di Stefano Galieni – Il 15 febbraio prossimo, in tutta Europa – a Roma manifestazione nazionale a partire dalle ore 14.00 – si manifesterà per la liberazione del Presidente Abdullah Ocalan, fondatore del PKK (Partito dei Lavoratori Kurdi) e forse uno dei massimi pensatori politici del secolo in cui stiamo vivendo. La vicenda del suo arresto e della sua carcerazione che dura ormai da 21 anni resta una macchia indelebile tanto del diritto internazionale quanto del governo italiano, allora guidato da Massimo D’Alema. Nel novembre 1998 Ocalan, vedendo a rischio estremo la sua vita era venuto in Italia e si era consegnato nelle mani della polizia chiedendo asilo politico. Per alcune settimane rimase nell’ospedale militare del Celio a Roma mentre la piazza antistante, ribattezzata “Piazza Kurdistan” si riempiva di rifugiati provenienti da tutta Europa e da attivisti contrari al regime turco. Ma la realpolitik ebbe la meglio, il timore delle aziende italiane che avevano aperte commesse enormi col regime di Ankara, le pressioni tedesche e statunitensi, convinsero l’Italia a disfarsi di una presenza così scomoda. Ocalan non poteva essere rimpatriato in Turchia dove vigeva la pena capitale a cui Ocalan sarebbe stato certamente condannato e venne mandato a Nairobi. All’aeroporto lo attendevano le forze di sicurezza turche che lo sequestrarono e lo riportarono in Turchia. Da allora, era il 15 febbraio 1999, Abdullah Ocalan è sepolto vivo nel carcere di Imrali, un’isola nei pressi delle coste turche, ha difficoltà ad incontrare parenti e legali, ha avuto gravi problemi di salute ma resta prigioniero del regime. È condannato all’ergastolo (la pena di morte è stata abolita) e nel frattempo, dopo i numerosi ricorsi avrebbe ottenuto il diritto d’asilo in Italia, un’ennesima beffa. Il PKK negli anni e sotto la sua guida dal carcere è profondamente cambiato. Ha rinunciato più volte alla lotta armata nonostante continui a subire repressioni pesanti e sia ancora inserito nella black list delle “organizzazioni terroristiche”. Non rivendica l’indipendenza di uno stato curdo ma, grazie anche alle elaborazioni prodotte in carcere e portate fuori attraverso libri che sono divenuti elemento di riflessione propositiva per una parte consistente della sinistra mondiale, propugna la creazione di un “Confederalismo democratico”, una convivenza fra minoranze che debbono poter vivere rispettate e rispettando le altre. La Turchia, come gli altri paesi dell’area sono un crogiuolo storicamente di migrazioni, presenze che si sono stratificate di comunità diverse per religione, provenienza, cultura, modalità di concepire la gestione della cosa pubblica. Il modello proposto, sotto la guerra, dal pensiero di Ocalan è fortemente influenzato dalla necessità di rispettare la partecipazione di tutte e tutti alla vita pubblica, dal piccolo territorio allo Stato, superando confini imposti anche da antiche divisioni. La stessa co-gestione di ogni carica rispettando la parità di genere è una lezione che non investe soltanto il Medio Oriente ma parla alla “civile Europa” e al resto del pianeta in cui prevalgono ancora forme diversificate di patriarcato e di dominio, in cui la politica resta ancora in gran parte ad appannaggio degli uomini. Il messaggio eversivo di cui il pensiero di Ocalan è portatore e che a sua volta si fonda su una attenta interpretazione dei maestri del socialismo non ultimo Antonio Gramsci, spaventa tanto le petrodittature del mondo arabo, quanto le potenze regionali fondate su una gestione verticale e autoritaria del potere, quanto e soprattutto le democrazie in crisi in Occidente. Forse anche per questo la sua detenzione sembra non poter terminare. Anche per questo continua l’accanimento, delle diverse potenze regionali e mondiali contro chi di fatto prova a maturare esperienze di autogoverno. L’invasione turca del Rojava e di altri cantoni della Siria del Nord, dove queste esperienze avevano consentito di combattere e di vincere militarmente e culturalmente le milizie dell’Isis, è un messaggio chiaro e netto. Meglio correre il rischio di attentatori che alimentano lo scontro fra mondi che la nascita di forme di insurgenza capaci di contaminare e di divenire esempio di alternativa al pensiero unico dominante, al neoliberismo che governa il pianeta. Lascia interdetti scoprire come in un contesto di guerra, fra le forze che hanno condotto questa incredibile esperienza di liberazione e di emancipazione popolare tradottasi nell’applicazione del Confederalismo democratico, si sia trovato il tempo e il modo per affrontare i temi dell’ambiente e del rapporto con la terra, della gestione dei rapporti nelle famiglie per superare il patriarcato, nell’immaginarsi come uno spazio che rifiuta ogni forma di sovranismo e di nazionalismo. Un messaggio che non infastidisce solo il dittatore turco Erdogan ma che nuoce a una parte consistente dei dominanti e che quindi va abbattuto, cacciando le milizie curde in Siria, arrestando oppositori, intellettuali, giornalisti, parlamentari, attiviste e attivisti, tenendo il Presidente Ocalan chiuso nella sua prigione. Essere in piazza in tutta Europa sabato 15 febbraio significa schierarsi non solo per la libertà di Ocalan, per la pace in un’area devastata del pianeta, o in difesa di popoli oppressi. Significa ascoltare una lezione e farla in parte anche propria. La rivoluzione di Ocalan, se perdiamo, da europei, il nostro eterno e ormai stantio sguardo colonialista sul mondo, ha da insegnare molto ad ognuna ed ognuno di noi.
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Liberare Ocalan
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