Come prevedibile, l’ondata di manifestazioni che ha visto la presenza di una moltitudine di uomini e donne, soprattutto giovani – ma non solo – ha avuto poi scarsa o nulla influenza nelle consultazioni regionali che si sono tenute nelle settimane scorse. Non c’è da stupirsene: da tanto tempo la distanza fra partecipazione etica, emotiva, persino politica alla vita sociale è distante anni luce da quella che si esprime nella rappresentanza. È uno dei frutti velenosi dell’americanizzazione della società. C’è una parte del Paese che considera importante e utile avere voce nelle istituzioni e che già diminuisce proporzionalmente anche in base alla tipologia di consultazioni. Ci si recava al voto più facilmente alle elezioni del proprio comune che a quelle regionali. Questa tornata ha ulteriormente visto crescere l’astensione, denotando i danni arrecati da un sistema che personalizza le candidature, dalla nomina diretta delle cariche più alte (sindaci o presidenti di Regione), con soglie di sbarramento che rendono inutile il voto a formazioni più piccole. Si creano coalizioni, prima del voto, per puntare su tizio o caio, finalizzate ad avere un voto in più, con l’unico obiettivo unificante di battere la coalizione avversaria. Quello che conta è il governo, rendendo in gran parte inutile il ruolo attivo di consigliere/i comunali, regionali e persino di parlamentari. Si allontana ancor più dalla partecipazione politica tradizionale percepita come inutile, anche nelle tipologie di elezioni risentite vicine.
Il tema trattato qui molto superficialmente si interseca però con un altro, parallelo, attinente e fondamentale se si intende ricostruire una sinistra di alternativa, capace di avere peso, influire e che voglia riprendere piede e conquistare credibilità. Col piano coloniale di Trump, sono diminuiti, mentre scriviamo, almeno apparentemente i morti in Palestina e, come se fosse cessato un allarme, molte persone che si erano mobilitate nei mesi scorsi per porre fine al genocidio sembrano tornare nei propri alvei. Certo la tregua è fragile e ogni giorno basta un nulla per tornare nel baratro di raid e bombardamenti soprattutto contro i civili e le mobilitazioni non si sono interrotte.
La grande manifestazione nazionale indetta dalla Cgil dello scorso sabato, che insieme al contrasto alla manovra di bilancio aveva anche il rifiuto della guerra, non ha parlato né intercettato l’immensa partecipazione delle settimane precedenti e, per altre ragioni, non c’è riuscita neanche la magnifica presenza di tante donne e uomini alla Perugia-Assisi del 12 ottobre. 
Forse vale la pena provare ad interrogarsi per capire cosa hanno in comune e in cosa si differenziano quelli che appaiono come mondi fra cui sono apparentemente molti i ponti reali di convergenza ampia e capace di divenire confluenza senza che questa poi si sia ancora realizzata compiutamente. Verrebbe anche da dire che da aprile ad oggi, le numerose e affollate manifestazioni di massa, che il Paese non conosceva da decenni, si sono sovrapposte, con alcune soggettività organizzate sempre o spesso presenti ed altre meno, ma le stesse soggettività non rappresentano che un’infinitesima parte del tutto.  
C’è però un presupposto estremamente interessante e significativo. Chi percepiva questo Paese da anni come rassegnato, addormentato, privo di qualsiasi capacità di mobilitazione, ha scoperto quanto tale interpretazione si sia rivelata superficiale. Forse, dovremmo capirlo, sono le nostre categorie analitiche ad essere inadeguate. Proviamo a formulare una tesi di fondo: escludendo gli appuntamenti resi possibili da grandi organizzazioni, i movimenti, per come li abbiamo conosciuti nel secolo passato, non obbediscono più nemmeno alla loro caratteristica strutturale di essere carsici. Si muovono con una velocità paragonabile a quella della rete, utilizzano codici comunicativi da cui molte/i di noi sono esclusi anagraficamente e concettualmente. E proviamo a dircela tutta – c’è poco da perdere – ma la manifestazione sindacale recente, per quanto imponente, vedeva presenti persone con un’età media elevata, di  uomini e donne che nel sindacato sono molto impegnati e che hanno riempito, pressoché da soli, la città. La presenza di forze politiche e di associazioni c’era ma in quantità più simbolica che numericamente significativa, parlava un linguaggio coerente, quello che lega il mondo del lavoro ai danni causati dalle politiche governative votate al riarmo e al sostegno a chi non ne ha certo bisogno, che è stato compreso dai padri e dalle madri, ma non da figlie e figli. 
