Seguendo la stampa internazionale si colgono i segnali sempre più evidenti di un processo di ridefinizione dei termini della globalizzazione così come si è consolidata per un trentennio dopo il crollo dell’Unione Sovietica.
Al momento le potenze che sembrano avere le idee più chiare sono anche quelle più forti: gli Stati Uniti e la Cina. Per quanto possa sembrare paradossale, sulla base delle etichette ideologiche, i primi sono orientati sempre più su una linea di protezionismo economico, mentre la seconda difende la globalizzazione ed il libero commercio internazionale.
La strategia complessiva impostata dall’Amministrazione Biden, che corregge ma non capovolge alcune delle impostazioni di fondo di quella trumpiana, sembra piuttosto chiara e può essere sintetizzata in alcuni punti essenziali:
- ogni scelta è innanzitutto finalizzata a mantenere il primato globale degli Stati Uniti e la sua capacità di intervenire in tutte le aree strategiche. Questo primato si esercita sul piano militare, sul controllo di alcuni fondamentali strumenti finanziari e si orienta ora verso un recupero del controllo di settori tecnologici avanzati e una certa reindustrializzazione del paese;
- in questa visione il nemico principale è la Cina di cui vanno limitate le capacità di espansione nei principali settori tecnologici e soprattutto la capacità di rafforzare le proprie relazioni con il resto del mondo attraverso i legami economici;
- ricostruire un sistema di alleanze politico-militari di cui gli Stati Uniti siano la forza-guida;
- utilizzare la guerra in Ucraina per indebolire la Russia al fine di evitare di avere in prospettiva due nemici globali da contrastare nello stesso tempo;
- introdurre forti elementi di protezionismo economico tali da far confluire negli Stati Uniti investimenti e aziende da altre parti del mondo, in particolare dall’Europa.
La Cina, come rivela chiaramente la lettura dell’ufficioso Global Times ha obbiettivi che sono in una certa misura contrastanti:
- essendo una potenza economica e tecnologica emergente è interessata a mantenere le più ampie relazioni con il resto del mondo e ad evitare il rafforzarsi delle tendenze protezionistiche. La sua principale contraddizione sembra essere lo scarto tra una visione liberoscambista del sistema economico mondiale combinata con una crescente direzione e controllo politico dell’economia interna.
- non è interessata a costruire un proprio campo ideologico da contrapporre a quello diretto dagli Stati Uniti ma è pronta ad inserirsi in tutte le contraddizioni che la difesa statunitense dei propri interessi nazionali apre in molte parti del mondo.
- finora non considerava utile e necessario impegnarsi in un percorso di accentuata militarizzazione delle relazioni globali, ma l’accentuarsi della crisi con Taiwan e la stessa guerra in Ucraina sembra portare ad una revisione di questo aspetto della politica cinese. Una scelta, quella di porsi sul terreno della competizione militare con gli Stati Uniti che per l’Unione Sovietica ebbe conseguenze disastrose.
- ha tutto l’interesse a sostenere i segnali di autonomia dagli Stati Uniti dell’Unione Europea come tale e dei singoli paesi che la compongono, per realizzare una gestione multipolare dei problemi globali e in funzione del rafforzamento degli scambi commerciali ed economici.
L’Europa deve fare i conti con l’ortodossia atlantista e quindi la subalternità agli Stati Uniti, che resta fortemente presente nelle élite politiche ed economiche, e la visione di un proprio specifico ruolo internazionale.
Nell’immediato il tema che si pone è come fronteggiare le politiche protezioniste decise dall’Amministrazione Biden, utilizzando a tal fine i progetti di riconversione ambientale. Il quotidiano francese Le Monde è particolarmente attento a questo tema e valuta con una certa preoccupazione la presenza di visioni contrastanti esistenti tra Francia e Germania. Nella sua edizione datata 7 dicembre elenca una serie di grandi aziende europee che stanno decidendo o hanno deciso di spostare i propri investimenti negli Stati Uniti per approfittare di due condizioni favorevoli: il minor costo dell’energia e i consistenti incentivi statali introdotti dal governo Usa e approvati dal Parlamento.
Se Unione Europea e gli Stati Uniti hanno condiviso l’ideologia del libero mercato internazionale, della globalizzazione come nuova occasione di prosperità condivisa (e anche di mantenimento del primato occidentale e delle sue classi dominanti sul resto del mondo), nella realtà solo l’Europa ha largamente globalizzato la propria economia. Gli Stati Uniti hanno sempre puntato ad aprire il “libero mercato” a casa altrui, ricorrendo quando necessario anche allo strumento militare e alle interferenze politiche.
Nel governo francese circola l’idea che al protezionismo Usa si debba rispondere in un qualche modo con un analogo protezionismo europeo. Una strada che sembra contrastata dai governi più liberoscambisti per tradizione e interesse, ma anche dalla stessa Germania, che si propone di salvaguardare il proprio modello di accumulazione fortemente basato sulle esportazioni, dai pericoli di una nuova “guerra fredda” (come chiaramente proclamato da Olaf Scholz sul Foreign Affairs).
Se le strategie statunitensi e cinesi possono essere definite con una certa precisione (a prescindere dalla valutazione sulle contraddizioni che esse presentano e che rimandano anche ad una analisi complessiva dello stato del capitalismo mondiale in questa fase), finora resta incerta quale sia quella europea.
La guerra porta ad un più elevato costo dell’energia (una delle ragioni che oggi spingono le grandi imprese a spostarsi verso gli Stati Uniti) e determina anche una forte crescita delle spese militari, a partire dalla Germania che in questi mesi ha effettuato una svolta di portata storica. Le ipotesi di una nuova leva di investimenti europei basati sull’indebitamento comune, analoga al Next Generation Europe, trova le solite opposizioni anche all’interno del governo tedesco.
Tra le ragioni per le quali l’Unione Europea non può rispondere sul terreno protezionista, secondo quanto dichiarano molti esponenti dell’establishment, c’è quella che non bisogna mettere a rischio l’alleanza militare sul fronte ucraino. Una buona ragione per Washington per far continuare la guerra il più a lungo possibile. Il vincolo atlantista si conferma come un cappio al collo per il possibile sviluppo di una reale soggettività politica europea.
Tutti questi riposizionamenti sul piano economico e strategico sono il segnale che si è aperta la strada alla deglobalizzazione? E’ una risposta non facile perché i fattori di incertezza sono molti. Il capitalismo si basa su un meccanismo che è di per sè espansivo e non è affatto dimostrato che possa funzionare all’indietro, ritornando ad una dimensione più ridotta e lasciando fuori realtà come la Cina e la Russia, com’era nella prima guerra fredda.
I rischi che questa contraddizione di fondo, tra spinte globalizzatrici e rilancio del nazionalismo economico, dia sempre più spazio alla guerra come strumento di gestione dei conflitti globali e regionali non è uno scenario che si possa escludere con tranquilla serenità.
Franco Ferrari