La più grande potenza coloniale del mondo si vantava di essere una democrazia liberale, ma in realtà l’impero britannico è stato molto più invasivo e distruttivo di quanto molti pensino. Ora, con scioccanti e meticolosi dettagli, un’acclamata storica americana ha usato documenti “perduti” di 37 ex colonie per rivelare la barbarie dell’impero britannico e l’arroganza che lo alimentava. Sostiene che i metodi sadici che caratterizzarono gli ultimi atti dell’impero – azioni militari palesi, azioni militari segrete e spionaggio, un’ampia gamma di torture, esecuzioni extragiudiziali (omicidi), bombardamenti aerei, campi di concentramento, espulsioni, carestie provocate, abusi sessuali, armi chimiche e così via – non furono un’aberrazione anomala, bensì comportamenti appresi e tecniche perfezionate dal potere imperiale nel corso di due secoli (dalla fine del XVIII all’inizio del XXI secolo) e in quattro continenti.
Nella gerarchia della violenza sponsorizzata dallo Stato nel XX secolo, la Germania di Hitler, la Russia di Stalin e il Giappone di Hirohito occupano solitamente i primi posti. Anche le azioni di alcuni imperi europei hanno suscitato un duro esame critico: la condotta del Belgio in Congo, quella della Francia in Algeria e quella del Portogallo in Angola e Mozambico. La Gran Bretagna è raramente considerata tra i peggiori trasgressori, data la sua reputazione di decenza e rispettabilità che però la professoressa di Storia e studi africani e afroamericani ad Harvard e direttrice fondatrice del suo Centro per gli studi africani, Caroline Elkins, ha passato più di due decenni a cercare di demolire. “Un’eredità di violenza. Una storia dell’Impero britannico” (Einaudi, Torino 2024), un libro di 808 pagine con altre 145 di note e bibliografia, corredate di fotografie ed immagini altamente esplicative della tesi proposta, fornisce un contesto dettagliato dell’esercizio della “violenza legalizzata” nelle diverse regioni dell’impero britannico, ricostruendo anche le storie delle carriere individuali di generazioni di coloro che l’hanno via via esercitata in quanto amministratori e comandanti militari dell’impero (quasi tutti formati nelle scuole pubbliche e università d’élite).
Elkins ha lavorato negli archivi in una dozzina di paesi su quattro continenti, esaminando centinaia di storie orali e attingendo al lavoro di storici sociali e teorici politici, e ha tracciato l’arco dell’Impero britannico attraverso secoli e teatri di crisi. In quanto unica potenza imperiale rimasta una democrazia liberale per tutto il ventesimo secolo, la Gran Bretagna sosteneva di distinguersi dalle potenze coloniali europee nel suo impegno in una “missione civilizzatrice” (il “fardello dell’uomo bianco” evocato da Rudyard Kipling, “il profeta dell’imperialismo britannico’ secondo George Orwell): portare lo stato di diritto, la democrazia, i principi illuminati, la proprietà privata, il lavoro salariato (anziché schiavizzato) e forzato, il capitale, il libero mercato, l’istruzione, le misure sanitarie pubbliche e il progresso sociale ed economico nelle sue colonie. Elkins sostiene che l’uso della violenza sistematica da parte della Gran Bretagna non era migliore di quello dei suoi rivali. Gli inglesi erano semplicemente più abili a nasconderla. L’impero britannico ha assunto una forma particolare perché la coercizione non riguardava solo l’istituzione e il mantenimento dell’autorità sulle popolazioni sottomesse; era in realtà parte di una visione riformista, l’idea che le popolazioni locali dovessero provare sofferenza, provare dolore, sperimentare lavori forzati, perché questo, di fatto, avrebbe determinato una sorta di redenzione morale, con uno “sviluppismo” progressivo (identificato nei vari stadi di sviluppo di civiltà delle colonie) caratterizzato da una sorta di movimento verso l’età adulta e infine verso l’indipendenza costituzionale forse simile a quella dei dominions bianchi autogovernati (Australia, Canada, Nuova Zelanda e poi, dal 1910, Sudafrica). L’imperialismo liberale “integrava le sovrane rivendicazioni imperialiste della Gran Bretagna con un massiccio impegno a riformare i sudditi e accompagnarli a mo’ di gregge nel mondo moderno” (pag. 14). Come “Lo strano caso del Dr. Jekyll e del Sig. Hyde” di Robert Louis Stevenson, anche l’imperialismo liberale aveva “due nature distinte”: coercizione e riforme. George Orwell elaborò nell’universo distopico di “1984” (1949) l’idea del “doppio pensiero” (intesa come “la capacità di accogliere simultaneamente nella propria mente due opinioni contrastanti, accettandole entrambe”) che può essere riferito a quello ufficiale della Gran Bretagna, “che sottolineava i successi della Pax britannica, negava qualsiasi violenza oppure razionalizzava l’obiettivo di trasformare i sudditi ‘arretrati’, che come bambini dovevano essere educati con mano ferma” (pag. 509).
Più di mezzo secolo dopo che l’Impero britannico è entrato nella sua fase finale dopo la Seconda guerra mondiale, gli storici sono ben lontani da una valutazione completa della carneficina avvolta dalla retorica della propaganda imperiale, dall’arroganza, dal razzismo, da una stampa volentieri accondiscendente e un pubblico interno ignorante, nonché dai roghi di documenti fatti dagli amministratori mentre si preparavano ad abbandonare definitivamente i paesi che via via stavano acquisendo l’indipendenza (da Nairobi, Kuala Lumpur, Delhi, Tel Aviv). Da questo punto di vista, il libro della Elkins racconta una storia incredibile, che dovrebbe essere nella lista di ogni corso di storia che si occupi di storia moderna e di coloro che studiano economia, politica e strategie geopolitiche. Per chiunque altro dovrebbe essere una lettura obbligata per comprendere gli eventi attuali così come si stanno svolgendo oggi in tutto il mondo, perché i nostri attuali scenari geopolitici sono fortemente basati su “un’eredità di violenza” della Gran Bretagna.
Il senso più profondo che abbiamo del danno inflitto alle colonie tende a presentarsi in compartimenti stagni regionali. Elkins li collega ostinatamente, passando dall’India (nota come il “gioiello della corona” dell’impero britannico soprattutto a causa della portata dei saccheggi) e dalla Giamaica al Sudafrica, dall’Irlanda alla Palestina e poi alla Malesia, al Kenya, a Cipro, ad Aden e molti altri territori (il libro tralascia solo le depredazioni dell’impero nel Nord America), rivelando uno schema visibile solo a lungo termine. Mentre il personale militare e di polizia attraversava l’Impero, diffondendo brutali tecniche di repressione in lungo e in largo, i piani alti raramente frenavano tale violenza. Invece, ripetutamente, le davano tutta la forza della legge, sostenendo la necessità di esercitare ancora maggiore brutalità. Così, atti spaventosi come il massacro indiano di Amritsar (almeno 400 civili massacrati dai soldati britannici il 13 aprile 1919), lungi dall’essere – come sostenne Churchill in parlamento – “un orribile evento che si erge in un isolamento singolare”, estraneo “al modo di fare britannico”, erano molto più vicini a essere una caratteristica predefinita. Erano il modo standard – legalizzato, burocratizzato e legittimato – degli inglesi di trattare con le popolazioni indigene decise a preservare il loro stile di vita. Nonostante il diritto internazionale sia diventato sempre più codificato, in particolare dopo le grandi guerre mondiali del XX secolo, l’impero britannico ha sempre trovato il modo di aggirare qualsiasi crescente sorveglianza delle proprie azioni. Mentre la responsabilità ultima ricadeva sempre su Londra, ai governatori coloniali locali veniva data carta bianca legalizzata per fare ciò che ritenevano necessario per impartire “lezioni di civiltà” ai selvaggi (persone dalla pelle scura, nera, marrone e gialla, ma tra loro c’erano anche i bianchi considerati “non civilizzati” come gli irlandesi, i palestinesi e gli ebrei, gli afrikaner olandesi) sotto il loro controllo. La violenza assoluta del dominio fu di fatto legalizzata dichiarando colonie o aree sotto il controllo coloniale come zone di terrore e ribellione, consentendo l’emanazione della legge marziale. Sotto questi regimi, migliaia di leggi furono create dal governo coloniale per sedare qualsiasi rivolta, protesta, disordine o ribellione aperta. Queste leggi fornirono la “patina di ammissibilità legale”.
