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Italiani in Etiopia 1935-1937

di Luciano
Beolchi

Anche chi esita a riconoscere come tale la politica genocidaria del governo israeliano e non vuole sentire parlare di apartheid, di pulizia etnica, di razzismo e di colonialismo, sostiene che queste cose non appartengono ai valori dell’occidente, ma non è così. Per secoli l’occidente ha praticato e esaltato quei disvalori che oggi i suoi governi e la cultura storica prevalente occultano, ma non c’è condanna credibile del colonialismo e del razzismo di oggi e tanto meno delle politiche genocidarie se si occulta e si cancella il colonialismo di ieri, di cui in questo articolo ricordiamo uno dei tanti esempi dimenticati.

Lo stupratore

Nel 1969 Indro Montanelli era il principe dei giornalisti italiani. Ex fascista e conservatore di destra per non dire reazionario, era comunque caustico e spiritoso con un gusto tutto toscano per la battuta audace e beffarda. In un suo libro del 1936, XX Battaglione Eritreo aveva raccontato di quando, giovane ufficiale nell’invasione dell’Abissinia, aveva sposato anzi – più precisamente – comprato una bambina di dodici anni e l’aveva stuprata. Ospite della trasmissione televisiva di Gianni Bisiach, L’ora della verità, sedeva altezzoso nel mezzo dello studio e raccontava compiaciuto la vicenda come chi si aspetta il plauso sorridente del pubblico: “pare anche che avessi scelto bene. Era una bellissima ragazza bilena di dodici anni”. Poi, rivolgendosi al pubblico “Scusatemi, ma in Africa è un’altra cosa…”.
Dal pubblico gli arriva una domanda. Chi gliela fa è Elvira Banotti, una ragazza di 26 anni “Lei ha detto tranquillamente di aver avuto una sposa di dodici anni, dicendo: ‘Ma in Africa queste cose si fanno’. Vorrei chiederle come intende i suoi rapporti con le donne dopo queste due affermazioni?”.

La domanda è sottile, ma Montanelli è abile, ci metterebbe un secondo a metterla in burla, a far ridere il pubblico.
Guarda la ragazza. È giovane, anche lei bellissima. E visibilmente di origine eritrea. Troppo abile per non capire al volo che la situazione è completamente cambiata. Sor Cilindro, così si firmava, arretra: “Signora, guardi, sulla violenza, nessuna violenza perché le ragazze in Abissinia si sposavano a 12 anni: “Questo lo dice lei!”, replica la giovane donna e se non fosse ciò che è, Montanelli la sgriderebbe le direbbe: “Non parli di cose che non sa. Vada in Africa a vedere”. Ma la ragazza è visibilmente, orgogliosamente, testardamente di origini africane e lo incalza “Sul piano di consapevolezza dell’uomo, il rapporto con una bambina di dodici anni è un rapporto con una bambina di dodici anni! Se lo facesse in Europa riterrebbe di violentare una bambina, vero?”. “Sì, in Europa, sì”. “Ecco, appunto, quale differenza presume che esista dal punto di vista biologico e psicologico?”. Montanelli è in imbarazzo, ma resta pur sempre il monumento Montanelli e non rinuncia a difendere la sua causa, anche se consapevole di quanto sia scivoloso il terreno e soprattutto di quanto sia inattaccabile la sua interlocutrice, se non vuole rendere disastrosa la sua posizione. Resta sul viscido argomento. “A dodici anni sposano…”.
Ma Elvira insiste “Ma non è il matrimonio che lei intende a dodici anni in Africa. Guardi, io ho vissuto in Africa. Quindi il vostro era veramente un rapporto violento del colonialista che veniva lì e s’impossessava di una ragazza di dodici anni senza, glielo garantisco, tenere assolutamente conto di questo tipo di rapporto sul piano umano. Eravate i vincitori, cioè i militari che hanno fatto le stesse cose ovunque sono stati vincitori, gli uomini si sono presentati come militari. La storia è piena di queste situazioni”. Il discorso della giovane forse è caotico, ma il senso è terribilmente chiaro e Montanelli si fa piccolo “Signora, non so, se lei vuole istruirmi? Questo è un processo a posteriori”.

