisognosi di altri. Poreto, è anche orfano di guerra…  E così mutando pelle, nel dialetto cittadino la rimozione per l’invidia inconfessabile che avevano provato poteva combinarsi con un senso di superiorità, di esibito distacco e, rovesciandosi, trovare finalmente vendetta. Di modo che un  finale “e chi sei? Sembri un orfano di guerra” poteva diventare un modo appropriato per irridere il dimesso di turno.

Più su facevo riferimento al dubbio sull’appropriatezza di occuparsi di cattiveria sotto Natale. Però questa sgradevole ma in fondo sincera e certo diffusissima dimensione umana durante l’anno viene negata, scompare, non se ne parla. Forse si è troppo occupati a distillare la finzione di una società a-conflittuale, di un unico miglior mondo possibile che –guarda caso- continua a generare e inseguire guerra. Alla cattiveria possono ancora accedere il linguaggio infantile e femminile, sebbene in modi sempre più contrastati: il linguaggio imperante la tollera poco e la sostituisce sistematicamente con un ventaglio che va dall’ineducato al disobbediente, al bullo, al deviante. Pian piano la cattiveria scivola via dalle nostre storie, dalle nostre coscienze. Diventa un rivolo che se ne va fuori dalle nostre case, scende le scale, si perde… fino a ritrovarsi tutta e trionfante nel Paese nemico. Il concetto di cattiveria alligna male nel regno della correzione, del raddrizzamento, della giustizia, della vittoria, della democrazia che vota una volta per tutte. Riconoscere la cattiveria in casa nostra ci farebbe mettere il naso nel conflitto, ci condurrebbe a vederli gli affamatori e le affamatrici attorno a noi, i guerrafondai e le guerrafondaie. E anche, naturalmente, a vedere noi stess3 ben immers3 nel gioco.

E così credo che a Natale, che celebra la (ri)nascita e anche la persecuzione, il parto e la capanna ma anche la fuga in Egitto, ripensare al cattivo e al suo contrasto ci stia, a partire dalla cattiveria che ha infilato le sue radici fin dento la terra della Palestina.

Ma ora fatemi concludere. Devo ancora incartare i miei pacchi di cattiveria per von Der Lyen, Kallas, Merz, Rutte, Macron, Starmer… Questo Natale li sento particolarmente meritevoli di un bel regalino, con quel loro modo tutto speciale… europeo? di voler disegnare le carte geografiche degli altri. E quell’inventiva degna dei Fugger di fomentare guerre con i soldi che non si posseggono…

Buon Natale, ma non a tutti e tutte.

Giancarlo Scotoni

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