Inoltre, la strategia principale dell’Impero britannico è stata la sistematica applicazione della pratica del divide et impera. Dall’India alla Palestina, l’applicazione di secoli di divide et impera ha portato a sanguinose eredità di partizione. La partizione dell’India britannica (1947) è stata la decisione della Gran Bretagna imperiale. Oltre a essere stata una catastrofe umana di portata davvero colossale, la decisione di dividere l’India britannica lungo le linee indù (India) e musulmane (Pakistan) ha avuto conseguenze devastanti sia per le relazioni indo-pakistane che per la difficile situazione della forte minoranza musulmana di 200 milioni di persone in India. Allo stesso modo, nel 1937 la Commissione Peel raccomandò la partizione, stabilendo che la Palestina era composta da due società distinte (coloni ebrei e arabi palestinesi) con richieste politiche inconciliabili. Quando gli inglesi lasciarono la Palestina nel 1948, le Nazioni Unite ratificarono il piano e misero in moto un brutale conflitto decennale che dura ancora oggi.
La storia raccapricciante raccontata da Elkins copre quello che gli storici chiamano il “secondo Impero britannico” (dall’avvio delle piccole guerre non convenzionali coloniali dell’era vittoriana alle brutali contro-insurrezioni nell’era della decolonizzazione), ovvero gli sviluppi imperialistici che presero forma dopo la disastrosa perdita delle 13 colonie americane ribelli nel 1783. Un impero caratterizzato da un’organizzazione istituzionale formalizzata e dal protezionismo commerciale (la “preferenza imperiale”, mantenuta fino al 1954) e finanziario (l’”area della sterlina”, mantenuta fino al 1958).
Il libro prende avvio dal processo di impeachment di Warren Hastings, il primo governatore del Bengala (1772-1785), più di 200 anni fa. Hastings fu messo sotto accusa nel 1787 dal parlamentare Whig Edmund Burke con le accuse di estorsione, appropriazione indebita e omicidio illegale, da tutte le quali fu infine scagionato. Elkins identifica quel procedimento legale durato sette anni come il momento in cui il governo britannico e la sua cultura intellettuale d’élite si convinsero del principio che avrebbe guidato le conquiste future: che i mezzi per sostenere il potere giustificavano sempre il fine.
Elkins ha coniato il termine “illegalità legalizzata” per descrivere i metodi egoistici con cui la Gran Bretagna diffuse lo stato di diritto e poi lo piegò ferocemente per servire fini imperiali, emanando leggi che legalizzavano atti straordinari di coercizione e sospensioni del giusto processo. Nelle mani di Elkins, lo stato di diritto nelle numerose colonie britanniche diventa un sistema in cui l’uso di regole codificate veniva esercitato per limitare le libertà piuttosto che espanderle, per espropriare terre e proprietà ai popoli indigeni e per garantire un flusso costante di lavoratori sottopagati o talvolta non pagati verso le miniere e le piantagioni coloniali, il tutto sotto la copertura di una legittimità di principio. Quando le leggi apparentemente benigne si dimostrarono insufficienti per questi scopi, l’impero fu più che felice di ricorrere allo stato di emergenza e alla legge marziale, che conferiva un’autorità straordinaria ai suoi lontani governatori coloniali. Questa “illegalità legalizzata” significava che la Gran Bretagna di fatto divenne una conquistatrice ricorrente dei suoi sudditi. Gli stati di emergenza hanno trasformato di fatto la resistenza organizzata contro il regime coloniale in un’attività proibita o, come minimo, fortemente circoscritta, e hanno ridefinito le persone che lottavano per la propria libertà come criminali o terroristi da reprimere, imprigionare e uccidere.
Di tanto in tanto, notizie di eventi di repressione violenta giungevano in patria e venivano liquidate con la classica scusa della “mela marcia in un barile”, oppure venivano capovolte e si accusavano gli indigeni di essere selvaggi senza morale e che la forza era necessaria per affrontare la loro intransigenza e incapacità di lavorare in uno stato civile. Man mano che il diritto internazionale (umanitario) diventava più codificato, i poteri forti consentivano “deroghe” o esenzioni dallo stato di diritto, in caso di “terrore” o “ribellione” nelle colonie. Di conseguenza, “la Gran Bretagna divenne sinonimo di un ‘regime di deroga’ che… normalizzò l’eccezione nel diritto e nella pratica internazionale” (pag. 684).
In tutto il libro di Elkins, l’idea di moralità e ferocia attraversa tutte le ere e le aree coloniali. Gli inglesi hanno sempre rivendicato una civiltà e una moralità superiori, e le “popolazioni incivili e selvagge del mondo… avevano bisogno di un diverso insieme di regole”. Era la vocazione unica della Gran Bretagna anglo-sassone protestante “civilizzata” quella di diffondere le libertà costituzionali progressiste e lo stato di diritto (i valori inglesi di “giustizia”, “benevolenza” e “umanità”), insieme al libero scambio e al lavoro libero, tra i “barbari” (semicivilizzati) e i “selvaggi” (non civilizzati) meno fortunati. Come scrisse il politico e storico Whig Thomas Babington Macaulay dell’impero britannico: “È per la sua peculiare gloria, non che abbia governato così ampiamente, non che abbia conquistato così splendidamente, ma che abbia governato solo per benedire e conquistato solo per risparmiare”1. Un legame così stretto tra impero e identità nazionale da essere la base dell’eccezionalismo e nazionalismo britannico, così come ha rivendicato il politico conservatore Enoch Powell, in un discorso all’autorevole Royal Society il 23 aprile 1961: “La vita ininterrotta della nazione inglese nell’arco di mille e più anni è un fenomeno unico nella storia: il prodotto di un insieme specifico di circostanze come quelle che in biologia si suppone diano inizio per caso a una nuova linea evolutiva. […] Da questa vita ininterrotta di un popolo unito nella sua patria insulare scaturisce, come se emergesse dal suolo d’Inghilterra, tutto ciò che appare così straordinario nelle doti e nei successi della nazione inglese. Tutto il suo impatto sul mondo esterno – con le prime colonie, la successiva Pax Britannica, il governo e la legislazione, il commercio e il pensiero – è scaturito da impulsi generati qui. Questa vita ininterrotta dell’Inghilterra è simboleggiata ed espressa da null’altro se non dalla sovranità inglese […] Il pericolo non è sempre la violenza e la forza: a esse abbiamo resistito prima e possiamo resistere ancora. Il pericolo può essere anche l’indifferenza e l’ipocrisia, capaci di dilapidare la grande ricchezza della tradizione e svilire il nostro simbolismo sacro solo per raggiungere qualche compromesso a buon mercato o qualche risultato evanescente” (citato a pag. 785).
