Il presidente francese Emmanuel Macron ha provveduto a sostituire immediatamente il primo ministro uscente François Bayrou, sfiduciato dall’Assemblea nazionale, mandando allo sbaraglio uno dei suoi fedelissimi, Sebastien Lecornu. Un politico relativamente giovane che, dopo essere stato funzionario parlamentare della destra repubblicana (gli ex gollisti) è entrato da tempo nel sempre più ristretto cerchio magico di Macron.
Di notevole è il suo essere stato Ministro della Difesa, quindi impegnato in prima persona nel piano di militarizzazione della Francia voluto dal Presidente della Repubblica e sul quale esiste un’ampia convergenza parlamentare. Forse l’unico terreno, per ora, dove Macron può vantare un consenso che vada oltre il suo “zoccolo comune”, come è stato chiamato lo schieramento che ha sostenuto Bayrou, comprendente macronisti e Repubblicani.
Forse può essere questo uno dei calcoli del Presidente nel scegliere Lecornu, spostare l’attenzione dal debito statale alle politiche militari a sostegno di un ruolo internazionale della Francia che fa ancora battere molti cuori nell’emiciclo, e non solo a destra, ma che finora, per il confuso protagonismo di Macron e per la mancanza di mezzi sufficienti, ha ricevuto solo sberle da tutte le parti. Il settimanale tedesco Der Spiegel faceva perfidamente notare che, malgrado il protagonismo da capo dei “volenterosi” per l’Ucraina, la Francia ha speso “solo” 6 miliardi per sostenere la guerra contro la Russia.
Chi pensava che, nella scelta dell’ennesimo primo ministro di minoranza, Macron provasse a inventarsi qualche idea se non geniale almeno un po’ fantasiosa, è rimasto deluso. Chiuso in un bunker sempre più ristretto e sempre più impopolare tra i francesi, l’inquilino dell’Eliseo non sembra in grado di allontanarsi dallo schema ideologico sulla base del quale si è affermato nel sistema politico francese.
La grande idea di Macron, raccogliendo i cocci della disastrosa presidenza Hollande, di cui era stato ministro delle Finanze, era di superare il tradizionale bipolarismo “destra-sinistra” per imporre una direzione centrista, in grado di staccare pezzi di ceto politico da entrambi i fronti. Cavalcando il populismo anti-partito si presentava come la soluzione tecnocratica ed europeista ai problemi della Francia.
Il suo blocco sociale si rivolgeva innanzitutto ai “vincenti” della globalizzazione, il ceto medio e medio-alto che scommetteva sull’Unione Europea per garantire una più ampia ascesa sociale, all’interno però di un sicuro mantenimento dello status quo: che i ricchi intanto restino ricchi e per gli altri si vedrà.
Macron ha investito sull’idea, non particolarmente originale, che per favorire lo sviluppo economico occorresse innanzitutto ridurre il carico fiscale ai possidenti e alle imprese, sulla base della visione ideologica secondo la quale il capitalismo si espande se il capitale stesso dispone di sempre maggiori quote di ricchezza. Mentre la seconda parte dell’equazione ha funzionato benissimo, la prima, quella secondo la quale alla fine qualcosa dei benefici del capitalismo si trasferisce ai ceti sociali medio-bassi non ha funzionato.
Questo ha fatto sì che il blocco sociale di Macron si riducesse anziché allargarsi e si attestasse su non più di un quinto dell’elettorato, che è già è solo un po’ più della metà dell’intera popolazione adulta. Benché Macron si sia dimostrato leader politico tanto presuntuoso e narcisista quanto incompetente, la realtà è che la crisi del suo progetto non può essere ridotta alla sola dimensione psicologica. Analoghe crisi del modello centrista, oltre la destra e la sinistra, hanno determinato pesanti sconfitte anche in altri Paesi (Renzi forse il primo a cadere) e barcolla pesantemente nella Gran Bretagna di Starmer.
La Francia, che in questo si differenzia da altri Paesi europei, mantiene una tradizione di movimenti sociali che tendono a ripresentarsi sulla scena con una certa regolarità. Prevalentemente ma non solo a sinistra, dato che il “poujadismo”, protesta di ceti medi orientati in senso reazionario, ha rappresentato un modello di mobilitazione in tutt’altra direzione.
Gli elementi di novità offerti da questi movimenti si sono riscontrati prima nei “Gilet gialli” e ora in “Blocchiamo tutto”. Si tratta di ribellioni spontanee che esprimono un sentimento diffuso di collera verso il potere politico ed economico (di cui Macron rappresenta l’integrazione più compiuta) ma che restano eterogenee nella composizione e incerte negli sbocchi politici.
Al momento di scrivere si stanno realizzando dei blocchi in molti punti della Francia, in genere pacifici, in qualche caso venendo duramente repressi dalla polizia, come aveva promesso il ministro degli interni, il Repubblicano di destra Bruno Retailleau. Commentatori ed analisti si erano ovviamente interrogati sulla natura di questo movimento che non ha né leader, né strutture organizzative riconosciute ma ha comunque coinvolto diverse decine di migliaia di francesi e ottenuto la simpatia di una larga maggioranza.