La Perugia-Assisi ha avuto una portata positiva, grazie al fatto che ad un corpo già mobilitato da mesi, si è data un’ulteriore spinta imponendo centralità al genocidio palestinese, alla follia del riarmo, alla fine istituzionalizzata del rispetto di ogni vincolo internazionale, alla ventata di autoritarismo che si respira anche in Italia. Scelte giuste e lungimiranti, che hanno aggiunto forze al già esistente ma che comunque hanno toccato  mondi già sensibilizzati. Quanto accaduto a settembre, fino alla manifestazione del 4 ottobre, in ogni città, periferia o sperduto paesino d’Italia, non ha però uguali e non solo  quantitativamente. La parte di Paese che si è mossa è in maggioranza lontana dalle bolle precedentemente evidenziate, magari ha avuto o ha contatti, spesso sporadici, nelle scuole e nelle università con alcune organizzazioni giovanili, al lavoro soprattutto con il sindacalismo di base, ma tale incontro non si traduce, almeno per ora, in adesione. L’importante per molte e molti non è stato chi indiceva le diverse mobilitazioni ma le ragioni per cui valeva la pena uscire di casa e, in alcuni casi, rischiare anche di subire azioni repressive da parte delle forze dell’ordine. La frase evocativa “blocchiamo tutto”, lanciata dai lavoratori portuali genovesi, ha avuto un valore simbolico e concettuale infinitamente più permeante delle organizzazioni che poi, per il proprio ruolo, hanno potuto attuarla. 
L’importante è stato sentirsi, anche per un momento, vicini al popolo di Gaza, alle donne e agli uomini delle Flotille, a chi si esponeva. Si è riassaporato l’antico bisogno di esporsi col proprio volto e col proprio corpo, di riaffermare, anche sventolando un cartello o una bandiera, da che parte si sta, di non limitarsi a scriverlo sulla sabbia di qualche social. Si tratta di un’energia eccedente, a cui forse non siamo pronte/i a fornire risposte, né magari ce se ne aspettano da chi attiene ad un secolo passato ed è ritenuto anche causa di mille sconfitte e su cui dobbiamo veramente indagare.
Ad esporsi è stata soprattutto la generazione di chi ha pagato in maniera durissima, ormai più di 5 anni fa, l’isolamento imposto dalla pandemia e che per troppo tempo ha anche in parte smesso di potersi ritrovare fisicamente. Il dolore per quanto avveniva – e non ha smesso di avvenire – in Palestina, ha costretto a rompere gli indugi, ad uscire e riscoprire luoghi enormi in cui recarsi non per consumare o consumarsi, ma per sentirsi corpo collettivo. 
Sbaglia, ad avviso di chi scrive, illudersi o catalogare tale esplosione in una ritrovata radicalità. Per quella, che ci auguriamo in tante/i, ci vorrà tempo, costanza e capacità di non divenire tappo, di non tentare inutili quanto fallimentari opere di fagocitazione egemonica. Oggi, temporaneamente, quella marea sembra rientrata. Il genocidio, l’occupazione, l’assenza di qualsiasi piano reale che coinvolga i palestinesi, scivolano in basso nella gerarchia delle notizie, soppiantato da armi di distrazioni di massa come i fatti di cronaca che vorrebbero riportare ad una condizione di solitudine e di paura chi ha messo la testa fuori dal guscio. Alcune azioni repressive statuali o dei gruppuscoli neofascisti, sembrano obbedire alla logica di riportare tutto all’ordine, così come le azioni per rimuovere dai luoghi pubblici le bandiere palestinesi. Gli stessi attacchi che l’Idf continua ad attuare, cercando alibi inconsistenti, attengono più alla sfera del già visto che a quella che suscita indignazione. 