È sorprendente ricordare che, non molto tempo fa, gli storici britannici più influenti accettavano le immagini della fine dell’impero che venivano proiettate nei cinegiornali propagandistici: governatori generali con elmi piumati e bianche uniformi inamidate che invitavano i nativi riconoscenti sul palco. “Quasi nessun combattimento”, ha concluso lo storico di Cambridge John Gallagher, uno della Vecchia Guardia che Elkins ha nel mirino. Lei ribatte che la pratica di far saltare in aria i sepoy indiani (soldati indiani al servizio degli ordini britannici) dai cannoni dopo la rivolta del 1857 (nota come “l’ammutinamento indiano”), il massacro dei Mahdisti in Sudan con fucili Maxim, mitragliatrici e pallottole dum-dum negli anni Novanta dell’Ottocento, l’uso dei campi di concentramento (circa 100, insieme alla distruzione di fattorie e all’uccisione del bestiame) nella seconda guerra anglo-boera (1899-1902)2, il massacro di manifestanti pacifici ad Amritsar, le uccisioni di rappresaglia e il saccheggio delle proprietà civili in Irlanda durante il terrore “Black and Tan” nel corso della guerra d’indipendenza irlandese, la disastrosa carestia del Bengala del 19433: tutta questa ferocia inflitta dallo Stato era solo dovuta al fatto che l’impero britannico stava entrando nella fase di calde tensioni del suo periodo finale di declino.
Noi fraintendiamo la fine dell’impero, dice Elkins, perché la vecchia storiografia liberal-imperiale si concentrava di più sulle alte politiche, gli stratagemmi di ciò che Gallagher e la sua coorte chiamavano la “mente ufficiale”, piuttosto che sulle azioni degli esecutori che facevano le cose sul campo. La cosa sorprendente, suggerisce, non è quanto i governanti britannici a Londra non abbiano capito il caos che veniva scatenato a livello locale, ma piuttosto quanto ci siano riusciti. Elkins attinge al lavoro di Uday Singh Mehta, Karuna Mantena e altri teorici che sostengono che la versione britannica di “imperialismo liberale”, nonostante tutti i suoi discorsi sulle libertà universali (ossia che si basasse sulla diffusione della libertà e dello stato di diritto in paesi o comunità che consideravano “arretrati”, attraverso la violenza contro i popoli colonizzati), ha servito gli ideali e gli obiettivi fondamentali dell’impero – supremazia bianca, estrazione di ricchezza4, prestigio imperiale e la resistenza dell’impero stesso – razionalizzando il suo dominio su altri popoli: i popoli coloniali, considerati come dei bambini, necessitavano di un severo e duro percorso secolare di insegnamento – “un dispotismo paterno” o benevolo, come auspicato da John Stuart Mill – prima che potessero maturare, diventare esseri razionali e civili e ottenere la loro libertà.
La prima metà del libro esamina come questa ipocrisia fosse radicata nei fondamenti suprematisti del liberalismo classico, l’idea diffusa che le società “arretrate” sarebbero state trasformate dall’applicazione violenta del libero scambio e dell’educazione religiosa. Come diceva il grido di battaglia di David Livingstone, mentre si faceva strada attraverso giungle lontane con quel fidato machete etichettato “dispotismo paterno”: “Cristianesimo, commercio e civiltà!” In effetti, la ragione principale per cui l’Impero britannico è stato in grado di sostenersi per più di due secoli, sostiene Elkins, è stata che il modello britannico di violenza statale era avvolto in questo “guanto di velluto” di apparente riformismo liberale. Il filo rosso sangue che attraversa tutta questa storia, nella lettura persuasiva di Elkins, è una vena di superiorità moralizzante che ha convinto generazioni successive di politici, da Benjamin Disraeli a Clement Attlee, che alle popolazioni soggette irrequiete doveva essere periodicamente impartita una lezione sulle realtà del potere “civilizzato”. “L’effetto morale della distruzione di massa immediata”, come lo descrive Elkins. Questa “illegalità legalizzata” non era distinta o in opposizione al più ampio progetto dell’imperialismo liberale, ma era intrinseca alla visione riformista delle colonie britanniche. Sebbene l’imperialismo liberale abbia promesso ideali apparentemente virtuosi come libertà, modernità, riformismo e stato di diritto, ha utilizzato liberamente questi ideali, più e più volte, come giustificazioni per scatenare la devastazione sui popoli sottomessi nella sua morsa.
Aggiungete alla sua longevità un’impronta globale senza pari, e la funesta eredità dell’Impero britannico potrebbe essere stata più profonda e più diffusa di quella di qualsiasi altro Stato moderno. L’imperialismo liberale britannico, data l’entità del danno che ha inflitto nel corso delle generazioni, è stato un’influenza più malevola sulla storia mondiale persino del fascismo nazista? È una domanda che il libro di Elkins pone implicitamente. E il suo primo libro, “Imperial Reckoning: The Untold Story of Britain’s Gulag in Kenya” (2005), vincitore del premio Pulitzer, è una lezione sul non screditare troppo rapidamente le sue inferenze mirate. In quel libro, Elkins ha ricostruito la sua indagine su uno dei periodi più cupi della storia coloniale britannica: la soppressione della rivolta degli anni Cinquanta (tra il 1951 e il 1960) di un movimento nazionalista clandestino keniota, i Mau Mau (Kenya Land and Freedom Army), il cui nome divenne in seguito sinonimo di barbarie indigena (le vicende essenziali sono riassunte anche in questo nuovo volume). Elkins, che lavorava negli archivi britannici e kenioti da giovane studiosa, notò delle lacune nella tenuta dei registri di quel periodo che suggerivano che gli inglesi avessero selezionato i fascicoli. Tuttavia, alcuni documenti incriminanti erano sopravvissuti e lei iniziò a raccogliere prove che gli inglesi avevano trattenuto molti più degli ottantamila kenioti che avevano precedentemente riconosciuto e che tra le tattiche usate dall’Impero contro i Mau Mau c’era anche la tortura vera e propria. Così iniziò quella che lei definì un'”odissea” di ricerca, che includeva il lavoro sul campo nelle zone rurali del Kenya (strade piene di buche, Subaru malconce) che alla fine portò alla luce gli strazianti racconti di circa trecento sopravvissuti alla campagna contro i Mau Mau.
In “Imperial Reckoning”, Elkins si è mossa abilmente tra storie orali e d’archivio per descrivere una strategia britannica fatta di detenzione, migrazione forzata, deportazione, percosse, squadre omicide, carestie provocate, torture sistematiche, lavori forzati, stupri e castrazione, progettata per spezzare la resistenza di un popolo, i Kikuyu, che, essendo stati espropriati delle loro terre agricole fertili negli altipiani centrali dai coloni inglesi (che nelle cosiddette White Highlands impiantarono piantagioni di caffè e tè) e poi, durante la seconda guerra mondiale, arruolati per combattere per loro, avevano molte ragioni per resistere (erano stati espulsi nelle città o deportati in “riserve per nativi”). Nel 1957, un governatore coloniale britannico informò i suoi superiori a Londra che “lo shock violento” era l’unico modo per abbattere gli aderenti più intransigenti, giustificando una campagna brutale chiamata “Operazione Progresso” nel corso della quale centinaia di migliaia di Kikuyu furono brutalizzati e torturati. Più di un milione di uomini, donne e bambini furono costretti e reclusi in villaggi circondati da filo spinato e campi di concentramento per la rieducazione in circostanze che il procuratore generale della colonia all’epoca definì “angosciosamente simili alle condizioni della Germania nazista o della Russia comunista”. Quando il libro di Elkins vinse il premio Pulitzer per la saggistica generale, alcuni studiosi sollevarono un sopracciglio; suggerirono che avesse diffamato gli inglesi pubblicando affermazioni infondate. Altri critici misero in dubbio il suo conteggio dei Mau Mau morti e dispersi: fino a trecentomila, disse, con scarsa evidenza. Ma alcuni aspetti della sua argomentazione furono giustificati nel 2011, sei anni dopo la pubblicazione, quando la sua ricerca contribuì a fare la storia. Quell’anno, gli avvocati londinesi che rappresentavano la Kenya Human Rights Commission e chiedevano danni per gli anziani sopravvissuti alla tortura keniota presentarono Elkins come testimone esperto, insieme agli storici britannici David Anderson e Huw Bennett. Durante il processo, il governo britannico fu pressato a spiegare un promemoria che descriveva in dettaglio il ponte aereo di documenti da Nairobi. Dopo decenni di dinieghi, il governo riconobbe lo spostamento di masse di fascicoli fuori dal Kenya al momento dell’indipendenza nel 1963 e, come emerse, da altre trentasei ex colonie. Centinaia di migliaia di fascicoli erano stati nascosti in un deposito di massima sicurezza, a Hanslope Park (vicino a Northampton), che il Foreign Office condivideva con le agenzie di intelligence britanniche. Sono stati così scoperti documenti che hanno confermato aspetti chiave sia del racconto di Elkins che di quello dei sopravvissuti Mau Mau. In un caso di risarcimento storico, a 5.228 keniani brutalizzati durante l’insurrezione sono state assegnate circa 3.800 sterline ciascuno, e il governo del Regno Unito ha pubblicamente riconosciuto di aver utilizzato la tortura per controllare il suo impero.
