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La politica contro la guerra

di Franco
Ferrari

Durante lo sviluppo del movimento pacifista dei primi anni ’80, Enrico Berlinguer, che aveva schierato con forza il suo partito nell’opposizione all’installazione degli euromissili, sintetizzò la posizione del PCI con una parola d’ordine che mantiene a mio parere la sua integrale validità: “trattino gli Stati, parlino i popoli”.

Era così evidenziata la relazione necessaria fra il livello propriamente statale dell’azione politica, fondamentale per fermare una pericolosa corsa al riarmo, con quello dell’iniziativa dal basso, garantita dall’estensione di un vasto e articolato movimento contro il riarmo e il conseguente pericolo di guerra.

Oggi siamo in una situazione nella quale “la politica”, nella sua forma positiva in quanto azione consapevole di ricerca della soluzione ai grandi problemi della società, sembra assente dalla scena. Certamente “una politica” viene sempre messa in atto dalle classi dominanti e dalle élite politico-statuali, ma questa sembra sempre meno capace di invertire il corso alla militarizzazione dei conflitti.

Gli Stati tendono sempre a meno a trattare e a trovare una forma di composizione dei diversi interessi e visioni e sempre più ad utilizzare indiscriminatamente il ricorso alla forza, sia essa di tipo militare che economica per affermare il proprio predominio. Oltre ad un possibile esito catastrofico per tutta l’umanità, questo processo produce già una serie di effetti negativi con l’enorme spreco di risorse economiche, sottratte all’uso sociale, e con una progressiva ma sempre più evidente riduzione degli spazi di democrazia interna ai singoli Stati.

Contrariamente a quanto a volte si legge sulla stampa, la guerra non è mai scomparsa dallo scenario globale e nemmeno da quello europeo. Basti ricordare l’Iraq, l’Afghanistan, la Jugoslavia, la Libia, la Palestina e così via. Ma si trattava di guerre ritenute periferiche (ovviamente non per i popoli interessati) rispetto alla costruzione di un assetto unipolare, al vertice del quale si trovavano gli Stati Uniti, vincitori della guerra fredda, e in cui venivano via via assorbiti tutti gli Stati che avevano fatto parte del blocco socialista o che in qualche modo avevano cercato strade di sviluppo non capitalistico e non allineato.

La dimensione unipolare, con la definizione di una nuova gerarchia tra Stati, aveva il suo fondamento strutturale nell’espansione del capitalismo neoliberista, globalizzato e finanziarizzato. La decisione statunitense di abbandonare l’Afghanistan partiva dal presupposto di dover abbandonare il controllo diretto e militare di Stati periferici, per mettere al centro il possibile conflitto con le potenze emergenti il cui sviluppo li portava a rifiutare la gerarchia imposta dal mondo unipolare a guida statunitense, in primo luogo, evidentemente, la Cina.

La lettura tutta geopolitica della crisi che si è aperta nell’assetto internazionale (che trova sostenitori anche a sinistra), nella quale l’analisi si concentra sul ruolo degli Stati Uniti in contrapposizione agli altri Stati, appare insufficiente se non tiene conto che all’origine di tutto ciò vi è una crisi del capitalismo neoliberista, globalizzato e finanziarizzato. A questa crisi una parte delle classi dominanti ha reagito con una ripresa di visioni nazionaliste e imperiali, costruite sulla formazione di zone di influenza più o meno grandi, e sulla difesa dei propri specifici interessi zigzagando tra le diverse potenze maggiori.

L’attendibilità dell’analisi, come la conseguente definizione di una proposta di iniziativa politica, guadagnerebbe forse da un approccio meno “geopolitico” e più “leninista”. Pur avendo presente i molti cambiamenti di cui necessita la classica lettura dell’imperialismo.

Il rischio evidente nelle letture geopolitiche è quello di riproporre una visione schematica di blocchi contrapposti (Occidente contro Sud globale, Usa contro Brics) nella quale la sinistra, a seconda delle priorità che definisce, si schiera a sostegno dell’uno o dell’altro, rinunciando ad essere quel soggetto necessario in grado di delineare una autonoma soluzione dei problemi globali, alternativa a quella proposta dalle diverse classi dominanti.

