Dei suoi cittadini una parte considerevole pensa che forse non è vero e si è astenuta dal votare alle elezioni europee. Un’altra parte, non meno considerevole, pensa che l’Unione Europea non abbia né titolo né capacità per risolvere il problema guerra né qualsiasi altro tipo di problema; e anzi non merita nessun tipo di considerazione: e si è disinteressata del voto, che è qualcosa di più che astenersi.
Di quelli che sono andati a votare la maggioranza ha sostenuto i partiti che dichiarano che bisogna darci dentro con la guerra alla Russia e anzi che prima si comincia, prima si finisce. Con una leggerezza rispetto alla quale le strategie de I Ragazzi della via Pal sono il Vom Kriege. E questi sarebbero i conservatori moderati. La destra che avanza è appena più cauta, anche perché più dirette e brucianti sono le esperienze storiche da cui nasce e che si sono tutte infrante contro la “fragile Russia”. Un evanescente riformismo non osa dire mezza parola né contro la guerra a est né contro la strage infinita a sud, ma non batte ciglio quando si tratta di votare quelli che una volta si chiamavano crediti di guerra e ora si chiamano persino più banalmente invii di armi. Persino la sinistra parlamentare europea nel suo programma elettorale ha dichiarato di essere favorevole alla pace, a condizione che uno dei belligeranti si arrenda senza condizioni – nei suoi auspici dovrebbe essere la Russia, ma non cambierebbe nulla se a stessa intimazione fosse fatta all’Ucraina. Non c’è da stare allegri.
È possibile ora che nel teatro politico europeo si confrontino due strategie. I più bellicosi e avventuristi puntano le loro carte sulla estemporanea formazione di un esercito franco tedesco così formidabile da abbattere la Russia in quattro e quattr’otto. Una strategia che miscela avventurismo e incompetenza, come se l’auspicata potenza politica degli erigendi Stati Uniti d’Europa facesse tutt’uno con la quantità di armi nei suoi magazzini e dei soldati nelle sue caserme, ammesso che questi debbano arrivare. E dunque di lì non può venire nulla di buono, né si può pensare che restando sulle posizioni attuali, le sinistre di governo, tanto quella vagamente riformista che quella radicale possano rappresentare qualcosa di più di un temporaneo fattore di freno; almeno fino a quando non saranno emarginate, dopo essere state accusate di tradimento e cedimento di fronte al nemico. Purtroppo l’unica novità in vista – ed è sconfortante ammetterlo per chi nella propria storia vede la vicenda gloriosa di Zimmerwald e tutto ciò che ne seguì – è il successo di Madame Le Pen in Francia che, congiuntamente alla prossima presidenza europea dell’Ungheria, potranno quantomeno porre un freno alle dichiarazioni improvvide di Borrell, di Stoltenberg e di von Der Leyen – se dovrà esser ancora lei la presidente della Commissione. Fin qui si è dimostrata più cauta del miles gloriosus Macron e nonostante l’imprinting paterno non sembra abbia una particolare inclinazione a inviare stivali francesi in giro per il mondo, tanto più a favore di strategie degli Stati Uniti d’America e della Nato che non sono mai stati nel suo cuore.
E dunque al formidabile esercito europeo franco-tedesco verrebbe a mancare tutta la parte francese, e per le vicende pregresse che hanno segnato la storia, qualsiasi cancelliere capisce a cosa andrebbe incontro un esercito tedesco che attaccasse la Russia da solo o quasi; e che fine farebbe Berlino per i prossimi secoli.
Vedremo nei prossimi mesi se la ruota comincerà a girare nell’altro verso e se le forze di sinistra saranno capaci di collocarsi dalla parte giusta. Da una parte c’è alle porte la terza guerra civile europea in un secolo. Dieci milioni di morti la prima, cinquanta la seconda. Centocinquanta la terza?
Dopo più di due anni di guerra i maggiori governi europei – Francia, Germania, Italia e Spagna – saranno finalmente capaci di prendere un’iniziativa di pace?
Luciano Beolchi