Al culmine dell’Impero britannico, subito dopo la prima guerra mondiale, un’isola molto più piccola dell’Italia (229.850 kmq contro 302.073 kmq) controllava circa un quarto della popolazione (circa 700 milioni) e della massa terrestre del mondo5. Per gli architetti di questo colosso, il più grande impero della storia, ogni conquista era vista come un risultato morale. La tutela imperiale, spesso impartita attraverso la canna di un fucile, stava liberando i popoli arretrati dagli errori dei loro modi di vivere (matrimoni infantili, immolazione delle vedove, caccia alle teste, proprietà collettiva). Come Elkins documenta, tra gli edificatori di questo impero c’era un figlio di un rettore nato nel Devonshire di nome Henry Hugh Tudor. Hughie, come era conosciuto da Winston Churchill e dai suoi altri amici, spunta spesso nei diversi avamposti coloniali con la responsabilità di un numero di cadaveri spropositato. È compagno di guarnigione di Churchill a Bangalore nel 1895, un periodo di “pasticci e barbarie”, si lamentava il futuro Primo Ministro in una lettera alla madre6. Mentre il secolo volge al termine, Tudor combatte i boeri nel veld sudafricano; poi torna in India e poi nell’Egitto occupato sotto la legge marziale. Dopo aver passato un periodo nelle trincee della prima guerra mondiale, è al comando di una squadra paramilitare – soprannominata Tudor’s Toughs (“i duri di Tudor”), composta da veterani dell’impero, quasi tutti protagonisti di azioni contro gli afrikaner – che apre il fuoco in uno stadio di Dublino nel 1920, un assalto durante una ricerca di assassini dell’IRA che lascia decine di civili morti o feriti. Il primo ministro David Lloyd George si delizia con le voci secondo cui i “duri di Tudor” stavano uccidendo due attivisti repubblicani del Sinn Féin per ogni lealista assassinato. In seguito, persino il capo di stato maggiore dell’esercito si meravigliò della noncuranza con cui gli uomini parlavano di quegli omicidi, contandoli come se fossero punti in una partita di cricket; Tudor e i suoi “duri” erano fuori controllo. Non importava: Churchill, che presto sarebbe diventato Segretario di Stato per le Colonie, sosteneva Tudor.
I sudditi imperiali, naturalmente, a volte trovavano le proprie soluzioni a tali problemi. Un intransigente maresciallo di campo britannico Sir Henry Wilson, in cima alla lista degli obiettivi dell’IRA, fu ucciso a colpi di arma da fuoco a Belgravia nel 1922. Tudor, preoccupato di essere il prossimo, si fece da parte. L’anno seguente, lui e i suoi paramilitari irlandesi stavano propagando le loro tattiche per reprimere gli arabi nel Mandato di Palestina controllato dagli inglesi, avendo Churchill deciso che il violento Tudor era il tipo giusto per addestrare le forze di sicurezza palestinesi.
Il libro di Elkins (come quello precedente) oscilla tra dettagli orribili e contesti storici e tematici. Parte di ciò che racconta è devastante, inclusa la storia di come le arti oscure britanniche della repressione furono distillate nella Palestina tra le due guerre, spingendo il macabro orrore dell’imperialismo liberale a un altro livello. Verso la fine degli anni Trenta, in Palestina era in corso una rivolta, innescata da movimenti populisti radicali che erano sorti nelle città e nei paesi. Gli arabi rurali espropriati si riversarono in queste aree urbane mentre le colonie sioniste si espandevano rapidamente per accogliere i rifugiati ebrei dall’Europa. Per sedare la rivolta, l’apparato di polizia che Tudor aveva contribuito a costruire crebbe fino a venticinquemila uomini, tra cui due divisioni dell’esercito. Elkins, basandosi sul recente lavoro di Laleh Khalili, Georgina Sinclair e altri storici, mostra come le tattiche imperiali convergessero in quella forza combattente. Mentre discuteva della ribellione araba nella Palestina prebellica, Chaim Weizmann rifletteva sull’uso della violenza contro gli arabi, essendo “rincuorato nel sapere che ‘ha prodotto un effetto morale salutare'”. Questa visione è continuata fino alla propaganda odierna riguardante gli eventi a Gaza (con Israele che ha sempre proclamato di avere l’esercito più “morale” del mondo, ora impegnato a ripulire etnicamente Gaza, tramite la rimozione o il genocidio dei palestinesi).
Dall’Irlanda erano arrivate tecniche paramilitari e l’uso di auto blindate; dalla Mesopotamia, l’esperienza dei bombardamenti aerei e nel mitragliamento dei villaggi7; dal Sudafrica, l’uso dei dobermann per seguire e attaccare i sospettati; dall’India, metodi di interrogatorio e l’uso sistematico dell’isolamento; e, dalla frontiera nord-occidentale del Raj, l’uso di scudi umani per bonificare le mine. Come ha ricordato un soldato a proposito dell’impiego di prigionieri arabi, “Se c’erano mine, erano loro a colpirle. Un gioco piuttosto sporco, ma ci divertivamo”. Altre pratiche sembrano essere state sviluppate in casa dagli inglesi in Palestina: incursioni notturne su comunità sospette, sabbia imbevuta di petrolio iniettata nelle gole degli indigeni, gabbie all’aperto per tenere prigionieri i villaggi, demolizioni di massa di case. Mentre perfezionavano tali tattiche sui palestinesi, suggerisce Elkins, gli ufficiali stavano acquisendo competenze che vennero messe a frutto quando vennero in seguito inviati ad Aden (nel sud dell’attuale Yemen), sulla Costa d’Oro, nella Rhodesia Settentrionale, in Kenya e a Cipro. La Palestina era, in breve, il principale laboratorio di repressione coercitiva dell’impero. Con un sorprendente grado di ricorrenza, i subalterni originari dell’Inghilterra, gli scozzesi e soprattutto gli irlandesi, emersero come quadri militari indispensabili e funzionari pratici che si spostavano da un luogo all’altro nel progetto coloniale sempre più globale della Gran Bretagna, man mano che cresceva la portata delle atrocità.