Anche Montanelli arranca linguisticamente. Processo a posteriori? Perché i processi sono di solito preventivi? E lascia alla giovane donna di chiudere la querelle senza affondare la lama. “No, no affatto, io ho soltanto voluto chiederle, per inciso, come lei intende i rapporti con le donne dopo le due interpretazioni”. Potrebbe chiedergli cosa gli dice la sua coscienza, ma non lo fa e comunque lo spettacolo razzista è saltato: le battute prevedibili sui negri, sul loro odore caratteristico che disturbava il giovane soldato e altre sulla pratica dell’infibulazione che arricchiscono il libro per quella volta Montanelli le deve cancellare dal copione1.

Pogrom

Non è detto che tutti gli italiani conoscano il significato della parola pogrom che col tempo è diventato sinonimo di massacro e saccheggio su base etnico-religiosa, condotto prevalentemente da civili. È vero però che li sanno fare, e, anche escludendo i numerosi pogrom condotti da italiani in divisa – che non sono pogrom in senso stretto –, la storia ne riporta diversi esempi. Uno dei più terribili e sanguinari è quello scatenato dagli italiani residenti ad Addis Abeba tra il 17 e il 19 febbraio 1937, dopo l’attentato al Maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani che da qualche mese Mussolini aveva nominato viceré d’Etiopia2.
Terminata formalmente nel maggio 1936, la guerra italo-etiopica – che seguendo le buone regole dell’imperialismo aggressore non era mai stata dichiarata – era cominciata il 3 ottobre 1935 dopo oltre un anno di preparazione e di accumulo di forze da parte italiana. L’esercito italiano fu guidato nella prima fase da Emilio De Bono, promosso anche lui Maresciallo d’Italia nel gennaio 1936 a titolo di risarcimento per essere stato sostituito nel novembre 1935 da Pietro Badoglio che Maresciallo lo era dal 1926.
La guerra fu condotta dagli italiani in maniera spietata. Dopo la fuga dell’imperatore Hailè Selassiè, fu seguita da una prima fase di guerriglia insurrezionale che a giudizio di chi la combatté dalla parte italiana fu ancora più spietata e sanguinosa della “guerra grossa”. Il maresciallo Graziani, che in Libia era diventato esperto di quel genere di cose, alla fine della guerra regolare aveva sostituito il furbo Badoglio che era passato all’incasso di onori e principesche residenze sfilandosi da quella che sapeva essere la trappola di tutti i generali: la guerra d’insurrezione e di guerriglia la cui gestione cedette volentieri all’ambizioso Graziani3.

Scriveva Graziani a Mussolini “L’asprezza della lotta sostenuta in questi diciotto mesi dall’occupazione della capitale […] è sintetizzata nei 13.000 uomini perduti tra nazionali e coloniali [sui duecentomila impiegati, è una grossa percentuale] e 250 ufficiali: tre volte le perdite avutesi nella grossa guerra” 4.

