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Neocolonialismo e debiti di ricostruzione

di Matteo
Minetti

Chi ricostruirà la città di Gaza, se davvero la tregua attualmente negoziata diventerà una pace stabile? Chi investirà in abitazioni e infrastrutture che, ovviamente, i cittadini palestinesi non possono pagare, e chi otterrà dei profitti dagli appalti di costruzione?

Ma anche, quale grado di indipendenza potranno avere le istituzioni politiche palestinesi, seppure dovessero raggiungere lo status di nazionalità autonoma?
Per cercare di rispondere a queste domande, possiamo guardare al recente passato e osservare le conclusioni della Conferenza Bilaterale sulla Ricostruzione di aprile 2023 e la Ukraine Recovery Conference di luglio 2025, svoltesi a Roma, per spartire le zone di intervento per la ricostruzione ucraina, circa 600 miliardi di spesa previsti. Anche le ONG del terzo settore italiano si sono messe in coda per ricevere la loro parte, per i servizi decentralizzati che sono in grado di offrire.

L’imperialismo, fino alla fine del XIX secolo, si è manifestato nella forma classica del dominio militare su alcune città o su intere macro-regioni lontane dalla madrepatria. I paesi più deboli venivano annessi o sottomessi come colonie dell’impero, fosse quello persiano, macedone, romano, cinese, bizantino, russo, spagnolo, britannico, ottomano, moghul o giapponese. Dall’avvento del capitalismo in poi, a quella militare si è affiancata la forma meno violenta, ma altrettanto efficace, del dominio mediante la dipendenza economica, il neocolonialismo. La forza militare è rimasta come minaccia per il recupero dei crediti, spesso con basi militari stanziate a sorvegliare zone di particolare valore strategico o economico.
Uno dei primi esperimenti di dominio attraverso il debito lo troviamo nell’imposizione delle riparazioni di guerra alla Germania dopo la prima guerra mondiale. “Durante il periodo delle riparazioni, la Germania ricevette tra i 27 e i 38 miliardi di Marchi in prestiti” che si aggiunsero a quelli già contratti per far fronte alle spese della guerra stessa. L’economista statunitense Max Winkler riportava che secondo il Ministro delle Finanze prussiano: “i funzionari tedeschi furono virtualmente inondati da offerte di prestito da parte di stranieri”1. Nel 1931, il debito estero tedesco ammontava a 21,514 miliardi di marchi; le principali fonti di aiuto erano gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, i Paesi Bassi e la Svizzera”. In questo consisteva in sostanza il Piano Dawes di ricostruzione della Germania. La crisi americana del 1929 si era aggravata anche per i 17 miliardi di dollari di crediti esteri in parziale o totale default già nel 1931.
Sappiamo bene come andò a finire. Solo due anni dopo Hitler divenne Cancelliere e riuscì, con diverse forzature, ma attraverso elezioni democratiche, a ottenere una solida maggioranza parlamentare con il suo programma che prevedeva, tra l’altro, l’autodeterminazione dei territori tedeschi (pt.1), di abolire i trattati di Versailles (pt. 2) e di non ripagare i debiti (pt. 11).
Dopo la seconda guerra mondiale, la principale potenza vincitrice di quello scontro, l’unica che avesse mantenuto integri il suo territorio e le sua potenza produttiva, ovvero gli Stati Uniti d’America, inaugurarono con il Piano Marshall una nuova stagione di prosperità concedendo finanziamenti a fondo perduto per la ricostruzione e lo sviluppo economico, sia ai paesi vincitori che a quelli vinti. La storica dell’economia Marina Comei, in un raffronto con il Fondo per la Ripresa dell’UE, sostiene che “nel 1947 il Piano serviva a creare un’area antisovietica economicamente unitaria e si inseriva in un progetto di nuovo ordine europeo e internazionale”, da cui infatti nacque la NATO.

Durante il periodo dei “30 gloriosi” l’effetto stabilizzante degli accordi di Bretton Woods limitò la speculazione finanziaria, mantenendo basso il debito pubblico degli Stati europei, grazie all’intervento delle banche centrali. Caduti gli accordi nel 1971, e iniziata la spirale di crisi delle politiche di welfare, l’avvento del neoliberismo degli anni ’80 ha scatenato le potenze oscure della finanza a caccia di paesi da indebitare irrimediabilmente, per ottenere tassi di interesse sempre più alti. È il caso della speculazione a danno dell’Italia e della banca d’Inghilterra da parte di George Soros del 1992. L’enorme debito pubblico accumulato dall’Italia con i suoi cittadini più ricchi e le banche italiane e straniere, attualmente ci porta a pagare fino a 100 miliardi di interessi ogni anno. Questa situazione debitoria ha giustificato da allora le politiche di privatizzazioni, il taglio alla spesa sociale e una maggiore tassazione. Il drenaggio di risorse dai cittadini lavoratori e più bisognosi a favore dei proprietari di investimenti finanziari è ancora maggiore nei paesi a minore reddito, in cui l’esposizione del debito è principalmente verso paesi stranieri, come accaduto in Grecia.
Questo processo estrattivo opera anche nei paesi africani e asiatici in via di sviluppo che si sono fortemente indebitati verso la Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale o altre istituzioni finanziarie, per costruire infrastrutture come strade, dighe, reti elettriche, ospedali e aree urbane, senza poi essere in grado di restituire i fondi e gli interessi accumulati. Con la complicità delle élite al governo talvolta corruttibili, non è stata valutata la sostenibilità economica dei debiti contratti con le banche di investimento straniere, che celavano interessi a mantenere un controllo duraturo sulle risorse naturali usate “a garanzia” dei prestiti.
Oltre agli Stati Uniti, che in questo genere di “aiuti” allo sviluppo hanno fatto scuola, come racconta nel suo libro, Confessioni di un sicario dell’economia, l’economista John Perkins, attualmente molte altre istituzioni, non solo occidentali, contribuiscono a far indebitare i paesi che mostrano prospettive di sviluppo o posseggono minerali strategici.