Per legittimare la macchina di controllo in Palestina, gli inglesi rastrellarono di nuovo il loro impero, questa volta per trovare modi per garantire l’impunità legale. I codici di emergenza furono importati dall’Irlanda, per consentire rappresaglie collettive, detenzione e distruzione di proprietà, e dall’India, per autorizzare censura e deportazione. Sebbene gli ufficiali militari auspicassero l’introduzione della legge marziale nel Mandato, il ministro della giustizia e il procuratore generale di Londra respinsero la richiesta. Si preoccupavano del precedente della Corona che cedeva il potere all’esercito e, inoltre, i tribunali palestinesi avrebbero potuto benissimo obiettare che non esisteva uno stato di guerra. Una soluzione più elegante era quella di aumentare il potere dell’esecutivo civile. Un ordine del 1937 gli conferì il diritto di emanare qualsiasi regolamento “che gli sembrasse, a sua illimitata discrezione, necessario o opportuno per garantire la sicurezza pubblica, la difesa della Palestina, il mantenimento dell’ordine pubblico e la soppressione di ammutinamenti, ribellioni e sommosse, e per mantenere rifornimenti e servizi essenziali per la vita della comunità”. Le truppe e la polizia britanniche erano quindi libere di operare “praticamente senza restrizioni o timore di essere perseguite”, scrive Elkins. Proprio come con il repertorio di tortura e repressione, queste guide all’impunità imperiale sarebbero diventate modelli per le campagne future.
I difensori dell’impero come lo storico Niall Ferguson (Empire: How Britain Made the Modern World, 2018) insistono sul fatto che lo stato di diritto si è rivelato il dono più importante della Gran Bretagna alle sue colonie quando, col tempo, hanno ottenuto l’indipendenza. Secondo Elkins, le disposizioni di emergenza che hanno abrogato lo stato di diritto sono state l’eredità vitale. I leader locali insicuri, alcuni scelti a Londra, hanno lottato per governare comunità in cui la politica coloniale aveva acuito le divisioni sociali. Per soffocare l’opposizione politica, si sono prontamente rivolti ai codici di emergenza coloniali e ai trucchi legali. Ad aiutarli a promulgare i modelli c’erano i “Security Liaison Officers”: agenti del servizio di sicurezza britannico MI5, infiltrati nelle ex colonie, che avrebbero guidato i quadri nazionalisti in arrivo nei metodi di raccolta di informazioni, interrogatori e sicurezza interna. I leader ghanesi, poco dopo l’indipendenza del loro paese, nel 1957, copiarono dalle leggi britanniche sulla detenzione preventiva il diritto di detenere i cittadini per cinque anni senza processo. Negli anni Sessanta, i funzionari malesi, basandosi sui modelli britannici, emanarono leggi che consentivano la detenzione indefinita dei sospettati. Negli anni Settanta, i leader indiani usarono i poteri di emergenza coloniali incorporati nella loro costituzione per censurare la stampa, incarcerare l’opposizione politica, bonificare le baraccopoli urbane e persino sterilizzare i loro residenti.
Ma fu nella Palestina post-mandato che l’eredità della violenza imperiale fu più duratura. Gli inglesi si erano assicurati il controllo del territorio facendo promesse diverse a più richiedenti: alle élite arabe fu offerta la prospettiva di un regno o nazione indipendente; ai sionisti, la prospettiva di una patria nazionale (come già promesso con la Dichiarazione Balfour del 1917 che definiva la Palestina “focolare nazionale per il popolo ebraico”); agli alleati europei, la prospettiva di una spartizione. Con la terra promessa tre volte e i suoi popoli giocati l’uno contro l’altro dalle mutevoli politiche britanniche, i cicli di violenza e repressione che si prospettavano erano stati sottoscritti. La potente influenza della lobby sionista sul governo americano ha forzato gli inglesi ad abbandonare gli arabi al loro destino, favorendo l’apertura all’immigrazione di massa ebraica. Non molto tempo dopo che un voto delle Nazioni Unite del 1947 (la Risoluzione 181) divise il Mandato in stati ebraici e arabi, le forze di sicurezza israeliane iniziarono a emulare i metodi britannici, dall’uccisione di civili alla distruzione di interi villaggi. Nel 1952, un’azienda controllata dagli inglesi che estraeva potassa e altri minerali del Mar Morto, passò silenziosamente sotto il controllo del governo israeliano. Nel 1969, quando il Primo Ministro israeliano Golda Meir affermò che “non esistevano i palestinesi”, stava, in un certo senso, affermando la cancellazione del riconoscimento e dei diritti che l’impero britannico aveva messo in moto mezzo secolo prima.
Eppure “Un’eredità di violenza” va oltre il dettaglio delle depravazioni dell’impero; ha una tesi più ampia da avanzare, che riguarda la straordinaria resilienza dell’imperialismo liberale. La prova di questa tesi deve essere la sua capacità di spiegare non solo come l’impero è durato, ma anche come è finito. Ed è qui che il resoconto di Elkins si imbatte in qualche difficoltà nello spiegare le dinamiche storiche. In primo luogo, c’erano critiche all’imperialismo e ai suoi eccessi che provenivano dall’interno della Gran Bretagna stessa. Queste critiche dal cuore imperiale plasmarono la politica, circoscrissero il comportamento e smorzarono l’entusiasmo per il dominio della Gran Bretagna nei contesti coloniali. In secondo luogo, e forse più importante, l’insistenza di Elkins su una teoria della violenza totalizzante minimizza o ignora del tutto il modo in cui i popoli colonizzati usarono la premessa di emancipazione dell’imperialismo liberale (libertà, stato di diritto e altri principi e valori figli dell’Illuminismo) per costringere l’impero britannico a mantenere le sue promesse. È fin troppo facile per Elkins descrivere i popoli colonizzati come poco più che vittime e destinatari passivi della violenza imperiale britannica. Solleva interrogativi su chi siano i veri soggetti del libro di Elkins e porta i lettori a chiedersi: l’impero britannico era qualcosa di più della brutale violenza? Sfortunatamente, i lettori devono cercare la risposta altrove.
Nelle pagine iniziali, afferma che la storia dell’imperialismo liberale è “anche una storia di richieste dal basso”. Un capitolo – intitolato “Una guerra di idee” – è incentrato su C. L. R. James, George Padmore, W.E.B. Du Bois e altri radicali anti-coloniali neri degli anni Trenta e Quaranta (quasi tutti di origine caraibica), che hanno denunciato le ipocrisie della prosa dell’impero e del “capitalismo razziale”, si fecero promotori del progetto di costruzione di un centro mondiale di pensiero anticoloniale che tentò di intrecciare le culture africane tradizionali (tanto nella versione originale che in quella diasporica) alla teoria marxista e agli insegnamenti della Rivoluzione bolscevica russa. Segue anche gli attivisti ciprioti degli anni Cinquanta mentre collaboravano con avvocati greci e il Movement for Colonial Freedom con sede a Londra per portare una campagna britannica di omicidi e torture all’attenzione internazionale. Ma Elkins stabilisce che, in ultima analisi, queste e altre sfide non violente da parte dei sudditi coloniali e dei loro alleati in tutto il mondo “hanno fatto poco per alterare la presa della coercizione sull’impero”.
Per lei, tutti questi sforzi erano destinati a essere impotenti perché è convinta della capacità dell’imperialismo liberale di assorbire e neutralizzare le critiche, cosa che ideologie più rigide e dogmatiche come il Lebensraum nazista non potevano fare. I sudditi coloniali della Gran Bretagna protestarono, furono sollevate questioni in Parlamento, furono commissionate inchieste, furono stampati e archiviati rapporti e, alla fine, le capacità repressive emersero ma in modo molto depotenziato. L’imperialismo liberale, secondo Elkins, era quindi una rete autoriparante e in continua espansione. Quando la sua teoria la mette all’angolo in un resoconto dello sgretolamento finale dell’impero espresso in gran parte in termini di calcoli di alta politica su quando rinunciare al potere e invece cercare di mantenere l’influenza, è come se i fantasmi della storia imperiale che si era prefissata di sconfiggere fossero tornati ad abitare il suo libro.