Lo sostituì come viceré il Principe Emanuele Filiberto di Savoia5 che arrivò ad Addis Abeba il 20 dicembre 1937. Graziani si offrì di restare come comandante militare, ma dopo parecchie esitazioni, Mussolini disse di no e Graziani lasciò Addis Abeba il 10 gennaio per arrivare in Italia a fine febbraio dopo un lungo viaggio in auto fino a Mogadiscio e poi per nave. Tornerà in Africa nel 1940 per subire la più cocente delle sconfitte, ma Mussolini lo ripescherà nel 1943 per nominarlo capo dell’Esercito di Salò.
Dunque la prima resistenza etiopica e la spietata risposta italiana durarono ufficialmente fino alla fine del 1937, ma i rastrellamenti continuavano ancora massicci nel 19396 continuò l’impiego dei gas contro la popolazione civile7. Nel 1941, quando i residui dell’esercito italiano si arresero ai partigiani etiopi etiopi, una gran parte di loro aveva ancora in tasca le foto che documentano anni di massacri tra quelle date. A parti invertite quelle foto da sole sarebbero costate la vita a chi ancora se ne faceva vanto, ma questo non accadde allora come non era accaduto agli italiani catturati ad Adua e che erano stati trattati più come ospiti che come prigionieri8. C’erano ancora 35.000 civili italiani ad Addis Abeba, senza alcuna protezione militare. Eppure le migliaia di partigiani che accompagnarono Hailè Selassie quando fece il suo ingresso nella capitale obbedirono al suo appello e non accadde nulla di quanto a parti invertite sarebbe accaduto.
Mussolini riservava molte critiche al maresciallo Graziani, come a tutti. Lo riteneva tuttavia uno degli esemplari migliori dell’italiano nuovo e diverso che auspicava, un po’ sul serio un po’ per burla, convinto come era nel profondo che l’italiano (quello stereotipato, ma radicato nel costume, nella letteratura, nella rappresentazione internazionale) non lo può cambiare nessuno.
Graziani gli piaceva soprattutto per i lati peggiori della sua personalità, la violenza, la spietatezza, l’indifferenza per la vita altrui.
Anche fisicamente lui, come del resto Ettore Muti, altro favorito del duce, si distaccavano molto dallo stereotipo fisico dell’italiano, cui invece apparteneva il duce medesimo, bassotto, tarchiato, tutt’altro che slanciato. Fu lo stesso Muti a farglielo notare “Duce, io sono bello e Voi…”.
Non poteva non accorgersi che l’ostentata devozione di Graziani rasentava il servilismo e che a volte, nei suoi messaggi, la piaggeria era rivoltante. Emanuele Filiberto che non lo volle come suo capo militare in AOI diceva che aveva tradito tutti, tranne De Bono che gli lasciava fare tutto quello che voleva. Lo scrisse il ministro delle colonie Lessona nelle sue memorie e lo lascia intendere Emanuele Filiberto nelle sue lettere.
Era ambizioso, ma questo era di sicuro la qualità più diffusa nell’entourage del duce.
Uccidere, Uccidere, Uccidere, fu del resto la direttiva di Mussolini in tutta la gestione dell’impero: sia nella fase propriamente bellica che Mussolini decise di dirigere da lontano, senza avere mai visto il territorio, senza avere uno stato maggiore e senza neanche mandare dei commissari a ispezionare, controllare e dirigere dove ce ne fosse bisogno.
A lui bastavano il mappamondo e il suo intuito, talché tra maggio e giugno 1936 e cioè dopo la proclamazione dell’impero, Graziani si trovò praticamente assediato ad Addis Abeba, con una guarnigione di 9.000 uomini e i due terzi del paese ancora sotto il controllo dell’autorità legittima. E fu solo per pura fortuna se l’attacco alla capitale mosso dai due figli del Ras Cassa nel luglio del 1936, attacco che arrivò nel centro della città, non ebbe successo, aprendo la strada all’eventualità che il duce temeva di più, che cioè la più grande guerra coloniale di tutti i tempi si trasformasse nel più grande disastro coloniale di tutti i tempi, con l’esplosione di guerra e guerriglia in tutte le parti del paese.