All’inizio è stato denunciato dai media, in parte strumentalmente, come espressione di minoranze orientate all’estrema destra motivate da una miscela di sovranismo, complottismo e altre narrazioni marginali. Probabilmente era così ma al suo interno si sono progressivamente inseriti invece militanti di opposto orientamento.
Una ricerca pubblicata dalla Fondazione Jean Jaures tende a sottolineare le differenze sociologiche con i Gilet Gialli. Più anziani, popolari e spoliticizzati i primi, più giovani, militanti e tendenzialmente orientati verso la sinistra radicale il “Blocchiamo tutto”. Un movimento di massa però non è immediatamente identificabile con lo strato militante nel quale trova un minimo di strutture organizzata e di “competenza” nel realizzare le azioni. Il sostegno esplicito della France Insoumise e la decisione di partecipare alle iniziative da parte del resto della sinistra, a differenza del Rassemblement National che punta alla sua normalizzazione all’interno del sistema politico, ha certamente contribuito ad un mutamento di profilo della mobilitazione.
Per ora il sistema politico si trova in una situazione di stallo. Macron, per effetto dell’assetto istituzionale della V Repubblica, può reggere fino alle elezioni presidenziali del 2027 anche se è tutt’altro che chiara la sua strategia. Si può ipotizzare che speri nella frammentazione della sinistra in modo tale da consentire al suo campo di presentare un candidato in grado di arrivare al secondo turno e di proporsi come unica alternativa all’ascesa al potere dell’estrema destra.
Il governo non ha bisogno della fiducia del parlamento ma deve evitare che le opposizioni convergano su un’unica mozione di sfiducia. Al momento gli interessi politici dei vari partiti sembrano escludere una immediata convergenza. Il Rassemblement National punta su una dissoluzione anticipata del Parlamento perché ritiene che in questo momento sia più difficile che si realizzi il “fronte repubblicano” nelle urne a sue spese. La France Insoumise invece spera di far finire anticipatamente la Presidenza di Macron per presentarsi come l’interprete di un movimento dal basso di “degagisme”, contestazione radicale del potere. I socialisti cercano di muoversi tra il bisogno di messa in discussione delle politiche macroniane e il desiderio di proporsi come forza responsabile e in grado di fornire un’alternativa credibile di governo. Un certo ondeggiamento che deve tener conto delle divisioni interne. Non hanno interesse ad una accelerazione della crisi, puntando semmai a riconquistare un ruolo centrale in una rinnovata Union de la Gauche, senza Melenchon, con le elezioni comunali dell’anno prossimo. Terreno sul quale si ritengono più forti di LFI.
Le strategie delle diverse forze politiche hanno però di fronte due possibili incognite. Quella che viene dal basso con le mobilitazioni popolari spontanee del 10 settembre e quelle promosse dalle organizzazioni sindacali del 18 settembre. Il ritmo della protesta risentirà delle iniziative del governo Lecornu sul prossimo bilancio dello Stato. Bayrou ha drammatizzato la situazione del deficit, effettivamente cresciuto negli ultimi anni, proponendo una politica di austerità dalla quale ora sarà difficile tornare indietro per la nuova compagine governativa.
Non si possono nemmeno escludere mobilitazioni dall’alto, ovvero l’intervento dei grandi possessori del debito di cui le agenzie di rating sono lo strumento politico, per far salire i tassi di interessi e imporre le politiche di austerità proposte da Bayrou. Finora questa manovra non si è realizzata perché i centri finanziari mantengono una certa prudenza in un contesto globale ricco di incognite, ma tutto il meccanismo presenta degli elementi di imprevedibilità che possono sfuggire di mano.
Il punto di forza delle classi dominanti francesi è che dispongono di un’alternativa già pronta alla crisi del centrismo macroniano, avendo normalizzato il Rassemblement National come possibile forza di governo. Macron ha affidato alcuni ministeri importanti a esponenti della Francia più reazionaria e gli stessi Repubblicani, che rappresentano la destra tradizionale e hanno stretti legami con settori importanti della grande borghesia, se hanno deciso di provare a puntellare Macron, ora si dimostrano sempre più disponibili a convergere con l’estrema destra. Una parte significativa delle classi dominanti si è già schierata da tempo con il Rassemblement National al quale mette a disposizione importanti media che ne alimentano il consenso.
In un contesto di spostamento globale a destra e un certo ritorno di protagonismo del “sovranismo del capitale”, come la Meloni in Italia è sostenuta senza rimorsi dalle classi dominanti italiane anche quelle francesi sono pronte ad allinearsi dietro alla Le Pen o a Bardella.
A fronte di questo contesto la sinistra, dopo il relativo successo del Nuovo Fronte Popolare, fatica a formulare un progetto unitario e convincente per proporre un’altra via d’uscita dalla crisi politica, sociale di prospettiva attraversata dalla Francia. E l’esito della crisi francese non sarà senza conseguenze per il resto d’Europa.
Franco Ferrari