La storia dell’impero britannico nel XX secolo è anche una storia di ritrattazione forzata. Sfortunatamente, l’abilità forense che Elkins applica agli artigli incarnati dell’impero è meno evidente quando si tratta delle tattiche nazionaliste di ribellione, disobbedienza civile e mobilitazione popolare che, decennio dopo decennio, hanno contribuito a far allentare la loro presa. Come ha osservato Lee Kuan Yew, che ha lavorato per sbarazzarsi degli inglesi a Singapore, un modo per i più deboli di sfidare i più potenti era diventare un gambero velenoso: “loro pungono”. Nel 1930, Mohandas Gandhi lanciò una satyagraha (una resistenza passiva non violenta o civile) con una marcia di venticinque giorni per protestare contro una tassa imposta dal monopolio britannico del sale, un brillante esempio di teatro di contropropaganda che non viene menzionato in questo libro. Sulla scia di quella mobilitazione di massa non violenta, con la stampa internazionale a guardare, gli inglesi erano limitati nella violenza che potevano usare in India.
Come sostiene Elkins, gli approcci gandhiani erano inefficaci perché l’unico linguaggio che l’impero comprendeva veramente era la violenza. Descrive dettagliatamente come sionisti come Menachem Begin e il suo Irgun Tzvai Leumi (Organizzazione militare nazionale), istruiti dai “duri di Tudor” nell’impiego del terrore, usarono attacchi guerriglieri e assassinii per espellere gli inglesi. I popoli colonizzati in Africa e altrove cancellarono la nonviolenza meno rapidamente. Indipendentemente da quanto incrementale o indiretto potesse sembrare il progresso al momento, i costi finanziari o reputazionali dell’impero potevano comunque essere aumentati oltre quanto fosse sostenibile.
Verso la fine degli anni Cinquanta, nel protettorato africano sudorientale del Nyasaland (ora Malawi), il Nyasaland African Congress impiegò tattiche di non cooperazione per protestare contro una federazione istituita dai governanti britannici con la Rhodesia meridionale e settentrionale dominata dai coloni bianchi. Gli inglesi dichiararono lo stato di emergenza e uccisero circa cinquanta africani, atrocità che i sopravvissuti faticarono a portare all’attenzione del mondo. Gli inglesi furono spinti a indagare sulla necessità dello stato di emergenza, il che portò a un rapporto del giudice Patrick Devlin. La lealtà di Elkins alla sua teoria quasi foucaultiana dell’imperialismo liberale, come una rete di potere onnicomprensiva, la porta a minimizzare l’impatto del rapporto. Ma questo non finì per accumulare polvere su uno scaffale. Settimane dopo che il rapporto Devlin aveva accusato il governo coloniale di aver gestito uno “stato di polizia”, i rappresentanti del Ghana hanno citato quella cruda conclusione all’ONU, mentre si raccoglieva l’entusiasmo per una risoluzione storica: un appello formale per la fine del dominio coloniale. Nei cinque anni successivi, gli inglesi si ritirarono da undici colonie, tra cui il Nyasaland.
Sebbene Elkins accenni di tanto in tanto alla varietà e ai “processi caleidoscopici” dell’impero, la sua ricerca di una teoria unificante la porta a scivolare su distinzioni significative nella governance di territori coloniali estremamente diversi, alcuni porti affollati, alcuni entroterra radi, alcuni con popolazioni di coloni, alcuni possedimenti acquisiti nel XVIII secolo e altri nel XX. Postula la presenza di uno “stato coloniale”, esecutore dell’ordine e dispensatore di violenza nelle varie giurisdizioni dell’impero, e tuttavia la capacità di impartire e controllare la violenza era tutt’altro che uniforme. Verso la fine degli anni Trenta, mentre era in corso la rivolta araba nel Mandato (con la richiesta della fine dell’immigrazione ebraica e della vendita delle terre agli ebrei immigrati, dell’abrogazione della Dichiarazione Balfour e della piena indipendenza), i lavoratori delle piantagioni e delle fabbriche si sollevarono in Giamaica, le cui banane e zucchero avevano un valore immediato persino maggiore della potassa della Palestina. Inizialmente, fedeli alla forma, gli inglesi uccisero i resistenti, ma quando le proteste si intensificarono l’impero non scatenò i dobermann e non represse i lavoratori. Invece, la Gran Bretagna iniziò a fare delle concessioni. Sei anni dopo, i giamaicani avevano ottenuto il suffragio universale, diventando una delle prime colonie britanniche ad essere completamente emancipate. Tudor era un volto dell’imperialismo liberale; ce ne erano anche altri, come quello che proponeva una partnership con i popoli colonizzati allo scopo di risolvere le disuguaglianze sociali ed economiche.
Quando Elkins considera il caso di Aden, che lei identifica come il punto finale del grande arco di violenza imperiale post-1945, sembra aver perso l’energia per inserire un’altra colonia nel suo apparato ideologico che vaporizza le sfumature: la città portuale, con il suo secolo di colonizzazione e il suo rovesciamento finale, viene liquidata in un singolo paragrafo. Forse teorie di potere imperiale così grandiose non hanno bisogno di scendere al caso specifico?
Proprio come la natura del governo coloniale variava nel tempo e nello spazio, così faceva il liberalismo, la cui “perfidia” è tanto una bestia nera del libro di Elkins quanto lo è l’impero. Ceppi di liberalismo abbracciarono o accolsero paternalismo, razzismo e autoritarismo, contribuendo a fornire una copertura intellettuale per una crudeltà inimmaginabile. Tuttavia, le filosofie liberali elaborarono anche idee di autonomia, individualità e autogoverno collettivo che, a loro volta, seminarono principi di legittimità che i pensatori e gli attivisti anticoloniali arruolarono per la loro causa. In mezzo alla condiscendenza coloniale sull’adeguatezza della civiltà dei loro popoli, cercarono di insegnare alle loro controparti liberali occidentali a immaginare la politica in termini genuinamente universalisti.
Nel libro di Elkins, tuttavia, i contributi di intellettuali come Rabindranath Tagore e William Butler Yeats, severi critici dell’impero, sono notevoli solo come “racconti di sofferenza e resilienza”, proprio come Ngũũgĩĩ wa Thiong’o e Josiah Mwangi Kariuki sono apprezzati per i loro “racconti di prima mano di sofferenza”. Le presunzioni radicate possono essere difficili da scrollarsi di dosso anche per gli storici autodefinitisi “revisionisti” dell’impero, e una di queste presunzioni riguarda la divisione del lavoro intellettuale. Il giudizio su quali idee e azioni abbiano contato nella creazione della storia è considerato prerogativa dello storico professionista, solitamente occidentale. Il compito principale dei sudditi coloniali, per questi storici, è di aver reso testimonianza: il loro compito, nel racconto di Elkins, è quello di scrivere “strazianti accuse” che lascino “una scia di prove” che lei e i suoi colleghi possano seguire.
Verso la fine di “Un’eredità di violenza”, Elkins rivisita la campagna per rendere giustizia alle vittime dei Mau Mau nei tribunali di Londra, descrivendo un momento culminante in cui, dopo il suo lavoro negli altipiani del Kenya per recuperare le storie dei sopravvissuti, ha contribuito a esporre al mondo “il ventre molle dell’imperialismo liberale”. Per sottolineare ciò che stava affrontando in quello sforzo di recupero, invoca una frase del primo leader del Kenya, Jomo Kenyatta: “Accordiamoci sul fatto che non faremo mai riferimento al passato”. Curiosamente, però, non riesce a riconoscere che, poco dopo che quelle parole furono pronunciate, funzionari governativi e cittadini privati in Kenya intrapresero uno sforzo decennale per superare l’ostruzionismo britannico e ricostruire la storia coloniale del paese. Ricordare non era solo un “fardello dell’uomo bianco”. Anche i veterani e gli ex detenuti Mau Mau stavano ricomponendo il loro passato, irritati per essere stati considerati semplici spettatori di come la loro storia era stata plasmata. Sebbene il movimento fosse stato a lungo bandito dal governo, uno studio dello storico Wunyabari O. Maloba notò che, a metà degli anni Ottanta, gli ex membri stavano raccogliendo prove per contrastare le narrazioni prodotte dagli studiosi. Ben presto, ci furono quasi duecento gruppi di storici laici. Ad assisterli c’erano ex ufficiali coloniali britannici rinnegati come John Nottingham, che aveva sposato la sorella di un generale Mau Mau, aveva aiutato Kariuki a scrivere le sue memorie e aveva lavorato per mettere in contatto gli attivisti del movimento con storici professionisti, incluso Elkins.