Gas, yprite e arsine

Montanelli fu anche colui che fino all’ultimo difese il regime fascista dall’accusa di aver usato i gas in Etiopia contro i militari e i civili, contro tutte le prove portate dalle vittime (erano vittime!), degli avversari (erano avversari!), dai giornalisti (erano comunisti!), dei militari (erano traditori che disonoravano il loro paese). E parliamo di prove e di testimonianze confermate, non di “teoremi”.
Si dichiarò convinto solo nel 1996 quando in Senato l’allora ministro della difesa, generale Domenico Corcione, in risposta ad alcune interrogazioni parlamentari, dichiarò che “nella guerra italo-etiopica furono impiegate bombe d’aereo e prodotti d’artiglieria caricati ad yprite ed arsine e che l’impiego di tali armi era noto al maresciallo Badoglio che firmò di suo pugno alcune relazioni e comunicazioni in merito”.
Si disse allora: finalmente la verità. Ma il testo parla solo di “relazioni e comunicazioni”.
E gli ordini chi li diede? Perché fin dall’inizio della suddetta guerra Mussolini si riservò personalmente di decidere l’impiego delle armi chimiche, trasmettendo a Badoglio e Graziani le dovute disposizioni che quelli eseguivano, emettendo i relativi ordini.
Ma l’esercito si rifiutava e si rifiuta ancora oggi di ammettere che due dei suoi più eminenti generali comandanti abbiano emesso ordini che li qualificano come criminali di guerra. E così dice che Badoglio “firmò relazioni e comunicazioni” come fa ogni buon capoufficio quando firma i rapporti sui suoi impiegati.
Certo, il gigante di Fucecchio – innocente patria di Montanelli – riconobbe che “i documenti gli davano torto”. Ma per sessant’anni cosa aveva pesato di più? Le certezze sfrontate e senza prove di Montanelli o le ricerche di Del Boca e Rochat e le indagini sul posto di Campbell?
Montanelli fu fascista, razzista e stupratore di bambine, ma fu soprattutto giornalista disonesto e tanto basta per cancellare quella fama di cui ancora oggi immeritatamente gode; anche perché, come detto, le prove dei crimini che lui negava erano disponibili da decenni.
“Questa guerra è per noi come una lunga vacanza concessaci dal grande Babbo (scriveva Montanelli nel suo XX Battaglione Eritreo9) dopo 13 anni di scuola; e detto fra noi, era ora”. Una battuta? Ma quei “tredici anni di scuola” sono proprio i 13 anni di scuola fascista, di duro impegno per imparare a essere quei fascisti veri e spietati e razzisti che troviamo esaltati nelle opere dell’epoca: Il Quaderno Affricano (sic!) di Giuseppe Bottai10; La Disperata di Alessandro Pavolini e Voli sulle Ambe di Vittorio Mussolini11.
E il Gran Babbo cosa diceva?
Mussolini aveva autorizzato lo sbarco segreto a Massaua di 1.000 tonnellate di bombe per l’aeronautica (4.000 bombe), di 200 tonnellate di bombe per l’impiego ravvicinato (tutte caricate a yprite) e di 60.000 proiettili per l’artiglieria caricati ad arsine.
Il 27 ottobre Mussolini scrive a Graziani: “Sta bene per azione giorno 29 [Si tratta dell’attacco a Gorrahei]. Autorizzato impiego gas come ultima ratio per sopraffare resistenza nemica e in caso di contrattacco”12.
Il 15 dicembre Graziani chiede libertà d’azione per impiego gas asfissianti. Risponde Mussolini: “Sta bene impiego gas asfissianti nel caso V.E: lo ritenga necessario per supreme ragioni di difesa” 13.
Tra 25 e 31 dicembre 1935 furono sganciate 125 bombe sul fronte sud, quello di Graziani.
Sul Fronte Nord, quello di Badoglio, le bombe a gas furono usate massicciamente dal 22 dicembre.
Il 5 gennaio 1936 Mussolini telegrafa al maresciallo di “sospendere l’impiego dei gas fino alla riunione ginevrina, a meno che non sia reso necessario da supreme necessità di offesa o difesa. Le darò ulteriori istruzioni al riguardo”14.
Badoglio però sapeva bene come leggere gli ordini del padrone e nei giorni 6 e 7 gennaio 1936 inondava di yprite la città di Abbi Addi, i guadi del torrente Segalò e i guadi Rassi.
