C’è un’idea, che cerca di tradursi in vero e proprio impianto ideologico fondativo, che sta attraversando tutta l’Europa e che si esprime ai massimi livelli in paesi culturalmente e politicamente oggi fragili come l’Italia. Ai valori della destra dichiarata, che si richiamano ad un nazionalismo esasperato, ad un culto della “patria bianca e cattolica”, fa da contraltare il pensiero rabberciato di un sedicente mondo progressista e democratico che ha trovato un suo apogeo nella Piazza del Popolo del 15 marzo scorso, che poneva al centro del proprio esistere l’idea di Europa. Ma quale Europa? Non certo quella di Ventotene e nemmeno quella che, negli anni della decolonizzazione, della scoperta di una produzione culturale e politica diffusa e plurale, si apriva al mondo e si interrogava. L’Europa della guerra si fa “nazione” e ribadisce in maniera ignorante, arrogante e suprematista, la propria centralità presente, passata e futura. Poco importa se nel presente l’UE è frammentata e divisa e se nel futuro è destinata ad essere un continente vecchio, probabilmente in via di estinzione, l’importante è affermare che tutto quanto c’è di migliore sul pianeta sia considerato merito e quindi ad esclusivo appannaggio di questa misera porzione di mondo. Inutile analizzare le contraddizioni dei personaggi che si sono alternati sul palco della piazza romana, addobbata di bandiere UE, (perché Unione ed Europa sono considerati sinonimi anche nei confini), questo è quanto la cultura mainstream e di mercato impone oggi come unica, conformista, proposta e i protagonisti non meritano neanche di essere citati. Ma una riflessione è urgente e necessaria, da sinistra, per affrontare il nodo non risolto di una battaglia delle idee che in tali ambiti non ha né spazio né diritto di cittadinanza. E si prova a partire da una concezione rattrappita della storia, imbottita di eurocentrismo in salsa bellica, secondo cui arte, cultura, sono esclusivo patrimonio “nostro”, il resto del mondo non avrebbe, in base a tale concezione, prodotto mai nulla di rilevante. Un principio sconcertante che fa tabula rasa di civiltà millenarie, con cui abbiamo relazioni di ogni tipo ma che si prova a considerare da questo punto di vista subalterne e soprattutto incompatibili. Si prova a dimenticare il fatto che le prime tracce di scrittura giungono dal mondo sumero. E ovviamente si rimuove il fatto che il primo testo scritto di cui si ha notizia risalga al 2880 AC ad opera di Ptahhotep, visir di un faraone della V dinastia. Le cifre con cui facciamo oggi di conto, i metodi utilizzati per i complessi calcoli che regolano la nostra vita, sono arabe al punto che lo stesso termine “algebra” (unione o completamento), utilizzato dal matematico persiano Muḥammad ibn Mūsā al-Khwārizmī, risalgono a circa 1300 anni fa. I suoi studi affondano le radici nella storia millenaria dell’Antico Egitto e delle civiltà mesopotamiche, ma questo sembra, è il caso di dirlo, non contare nulla.
Un razzismo di fondo che ha radici nella storia europea, ma che sembrava essere stato affrontato nei decenni passati, almeno da una parte del mondo culturale e artistico più aperto, sembra essere stato rimosso con un colpo di spugna. Si cerca di re-imporre, sempre secondo una logica di dominio, l’idea che il pianeta non sia mai stato plurale, che i paesi esistenti fuori dai confini della nostra fortezza, non abbiano radici in civiltà millenarie, si pensi a Cina, Giappone, Subcontinente indiano, si cerchi almeno di conoscere quanto accaduto nell’America precolombiana o nel continente africano prima delle invasioni europee e tanto altro ancora. Invece prevale uno sguardo miope, ipocrita e patetico, utile unicamente a lasciare l’illusione che ancora oggi possa avere un futuro un continente che ha vissuto per secoli sulla depredazione e i genocidi. Recentemente è stato pubblicato per “Asino d’oro”, un gran bel libro di ricerca interdisciplinare sulle radici del razzismo, dal titolo “Esseri umani uguali”- Nel volume si alternano spunti di ricerca in merito alle diverse forme di razzismo italiano, partendo da approcci fra loro, solo apparentemente, distanti (medicina, filosofia, attualità politica) intervallati da interviste a personalità del mondo intellettuale che hanno subito o subiscono ancora, forme di discriminazione fondate sul colore della pelle. Il testo, molto puntuale e frutto dell’interconnessione fra diversi autori e autrici, a loro volta provenienti da esperienze diverse, tocca un punto, ad avviso di chi scrive, nodale, nel capitolo inerente alla filosofia. Ci si interroga sulla nascita del razzismo (si pensi alla definizione dei popoli “barbari, in cui peraltro rientravano buona parte di quelli europei) per giungere all’illuminismo di Voltaire fino ad incontrare padri del pensiero filosofico moderno come Hegel e Kant. La filosofia di quel periodo – e poco è cambiato nel secolo successivo – è coeva all’epoca delle esplorazioni, soprattutto in Africa, che immediatamente si traducevano in espansione coloniale, nella tratta degli schiavi, nell’accaparramento delle risorse. Gli imperi sorti su tali rapine si fondarono sulla presunzione che, nei filosofi citati già trova compiutezza, secondo cui le popolazioni con cui si veniva a contatto non avevano storia, non erano composte da veri e propri esseri umani, andavano civilizzati, costretti alla religione dominante (quella cristiana con le sue varianti), comunque appartenevano ad un’altra specie – si utilizzava la parola “razze “da considerare inferiori, al massimo adatte a lavori di fatica e su cui esercitare il comando dell’uomo bianco. Nelle elucubrazioni di chi non entrò poi mai fisicamente nel “Cuore di tenebra” di Conrad, si passò dalla costruzione del mito del “buon selvaggio” di Rousseau, non contaminato dal peccato originale, ad una demonizzazione di persone considerate prive di freni inibitori, pigri, indolenti, da educare, magari con la frusta, come eterni bambini. L’espansione coloniale permise di estendere tale concezione su gran parte del pianeta che venne considerato semplicemente non solo inferiore ma senza storia. Non bastarono le scoperte scientifiche, architettoniche, astronomiche, prodotte nell’America precolombiana né tantomeno l’incontro con realtà complesse in termini di cosmogonia e di visione del mondo come quelle dell’India eccetera.