Un salutare precetto metodologico di Elkins è che, poiché non ci si può fidare dei documenti ufficiali, le fonti storiche devono essere ampie e approfondite. Quindi si rimane sorpresi nel vedere una studiosa così accorta minimizzare ripetutamente l’impatto dei pensatori e degli attori anticoloniali. Come gli storici a cui si ispira, Elkins ha aggiunto una dimensione importante alla nostra comprensione ancora parziale del sadismo e dell’ipocrisia dell’impero britannico, unendosi ai romanzieri e ai drammaturghi che, come dice lei, hanno ricordato al mondo “che narrazioni alternative giacciono sepolte sotto le macerie del potere”. Eppure le teorie eccessivamente semplificate sono esse stesse inclini a seppellire altre storie. La sgradevole verità è che il pensiero liberale è stato una risorsa sia per la repressione che per la resistenza, e le teorie del potere imperiale che non sopportano questa ambiguità potrebbero non reggere l’esame che meritano.
Dopo la seconda guerra mondiale, la creazione dell’ONU e la stesura della Dichiarazione dei diritti umani, ma soprattutto l’indebolimento dell'”area della sterlina”8 e il rafforzamento dell’impero finanziario (dollaro) e militare degli Stati Uniti, la Gran Bretagna fu costretta a chiudere il suo impero nel giro di alcuni decenni, facendo allo stesso tempo del suo meglio per mantenere un potere di qualche tipo attraverso il suo Commonwealth delle nazioni, che comprendeva in modo più potente gli stati coloniali di Canada, Australia e Nuova Zelanda.
Con l’avvento della Guerra Fredda e i timori del comunismo, il mantenimento dell’area della sterlina richiedeva il sostegno degli Stati Uniti, poiché “gli americani dovevano procedere con cautela sui progetti imperiali per non inimicarsi i loro tanto necessari partner della NATO restando fermi contro i sovietici”9. Un manuale britannico di contro-insurrezione del 1966, mirato alle insurrezioni comuniste (“Defeating communist insurgency”), “includeva la necessità di aderire allo stato di diritto e di conquistare i cuori e le menti della popolazione civile” (pag. 739). Come afferma Elkins, rifacendosi alla Malesia (dove l’impero britannico era impegnato nel contrastare la potenziale diffusione del comunismo che avveniva attraverso le comunità di immigrati cinesi10), “emerse come un punto di riferimento per ogni azione anti-insurrezionale di successo, tanto da influenzare la dottrina americana del generale Petraeus in Iraq e plasmare fino ai giorni nostri le operazioni anti-insurrezionali dell’Occidente” (pag. 739), a cominciare da quelle utilizzate dagli statunitensi nella guerra in Vietnam.
La tattica “cuori e menti”, insieme allo stato di diritto, sono essenzialmente termini propagandistici che nascondono l’espulsione forzata e il reinsediamento delle popolazioni indigene, accompagnati da torture ed esecuzioni più nascoste. L’ eredità di violenza dell’impero britannico si è trasformata in un dominio anglo-americano di violenza, con la violenza e le regole che derivano principalmente dagli Stati Uniti e da quello che è stato definito come “metodo Giacarta”11. Per cui l’impero britannico sopravvive, assorbito dal potere militare-industriale-finanziario degli Stati Uniti (con le sue circa 800 basi militari in giro per il mondo), e la sua presenza è evidente in molte regioni del mondo ancora in fiamme, dove le popolazioni indigene stanno tentando di superare l’eredità della violenza perpetrata dall’ex potenza britannica e dall’attuale potenza imperiale statunitense. Elkins discute anche del “nuovo imperialismo liberale” come pubblicizzato e sostenuto da Tony Blair per giustificare la guerra in Iraq nel 2003. Su basi storiche, mette in guardia sulle implicazioni di questo “sforzo anglo-americano” inteso a modernizzare i paesi che sono ancora “incapaci di reggersi in piedi da soli”.
Al tempo stesso, l’eredità imperiale di violenza della Gran Bretagna ha lasciato delle scappatoie ai regimi post-indipendenti per attuare violenze coercitive di ogni tipo all’interno dei loro stessi paesi, paesi spesso divisi da etnie precedentemente manipolate nel bene e nel male dai governatori britannici e dai loro alleati (le élite locali – principi, pascià, capi o capitribù – cooptate a vari livelli dell’apparato burocratico coloniale attraverso un sistema detto “governo indiretto”). Gli inglesi hanno lasciato la loro cultura, le infrastrutture, il codice di abbigliamento, la lingua e il sistema educativo: in Kenya persino il primo esercito post-indipendenza era ancora guidato da ufficiali britannici. Come l’Impero, gli stati postcoloniali continuano a invocare le vecchie leggi o ne hanno create di nuove per usare la “violenza legittima” per proteggere la loro sovranità. Ex colonie come Pakistan e India hanno alcune disposizioni nelle loro Costituzioni che danno allo Stato il potere di imporre un’emergenza o di procedere alla detenzione amministrativa dei loro cittadini. La detenzione da parte dei governi di cittadini che oppongono resistenza, le sparizioni forzate, la brutalità della polizia, le uccisioni extragiudiziali e le tattiche di dividi et impera sono ancora vive e vegete in molti dei paesi dell’ex impero britannico.