Mussolini lo rimprovera non per questo ma perché l’attacco non è riuscito efficace.
Badoglio scrive allora a Lessona ministro delle colonie: “Impiego yprite si è dimostrato molto efficace, specie verso zona Tacazzè. Circolano voci di terrore per l’impiego di gas. Certamente sospensione rappresenta grave svantaggio per noi”15. Le voci di terrore erano quelle dell’imperatore e dei suoi comandanti che denunciavano pubblicamente alla stampa e alla società delle Nazioni l’uso terroristico dei gas.
Il 22-23 dicembre Badoglio aveva dato ordine di utilizzare i gas sul fiume Tacazzè per bloccare una controffensiva etiopica. Anche lì precedette l’autorizzazione di Mussolini che arrivò solo il 28 dicembre. Scriveva ras Immirù Hailè Sellase. “Fu uno spettacolo terrificante. Io stesso sfuggii per una caso alla morte. Era la mattina del 23 dicembre e avevo da poco attraversato il Tacazzè, quando comparvero nel cielo alcuni aeroplani. Il fatto tuttavia non ci allarmò troppo perché ormai ci eravamo abituati ai bombardamenti. Quel mattino però non lanciarono bombe ma strani fusti che si rompevano appena toccavano il solo o l’acqua del fiume e proiettavano intorno un liquido incolore. Prima che mi potessi rendere conto di ciò che stava accadendo alcune centinaia dei miei uomini erano rimasti colpiti dal misterioso liquido e urlavano di dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani e i volti si coprivano di vesciche. Altri, che si erano dissetati al fiume si contorcevano per terra in un’agonia che durò ore. Fra i colpiti c’erano anche dei contadini che avevano portato le mandrie al fiume, e gente dei villaggi vicini”16. Per aumentare l’efficacia dell’yprite gli italiani impararono presto a spargere il liquido dagli aerei con pompe da irrorazione.
Alla fine di gennaio le cose si stavano mettendo male per Badoglio che stava addirittura per ordinare la ritirata da Macallè, conquistata dal suo predecessore e concorrente De Bono. A Mussolini sembrò che i gas non bastassero più e pensò alla guerra batteriologica, anche se sapeva che nessun paese l’aveva mai praticata. Il pur obbediente Badoglio si spaventò ed espresse parere nettamente contrario perché l’uso di tali armi avrebbe alienato all’Italia le simpatie dei popoli del Corno d’Africa.
Era una scusa balorda. Delle simpatie dei “negrieri amhara”, “dei selvaggi razziatori”, o “degli abissini tagliatori di teste”, come li chiamava Mussolini, non importava niente a nessuno tanto meno a Badoglio che però non volle essere il primo a usare un’arma che nessuno aveva mai usato e di cui non erano prevedibili gli effetti. Non voleva essere il capro espiatorio di un possibile disastro epidemico su scala continentale che avrebbe finito per contagiare anche le sue truppe per le quali non era prevista tra l’altro nessuna protezione. La prudenza, dote innata che Badoglio aveva sempre coltivato, gli diceva che se nessuno aveva mai usato le armi batteriologiche, dei motivi ci dovevano essere e questi non andavano ricercati in pregiudizi umanitari.
A partire da gennaio sul Fronte Nord furono invece versate centinaia di tonnellate di yprite i cui effetti erano ben conosciuti.
Mussolini aveva preteso una guerra di sterminio. A questo proposito dispiegò in Etiopia la Divisione Libia al comando del generale Guglielmo Nasi tutta composta da musulmani gettati contro un esercito e una popolazione formati prevalentemente da cristiani.
Con perfidia criminale si consentiva e si sollecitava da parte di quei mercenari la vendetta per tutte le violenze esercitate in Libia dai battaglioni amhara-eritrei sulle famiglie di quegli stessi soldati, sicché un soddisfatto Graziani poteva scrivere “prigionieri pochi, secondo il costume delle truppe libiche”17.
Il massacro fu di tali proporzioni e intensità che il generale Nasi, loro comandante, offrì 100 lire per ogni prigioniero che gli portavano vivo.