Molto più tardi e anche grazie all’esplosione dei grandi movimenti di decolonizzazione, si dovette fare i conti con l’ampiezza straordinaria di chi aveva percorso strade simili a quelle europee, con qualche migliaio di anni di anticipo. E se il Ramayana, primo poema redatto in sanscrito di cui si rintraccia l’autore, Vālmīki, risale probabilmente al II secolo AC, gli scritti di Confucio, in Cina al 770 AC, quasi in contemporanea alla leggendaria nascita di Roma. Sono ignoti gli autori de Il libro dei morti, raccolta di formule elaborata intorno al 1550 AC. Questi esempi non vogliono servire a stabilire primazie, quanto a far digerire a coloro che celebrano l’Europa come alfa e omega di tutto, che la letteratura, come ogni altra forma di espressione umana, ha origini poligenetiche e si è sviluppata in base a contesti diversi. E così le forme di organizzazione politica, chi era in Piazza del Popolo ignora o ha dimenticato che l’Impero del Mali, nell’Africa Occidentale, ha origini nel nostro Medioevo XIII secolo, e raggiunse, prima dell’arrivo degli europei, una popolazione di quasi 50 milioni di persone. Ancor prima, nell’VIII secolo AC in quella che i romani denominavano poi Nubia, nacque un regno, D’mt, da cui trae origine l’attuale Etiopia. Questo mentre il “celeste impero” della Cina nasceva nel III secolo AC, tardi se confrontata con la Civiltà della valle dell’Indo, 3000 anni AC, in parallelo con il mondo mesopotamico e in piena età del bronzo. E perché ignorare gli olmechi che costituirono, nell’area mesoamericana, odierno Messico, una delle prime civiltà pre-colonizzazione, fra il 1400 e il 400 a.c.? Ancora va ripetuto, non si tratta di assegnare quanto di togliere primati ed abolire gerarchie atte a motivare ogni forma di oppressione e discriminazione. Se la piazza dell’Europa si forma sul principio di essere fondante del pianeta, dimostra un’arretratezza e uno spirito neocoloniale e profondamente razzista mai superato. E va notato come nelle performance in cui si sono esibiti i rappresentanti di questa “Europa Make Again”, siano spariti gli immensi romanzieri russi che è assurdo non ascrivere anche al patrimonio culturale collettivo. La logica di guerra e di costruzione del nemico porta addirittura a dimenticare coloro che fino a pochi anni fa erano importanti partner, passi per i paesi nordafricani che si affacciano sul Mediterraneo, abbandonati al loro destino e considerati estranei da almeno 60 anni, ma se anche Cechov, Dostoevskij e Tolstoj, devono sparire dall’orizzonte, tutto diviene più ridicolo. Come se durante la Seconda guerra mondiale tutte le potenze alleate avessero deciso, di comune accordo, di bandire Dante, Petrarca o Mann. Quello che da alcune voci di quella piazza, le più autocentrate, è messo da parte, attiene anche al non rendersi conto che già da decenni, ma ancor più oggi, il processo iniziato con la conquista – non scoperta – delle Americhe e a seguire con la spartizione del pianeta, è irrimediabilmente finito ed oggi l’UE, anche militarmente ed economicamente, è una forza fra le altre, in cui si concentrano ancora le ricchezze del mondo ma che non ha alcuna reale spinta propulsiva.
Ma, da ultimo, siamo convinti veramente che tale approccio costituisca una dimostrazione di inadeguatezza che attiene unicamente all’Europa guerrafondaia di destra o liberal progressista? Se mi si permette un punto di vista individuale, nutro seri dubbi. Anche nella nostra sinistra internazionalista e contraria alle guerre, permangono elementi, dovuti certamente anche alla scarsa conoscenza ed a una micidiale depoliticizzazione del Paese che avviene in contemporanea con una sua profonda mutazione in senso pluriculturale della società. Dietro ai tanti “nuovi visi” che incontriamo, spesso ci sono millenni di storia e formidabili esperienze politiche, artistiche, letterarie, musicali, frutto di cosmogonie composite di cui ignoriamo completamente l’esistenza. Da decenni è giunto il tempo, mai completamente affrontato, di una decolonizzazione della nostra cultura, della presa d’atto che questa costituisce una forma sociale aggregante ma non l’unica, che la sola soluzione è nel riconoscerne in maniera paritaria, evitando, ovviamente ogni relativismo, le altre esperienze in circolazione. Decolonizzare non è unicamente riconoscere i crimini commessi dai propri passati governanti quanto, soprattutto, guardare al presente e al futuro con occhi radicalmente diversi. Magari pronti a scorgere nell’intuizione politica, economica, artistica, ecologista, femminista, che arriva da diversi angoli del pianeta, una chiave per comprendere se stessi e per affrontare il futuro non in solitudine ma nella complessità, con l’intenzione di cambiare il mondo, non in nome di una “civiltà” ma in quello di un’alternativa prospettiva per tutte e tutti.
Stefano Galieni