Una sinistra non subalterna deve quindi provare a definire una propria visione degli assetti globali, integrata e non separata dal mutamento dei rapporti di classe interni a tutti gli Stati, così come dall’espansione di forme di democrazia radicata dentro un processo storico di trasformazione delle società capitalistiche in senso egualitario.

Questa prospettiva di ampio respiro dovrebbe porre come obbiettivi fondamentali: la costruzione di rapporti globali tra gli Stati che limitino o rimuovano il ricorso alla guerra come strumento di regolazione dei conflitti (così come indica la nostra Costituzione); la ridefinizione di relazioni economiche aperte e paritarie nelle quali venga ridotto il peso delle grandi corporazioni multinazionali; la ricostruzione di un insieme di sedi globali nelle quali gli Stati possano trovare strumenti di regolazione e di soluzione dei problemi che richiedono una soluzione condivisa, a partire dall’azione contro la distruzione dell’ambiente naturale.

Questa prospettiva richieda la messa in campo di movimenti sociali, forze politiche, governi e Stati. Rilanciare la trattativa e la diplomazia come strumenti per trovare una soluzione ai conflitti militare è una priorità contro tutti coloro che invocano un’estensione illimitata dell’uso delle armi, utilizzano la retorica della “vittoria” e ci avvicinano ad esiti incontrollabili e catastrofici. Da questo punto di vista il Parlamento europeo si è collocato in prima linea nell’isteria “guerraiola”.

Su Trasform! Italia abbiamo già ospitato diversi interventi (Roberto Musacchio, Mario Boffo) che provano a ragionare su una possibile “Jalta 2”, vista a livello globale o una “Helsinki 2”, quest’ultima come sede di confronto tra tutti gli Stati europei, includendo quindi anche la Russia, per trovare una soluzione ai conflitti aperti, offrendo garanzie di sicurezza condivise e non contrapposte.  Al di là dei riferimenti storici si tratta di provare a formulare una visione positiva di un nuovo assetto globale che inverta il processo in atto, che dalla disgregazione dell’assetto unipolare collegato al capitalismo neoliberista, tende a tradursi in un rilancio del nazionalismo e dei conflitti interimperialistici ed intercapitalistici.

Tutto questo non può avvenire certo per gentile concessione delle classi dominanti. Qualità dell’analisi e definizione di una visione, non possono quindi sottrarsi alla costruzione di un campo di forze che possa essere mobilitato e messo in campo affinché possano effettivamente “parlare i popoli”.

Il tema della pace e della guerra oggi tende ad attraversare i diversi orientamenti politici e sociali. Ci sono correnti reazionarie che, più per la loro visione degli interessi nazionali e per allineamento ideologico che per spirito pacifico, sono più ostili al corso militarista e forze progressiste che, a partire da varie premesse ideologiche (atlantismo, democrazia imposta con le armi, ecc.), rappresentano la punta avanzata della spinta alla guerra.

Questo certamente complica l’azione delle forze che indicano nella lotta contro la guerra una delle priorità, se non la priorità principale, di questa fase politica. Diventa pertanto necessario aprire un confronto ed un’azione che spostino concretamente forze portandole nel campo della ricerca della pace e di un nuovo assetto mondiale. Finora non è emersa ancora, a livello popolare, una reale comprensione della posta in gioco, soprattutto tra le nuove generazioni. Credo che su questo pesi l’assenza di una proposta politica complessiva che porti la dimensione popolare a incidere nella sfera della politica statuale. Che, in sostanza, tenga insieme il “basso” e “l’alto” dell’azione politica.

Una sinistra che si limiti a “tifare” per uno o l’altro degli schieramenti globali o che invochi una mobilitazione sociale senza delineare anche una strategia politica efficace, sembra destinata ad essere largamente irrilevante e a lasciare il campo della contesa interamente nelle mani della sinistra socialliberale da un lato e del fronte reazionario dall’altro.

Franco Ferrari

 

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