Contrariamente ad ogni regola di guerra, Mussolini e i suoi decisero di considerare i capi dell’esercito vinto e i principali gregari non soldati di un esercito regolare di uno stato sovrano, peraltro attaccato dall’Italia, ma militari ribelli da giustiziare.
Anche quest’ordine fu emanato direttamente da Mussolini, come ricordava Graziani al suo sottoposto generale Geloso: “Rammento a V.E. l’ordine tassativo che tutti i capi e gli armati catturati, qualunque grado essi abbiano siano immediatamente passati per le armi”18.
Dopo i capi militari, toccò ai cadetti dell’accademia militare e all’intellighenzia giovanile etiopica, in primo luogo a quanti si erano laureati all’estero: “Siano fucilati immediatamente tutti i cosiddetti giovani etiopi, barbari crudeli e pretenziosi, autori morali di saccheggi”. Questa la sentenza emessa dal duce fino dal 3 maggio 1936.
Evidentemente c’erano tutti gli elementi perché si scatenasse una rivolta o quanto meno qualche disperato tentativo di protesta che infatti arrivò il 19 febbraio quando due isolati attentatori gettarono delle bombe a mano sul gruppo di autorità che festeggiavano la nascita della primogenita dell’erede al trono. Morirono in sette e Graziani fu ferito.
Il via al pogrom che seguì immediatamente non fu però dato da lui, ma dal federale di Addis Abeba, Guido Cortese, mentre Mussolini, informato del fatto mentre sciava al Terminillo, autorizzò il pogrom col seguente telegramma: “Non attribuisco al fatto un’importanza maggiore di quella che effettivamente ha, ma ritengo che esso debba segnare l’inizio di quel radicale repulisti a mio avviso necessario nella Shoah”.
A quella chiamata risposero in massa le poche centinaia di civili italiani residenti ad Addis Abeba cui si unirono ascari e camicie nere e tutti insieme diedero il via a uno dei più feroci pogrom della storia africana. La rappresaglia si scatenò quasi subito, nello stesso pomeriggio del 19 febbraio. Il giornalista Ciro Poggiali annotava nel suo diario: “Tutti i civili che si trovavano in Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada […]. Vedo un autista che, dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza, gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara e del tutto innocente”19.
Un altro testimone dei fatti, Antonio Dordoni, che ben conosceva la comunità italiana della capitale, così riferiva: “Nel tardo pomeriggio, dopo aver ricevuto disposizioni alla Casa del Fascio, alcune centinaia di squadre composte da camicie nere, autisti, ascari libici, si riversarono nei quartieri indigeni e diedero inizio alla più forsennata ‘caccia al moro’ che si fosse mai vista. In genere davano fuoco ai tucul con la benzina e finivano a colpi di bombe a mano quelli che tentavano di sfuggire ai roghi. Intesi uno vantarsi di ‘essersi fatto dieci tucul’ con un solo fiasco di benzina. Un altro si lamentava di avere il braccio destro stanco per il numero di granate che aveva lanciato. Molti di questi forsennati li conoscevo personalmente. Erano commercianti, autisti, funzionari, gente che ritenevo serena e del tutto rispettabile. Gente che non aveva mai sparato un solo colpo durante tutta la guerra e che ora rivelava rancori ed una carica di violenza insospettati. Il fatto è che l’impunità era assoluta. Il solo rischio che si correva era quello di guadagnarsi una medaglia. Che io sappia i carabinieri intervennero una sola volta, per impedire che si bruciassero i magazzini dell’indiano Mohamedally”20.
Mentre i civili si scatenavano in un furore sanguinario senza limiti che lasciò migliaia di morti scannati e oltre migliaia di morti briciati insieme ai loro tucul di paglia, l’esercito arrestava oltre 4.000 persone. Il 21 febbraio il federale ordinava ai fascisti di rientrare nelle loro case, di fatto autodenunciandosi per quanto avvenuto.
Il commento del giornalista del Corriere, Ciro Poggiali, fu lapidario. “Evidentemente non vi erano più polli né talleri da razziare”.
Il 21 arrivò anche l’ordine di Mussolini: “Nessuno dei fermi già effettuati deve essere rilasciato senza mio ordine [la grammatica e la sintassi non erano il suo forte]. Tutti i civili e i religiosi comunque sospetti [di che?] devono essere immediatamente passati per le armi”.
Quanti furono i morti? I giornali di allora, inglesi e americani, riportavano a casaccio di cifre tra 1.400 e 6.000 morti. Sicuramente furono molto di più, tra 20 e 30.00021.
Graziani, che tende a minimizzare, scrive a Mussolini soprattutto per dimostrare di avere avuto la situazione sotto controllo, senza peraltro ingannare il capo che era più furbo e meglio informato di lui: “In questi giorni ho fatto passare per le armi più di mille persone e bruciate altrettanti tucul”.
Dopo il pogrom, la strage indiscriminata sarebbe toccata agli sciamani, ai cantastorie, ai guaritori a tutti coloro che rappresentavano la memoria del popolo etiope e che raccontavano le terribili vicende della guerra in corso. Mussolini, da bravo maestro di scuola, conosceva bene il prestigio di cui quegli intellettuali popolari godevano tra una popolazione sostanzialmente analfabeta. Graziani aveva segnalato al Ministro Lessona il 19 marzo 1937 che gli organi di polizia gli avevano “concordemente segnalato” che “tra i più pericolosi perturbatori dell’ordine pubblico erano da annoverarsi i cantastorie, gli indovini, gli stregoni, gli eremiti che diffondevano notizie false e catastrofiche, come l’imminente fine del dominazione italiana in Etiopia”. Gli rispose Mussolini: “Approvo quanto è stato fatto circa stregone ribelli”22.
Su quel terreno Graziani non deludeva mai. “Dal 19 febbraio ad oggi- scriveva il 21 marzo 1937 a Mussolini – sono state eseguite 324 esecuzioni sommarie – senza naturalmente comprendere in questa cifra le repressioni dei giorni 19 e 20 febbraio”. Il 30 aprile i “provvedimenti di rigore” – leggi esecuzioni sommarie – salivano a 710; il 5 luglio: “a 1686”, il 3 agosto “a 1937”.
Dopo aver esercitato la rappresaglia sull’aristocrazia amhara di cui gran parte fu deportata in Italia23, sull’intelligentsia etiopica, sui cadetti della scuola militare, sulla folla anonima degli indovini, dei cantastorie, degli sciamani”, era pressoché inevitabile nel quadro di una politica mirata a decapitare la classe dirigente del paese, che il duo Mussolini Graziani se la prendesse con il clero cristiano copto, la cui base principale era la città conventuale di Debra Libanos.