Alessandro Scassellati
- Quando la History of England di Macaulay fu pubblicata nel 1848, gli inglesi avevano preso con la violenza quasi due terzi dell’India e controllato colonie di coloni recentemente acquisite in Sudafrica, Australia e Nuova Zelanda. C’era poco che apparisse benedetto nel dominio britannico. Assente nei resoconti di Macaulay e dei suoi pari era anche la maggior parte della storia della tratta transatlantica degli schiavi e, in particolare, il ruolo britannico in essa. A partire dalla metà del XVII secolo, la Gran Bretagna era diventata leader nel brutale commercio di africani, prima in luoghi come la piccola Barbados negli anni ’40 del Seicento e poi su scala molto più ampia in Giamaica e in tutte le Indie Occidentali. Solo nel 1838 gli inglesi abolirono la schiavitù nella maggior parte dell’impero (con una legge del 1833), un seguito tardivo allo Slave Trade Act del 1807, che mise fuori legge il commercio di schiavi. Ma invece di testimoniare questo orrore, Macaulay e i suoi colleghi abbracciarono quelli che divennero i punti di contatto della cosiddetta scuola di storia Whig, che associava il liberalismo e l’impero britannici al progresso e ne ignorava la violenza e l’espropriazione.[↩]
- Gli effetti furono devastanti. Circa un sesto della popolazione boera, per lo più donne e bambini, fu radunata e internata nei campi di concentramento. Soffrivano di condizioni igieniche precarie, razioni di cibo insufficienti e grave sovraffollamento. I campi divennero focolai di malattie. Alla fine, quasi 28.000 boeri morirono nei campi di concentramento britannici; circa 22.000 di loro erano bambini. Gli inglesi non riuscirono a tenere traccia dei circa 20.000 neri africani che morirono nei campi.[↩]
- La carestia del Bengala del 1943 fu una delle tragedie più devastanti del XX secolo, che causò circa tre milioni di morti evitabili. All’epoca, la Gran Bretagna attribuì le conseguenze della carestia alle condizioni meteorologiche avverse e alla carenza di cibo, descrivendo la tragedia come un disastro naturale inevitabile. Tuttavia, in realtà, quella che si avvicinava alla carestia di massa non fu un atto della natura; fu progettata. Mentre il Bengala lottava contro la carestia nel 1942, Winston Churchill decise di requisire ed esportare migliaia di tonnellate di grano per sostenere una carestia parallela in Grecia e lo sforzo bellico britannico. Inoltre, all’India fu proibito di usare le proprie riserve di sterline per procurarsi cibo per la sua popolazione affamata. Churchill, che personalmente odiava gli indiani, affermò in sua difesa che la carestia era colpa loro per “essersi riprodotti come conigli“. Le cause sottostanti la carestia del Bengala non furono quindi la siccità, ma le decisioni politiche del governo britannico.[↩]
- Sebbene il libro riguardi i crimini dell’impero britannico, l’attenzione principale non è rivolta all’estrazione economica delle colonie. Elkins riconosce che l’estrazione economica è “una pietra angolare di ogni storia dell’impero britannico”, ma chiarisce da subito che questo non è il focus del suo studio. L’economista Utsa Patnaik, che ha conseguito il dottorato a Oxford, ha stimato che nel corso di 200 anni gli inglesi hanno sottratto all’India una cifra pari a circa 45 trilioni di dollari. L’economia indiana rappresentava circa il 25% del PIL mondiale nel XVIII secolo e poi circa il 3% quando gli inglesi se ne andarono nel 1947.[↩]
- All’indomani della prima guerra mondiale, l’impero britannico aveva raddoppiato la propria presenza nel mondo. Assumendo la responsabilità amministrativa dei mandati che la Società delle Nazioni aveva previsto per Tanganica, Palestina, Mesopotamia (diventata poi Iraq), parti delle Samoa, Camerun e Togoland, l’impero britannico raggiunse infatti la sua massima estensione. L’articolo 22 del Patto della Società delle Nazioni parlava di “colonie e territori che in seguito all’ultima guerra hanno cessato di trovarsi sotto la sovranità degli Stati che prima li governavano, e che sono abitati da popoli non ancora in grado di reggersi da sé , nelle difficile condizioni del mondo moderno”. Partendo da questo principio, la Società delle Nazioni creò un sistema che classificava gli ex territori tedeschi e ottomani in base al livello percepito di civiltà e capacità di autogoverno. Veniva dunque messa in pratica a livello internazionale la codifica burocratica delle differenze razziali e culturali tipiche dell’impero britannico. Palestina, Siria e Iraq erano inclusi nel mandato di classe A (paesi maggiormente in grado di “reggersi da sé”); Tanganica e Togoland nel mandato di classe B; le Samoa occidentali e l’Africa sudoccidentale nel mandato di classe C, considerati dagli europei così arretrati e infantili che ogni forma di autogoverno veniva procrastinata in un futuro molto lontano.[↩]
- Nel settembre del 1897, il ventitreenne Winston Churchill, allora soldato dell’esercito britannico in India, prese parte a un raid punitivo per sedare le tribù ribelli nella valle di Mamund, nella provincia della frontiera nord-occidentale dell’India. La risposta britannica ai Pathan che combattevano per le loro terre, come riportato da Churchill, fu: “Abbiamo proceduto sistematicamente, villaggio per villaggio, e abbiamo distrutto le case, riempito i pozzi, abbattuto le torri, tagliato i grandi alberi ombrosi, bruciato i raccolti e rotto i serbatoi in una devastazione punitiva”.[↩]
- L’insurrezione in Iraq inaugurò nuove tecniche di contro-insurrezione, ovvero un nuovo livello di terrorismo. Arthur “Bomber” Harris ne fu l’eroe. Dal 1920 Harris mide a punto una tecnica di bombardamento aereo indiscriminato che colpiva sistematicamente i villaggi isolati, più o meno indicati come “ribelli” dalla nascente intelligence imperiale. Si tratta della tattica della “violenza e terrore” dal cielo, come la chiamò Churchill. Attacchi continui, giorno e notte, con dardi aerei, gas, bombe al fosforo, razzi, bombe ritardate, semplici granate, e greggio per contaminare l’acqua. Durante la seconda guerra mondiale, Harris divenne il comandante in capo del Bomber Command della RAF ed ebbe un ruolo cruciale nella gestione della compagna di bombardamenti a tappeto delle città tedesche (Amburgo, Kassel, Dresda).[↩]
- Uno dei motivi per cui i britannici si aggrapparono così tenacemente alla Malesia nel dopoguerra fu che la produzione di stagno e gomma della colonia portava dollari, la valuta internazionale che sostituì la sterlina. Anche il Ghana (Costa d’Oro) è stato una delle principali fonti di sostentamento finanziario per Londra subito dopo la seconda guerra mondiale.[↩]
- Gli Stati Uniti sono passati dal combattere per la propria libertà dalla Gran Bretagna (1776), che combatterono di nuovo nella guerra del 1812, e tuttavia alla fine i due paesi sono diventati alleati estremamente stretti dalla seconda guerra mondiale. Roosevelt era un sostenitore delle “quattro libertà essenziali” (di parola ed espressione, di religione, dal bisogno e dalla paura), della Carta Atlantica e della supremazia dei diritti umani ovunque, ed era anche dogmatico nel voler smantellare l’impero britannico dopo la seconda guerra mondiale, appoggiando l’autodeterminazione dei popoli. Ma, poi con Truman accadde il contrario. In parte, questo avvenne perché gli Stati Uniti avevano bisogno della Gran Bretagna nella nascente Guerra Fredda. L’anticomunismo ebbe la meglio sull’antimperialismo. E così alla fine, vediamo gli Stati Uniti non solo permettere alla Gran Bretagna (e alla Francia) di mantenere buona parte del suo impero (chiudendo un occhio sulla violenza che accadeva), ma in realtà cooptarla e farla compartecipe del ruolo di “gendarme del mondo”. Ad esempio, nella Guyana britannica (produttrice di zucchero e bauxite) la Gran Bretagna ha fondamentalmente fatto il lavoro sporco per gli americani, mettendo fine con un intervento militare al governo di Cheddi Jagan nel 1953. L’alleanza venne messa a dura prova dallo stop di Eisenhower all’intervento militare anglo-francese in Egitto teso a bloccare la nazionalizzazione del Canale di Suez da parte di Gamal Abd el-Nasser nel 1956.[↩]
- La popolazione cinese, che era cresciuta in Malesia dall’inizio del secolo, fu dichiarata “aliena” dagli inglesi, che poi la rimossero con la forza dai loro villaggi, bruciando le capanne e salando i terreni agricoli per impedirne il ritorno. Le vittime di questo processo extragiudiziale furono reinsediate in nuove aree, circondate da recinti di filo spinato e tenute sotto stretta sorveglianza. Questa campagna di reinsediamento divenne quella che Elkins chiama “la più grande migrazione forzata dell’Impero britannico dall’era del commercio di schiavi”, con “573.000 persone, quasi il 90% delle quali erano cinesi […] trasferite in 480 reinsediamenti” (pag. 593). A questo fine, la Gran Bretagna inviò in Malesia ufficiali coloniali che avevano appena supervisionato la brutale repressione in Palestina, per soffocare la resistenza al suo dominio.[↩]
- Si veda Vincent Bevins, Il metodo Giacarta. La crociata anticomunista di Washington e il programma di omicidi di massa che hanno plasmato il nostro mondo, Einaudi, Torino 2021.[↩]