A volte accade che in teatri particolarmente instabili, come quello centrafricano, nordafricano o mediorientale che nuovi attori, differenti da quelli passati alla storia per queste operazioni, sostengano guerriglie antigovernative, colpi di Stato e cambi di partner militari sul terreno. Questo è certamente il caso dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Libia, della Siria, del Niger e del Burkina Faso assieme a molti altri, in cui l’influenza di paesi emergenti quali la Cina, la Turchia, l’Arabia Saudita, la Russia, l’India e il Pakistan hanno scalzato la precedente influenza statunitense, inglese e francese. Il politologo accademico e consigliere dell’esercito USA in Iraq e Afghanistan nel 2007, Parag Khanna ha esposto in alcuni suoi ben noti libri la teoria secondo cui le tre maggiori potenze che possono aspirare al ruolo di imperi, gli Stati Uniti primariamente, ma anche l’Unione Europea e la Cina, siano attualmente in competizione e quindi anche in conflitto, per la determinazione degli assetti geopolitici futuri. La critica che viene mossa a Khanna dall’esperto di geopolitica Emanuele Parsi, nella sua introduzione al libro I tre imperi, è proprio quella della “sopravvalutazione della capacità e della volontà europea di svolgere un ruolo decisivo nel nuovo ordine mondiale, in cui il multipolarismo in termini politici sembra innanzitutto dettato dalla multipolarità già assunta dal sistema economico globale”2. Sostanzialmente il prof. Parsi rileva che non basta una sovraccumulazione di capitali per attuare una politica neo-coloniale, serve anche la potenza militare, ed è quella di cui si sta dotando la UE con il recente ReArm Europe, il piano di 800 miliardi in armamenti che dovrebbe permettere all’Europa di esprimere appieno le sue aspirazioni imperiali, senza dover dipendere totalmente dalle infrastrutture e dalle armi statunitensi, dislocate sul suo territorio durante la Guerra Fredda.

Penso che tutti noi non riteniamo né attuabile né auspicabile questo piano di armamenti. Tanto più che ci viene presentato in assenza di una effettiva unità politica e decisionale europea e nel perdurante frazionamento delle forze armate nazionali dei paesi membri. Purtroppo non siamo noi a decidere se approvarlo e forse neppure i nostri rappresentanti al Parlamento Europeo.

Visto che i 27 paesi dell’UE non sono affatto concordi su questi indirizzi politici e sul promesso aumento delle spese militari al 5% del PIL, il sospetto, che è quasi una certezza, è che il ReArm Europe sia di fatto un tributo estorto alle “colonie” europee, costrette a comprare tecnologia dismessa o comunque obsolescente dal complesso militare-industriale statunitense, per rilanciare l’economia in grave crisi debitoria di quel paese in declino

Il debito è un mostro vorace che non perdona neppure chi lo gestisce, in quanto ritarda soltanto la crisi da sovrapproduzione, fino alla prossima guerra.

Matteo Minetti

Bibliografia

Ansalone, I Nuovi Imperi. La mappa geopolitica del XXI secolo, Marsilio, 2008.
Ferrero, La truffa del debito pubblico, DeriveApprodi, 2014.
Khanna, I tre imperi. Nuovi equilibri globali nel XXI secolo, Fazi, 2009.
Perkins, Confessioni di un sicario dell’economia, MinumumFax, 2010.
Varoufakis, Il Minotauro globale, Asterios, 2012.
M. Winkler, Foreign Bonds: An Autopsy, Roland Swain Company, 1933.

  1. M. Winkler 1933, p. 86.[]
  2. Khanna 2009, p. 7.[]
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5 Commenti. Nuovo commento

  • Mbagnick Senghor
    23/10/2025 15:28

    Tutta l’ intelligenza umana: bravi a creare guerre e inventare armi potentissimi , incapaci di creare pace e inventare una vita serena 😌😌

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  • Pamela Hull
    23/10/2025 16:28

    Mi è piaciuto molto questo articolo per la semplicità con cui sono esposti i complessi argomenti di cui tratta. Il riferimenti bibliografici sono amche utili per chi volesse approfondire queste riflessioni così ‘attuali’ e che ci coinvolgono da vicino in questi tragici anni.

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  • Giorgio Piacentini
    23/10/2025 16:31

    Un articolo preciso e ben documentato, che svela i giochi di potere adottati da molti attori sovranazionali a danno di una convivenza coerente e giusta, in grado di sviluppare politiche più favorevoli alla pace, tanto necessaria oggi.

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  • Roberto Pazmiño
    23/10/2025 19:23

    Senza dubbio, il nuovo business della guerra è evidente. Un ottimo articolo. Gli affari del genero di Trump in Palestina sono un altro chiaro esempio del perché gli Stati Uniti ora siano interessati alla Palestina.

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  • Antonietta Giuliani
    23/10/2025 20:22

    Grazie, articolo interessante, chiaro. Avvoltoi sempre in agguato.

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