La strage di duemila religiosi cristiani a Debrà Libanos

A molte stragi e massacri commessi in Etiopia dalle truppe nazionali, dagli ascari e dalla Divisione Libia, Graziani si dichiarò estraneo, mentre delle più compromettente di tutte, vista la pretesa civilizzatrice del fascismo italiano e la sua adesione al cristianesimo, si fece un vanto ed è la strage di quasi duemila religiosi nel complesso conventuale di Debrà Libanos24.
L’operazione fu affidata al generale Maletti che si era annunciato percorrendo lo Scioa come un’ondata di terrore. Se stiamo ai suoi meticolosi rapporti in due settimane le sue truppe avevano incendiato 115.422 tucul, tre chiese e il convento di Guteniè Ghedem Micael di cui avevano fucilato tutti i monaci. Riferivano inoltre di 2523 esecuzioni sommarie di partigiani o supposti tali.
Maletti circondò la città conventuale il 19 maggio. Era costituita da due chiese maggiori e circa mille tucul dove alloggiavano monaci studenti visitatori e pellegrini, Non così importante dal punto di vista storico e architettonico come le chiese rupestri di Lalibela, era tuttavia il centro di riferimento della chiesa cristiana copta e non aveva nulla a che fare con l’attentato a Graziani di febbraio. Ciononostante Graziani scrisse a Maletti “Questo avvocato (l’avvocato militare Franceschino n.d.r.) mi comunica proprio in questo momento che ha raggiunto la prova assoluta della correità dei monaci del convento di Debra Libanos con gli autori dell’attentato, passi pertanto per le armi tutti i monaci indistintamente compreso il vice priore. Prego darmi assicurazione comunicandomi il numero di essi. Dia pubblicità at ragioni determinanti provvedimento”25.
Poiché l’ordine era di fucilare senza testimoni, i religiosi furono portati in camion nella località di Laga Wlde, una piana isolata in mezzo alle colline.
I religiosi, con la testa coperta da un telone nero, furono fucilati dagli ascari mentre un ufficiale italiano provvedeva per ciascuno a sparare il colpo di grazia in testa.  Maletti poteva comunicare di aver “destinato al plotone di esecuzione 297 religiosi e 23 laici sospetti di connivenza. Sono stati risparmiati i giovani diaconi, i maestri e altro personale d’ordine… Il convento è stato di conseguenza chiuso definitivamente”26.