Va rilevato che il “blocchiamo tutto”, riferito al traffico di armi con Israele, al boicottaggio attivo verso i prodotti che arrivano da quel Paese, l’opposizione agli eventi sportivi come la presa di posizione del mondo della cultura e dello spettacolo anche in forma spiazzante, hanno prodotto un eco che è andato ben oltre i confini nazionali. Non solo ci sono state le reazioni commosse a Gaza, in buona parte del pianeta il contrasto concreto e dal basso fra le politiche governative, i balbettii istituzionali e l’irrompere dal basso di uomini e donne che hanno rotto la propria normalità per riprendere voce, hanno prodotto l’effetto del sasso nello stagno, spingendo altre e altri a emulare tale impegno.
C’è poi, tornando ad una riflessione interna, un altro dato di cui tener conto, per valutare la differenza fra le esperienze dei decenni passati: i luoghi sacri per la costruzione delle mobilitazioni, non convincono, non attirano se non le persone già altamente politicizzate. In alcuni casi, soprattutto quando si prova a ragionare sui nessi che legano crisi e guerra, l’età media delle persone presenti, si alza vertiginosamente. Alcune organizzazioni giovanili sono riuscite, solo in parte ad ampliare i propri ambiti, ma c’è una distanza siderale fra questo e la potenzialità emersa nelle piazze. È cambiata anche la composizione sociale, oserei dire antropologica e se si ritorna al tentativo di realizzare un architrave onnicomprensivo, ad un’impostazione capace di contenere tutti, questa si rivela inadeguata, insufficiente, non corrispondente ad una domanda di cui ancora nessuno è capace di comprendere i significanti. La differenza, tornando a quanto già affermato, non sta in una maggiore presunta radicalità degli obiettivi di chi scende, anzi è sceso, nelle piazze, in una fiducia innata in un conflitto non comprimibile nelle sfere dell’offerta politica a disposizione ma in una sua profonda estraneità. Non sappiamo se alle prossime tornate elettorali, le almeno due /tre milioni di persone che si sono mobilitate saranno o meno interessate a schierarsi politicamente di conseguenza o se, come presumibile, si disperderanno in diversi rivoli, compreso quello ampio dell’astensione.
Una parte di quel mondo, soprattutto giovanile, si era mobilitato, dall’inizio dell’anno, sui quesiti referendari. Secondo i rilevamenti se a votare fossero andati solo gli under 35 il quorum si sarebbe certamente superato. E a coinvolgere maggiormente è stato il tanto bistrattato referendum sulla cittadinanza, che poneva un obiettivo concreto e immediato da raggiungere. Le 637 mila firme raccolte in 20 giorni, gli oltre 9 milioni e 700 mila voti, non sono sorti dal nulla. Sono un’altra traccia di un sommovimento, soprattutto giovanile, che non ha ancora trovato modalità espressive stabili e continuative, che non ha e a volte non chiede neanche rappresentanza, che in parte si pone nell’ottica della pratica dell’obiettivo più che della realizzazione di un proprio assetto. Certo questo è valso anche per le tante e i tanti che si sono espressi sui referendum che direttamente impattavano sulle questioni connesse al lavoro – anche il referendum sulla cittadinanza in realtà lo era – ma lì ha anche pesato un maggior impegno di alcune, non tutte, le organizzazioni sindacali. Altro tema sentito come unificante è quello del rifiuto delle logiche securitarie imperanti, che a volte sono intessute di militarizzazione, nelle scuole come nelle piazze, ma in questo caso parliamo di un tessuto meno esteso e ancora da corroborare. Se, come possibile ma non certo, assisteremo ad una fase di risacca – non chiamiamolo per cortesia riflusso – delle mobilitazioni, della loro intensità quantitativa, teniamo però conto di con estrema attenzione di quanto avvenuto nel mese passato. Il magma esiste e permane, va seguito, monitorato, compreso ed ascoltato, né con la presunzione di comprenderlo/egemonizzarlo od orientarlo, né con una speculare subalternità acquiescente. Chissà che magari, dopo anni di inutile attesa, non si torni ad imparare qualcosa?
Stefano Galieni