Tre giorni dopo Graziani cambiava idea e ingiungeva: “Confermo pienamente la responsabilità del Convento di Debra Libanòs. Ordino pertanto di passare per le armi tutti i diaconi di Debra Libanos. La mattina del 26 maggio Maletti fece sfilare davanti alle mitragliatrici 129 ragazzini qualcuno di dieci anni, martiri giovinetti di cui la cristianità non vuole avere memoria e le cui fosse furono ritrovate solo nel 1998. Con loro la cifra dei giustiziati arriva a 449, ma la cifra degli assassinati è molto più alta almeno tre volte superiore.
Gli scavi condotti intorno Laga Wolde tra 1991 e 1994 fanno emergere che i fucilati non furono 320 ma tra 1000 e 160027. Tra questi altri 276 etiopici che appartenevano ad altri monasteri che nulla avevano a che fare con Debra Libanos e che Graziani aveva dato comunque ordine di fucilare.

Con l’abituale tono derisorio e sprezzante Montanelli fece valere il suo personale contributo alle stragi disumane “La spedizione era stata buona: sessantasette accertati (intende sessantasette esecuzioni sommarie). Gli ascari si sparpagliarono nei tukul e all’occorrenza fornire i sacramenti definitivi a qualcuno che poteva essersi rintanato in qualche nascondiglio a esalare l’ultimo rantolo”28.
Sono parole truculente e bestiali come quelle di Mussolini di Badoglio e di Graziani, dei monarchici e dei fasciste che calarono in Etiopia a scannare dai gerarchi ai semplici soldati vittime e interpreti, della propaganda fascista, da confrontare con quelle pronunciate da Hailé Selassie quando nell’aprile 1941 giunse in vista della sua capitale.
Dopo aver concesso l’amnistia e il perdono ai tanti etiopici che l’avevano tradito, invitandoli a ravvedersi, estese il perdono anche agli italiani. Si tratta di quell’appello a cui gli etiopici risposero in larghissima misura, a cominciare da Addis Abeba: “Io vi raccomando di accogliere in modo conveniente e di prendere in custodia tutti gli italiani che si arrenderanno con o senza le armi. Non rimproverate loro le atrocità che hanno fatto subire al nostro popolo. Mostrate loro che siete dei soldati che possiedono il senso dell’onore e un cuore umano. Non dimenticate che durante la battaglia di Adua i coraggiosi guerrieri etiopici che hanno consegnato al loro imperatore i prigionieri italiani hanno aumentato l’onore e nobilitato il nome dell’Etiopia… in modo particolare vi raccomando di rispettare la vita dei bambini delle donne e dei vecchi. Non saccheggiate i beni altrui, anche se appartengono al nemico. Non bruciate case. Quando vi dico di rispettare tutto ciò, lo faccio perché sono convinto che il popolo etiopico non è inferiore a nessun altro nel rispetto delle leggi di guerra”29.

Luciano Beolchi

  1. Il testo della famosa intervista è riportato da molti siti internet e da tesi di laurea. Basta impostare una ricerca su Elvira Banotti e Montanelli.[]
  2. La prerogativa intestatasi (arrogatasi) da Mussolini di nominare re e viceré – di casa Savoia e non – scavalcando il re Vittorio Emanuele III era una delle cose che approfondivano l’ostilità sotterranea tra i due personaggi.[]
  3. La guerra di guerriglia era stata la tomba di Leclerc ad Haiti, dei generali francesi in Spagna, in Prussia e in Russia e lo sarebbe stata ancora dei francesi in Vietnam e in Algeria. C’è un solo sistema per sopprimerla la guerra d’insurrezione ed è la soppressione del popolo.[]
  4. DEPA- Documentazione sull’Etiopia presso l’autore- Torino, Angelo Del Boca), Telegramma n° 58999 del 21 dicembre 1937.[]
  5. Uno dei sette principi di casa Savoia che parteciparono alla campagna etiopica.[]
  6. Matteo Dominioni. La strage segreta di Zeret. Italia contemporanea, giugno 2006, n° 243, pp. 287-302.[]
  7. Alessandro Boaglio, Plotone Chimico, Cronache abissine di una generazione scomoda, Mimesis 2010.[]
  8. Luciano Beolchi, La vittoria di Adua, Transform!Italia, 14.2.2024, https://transform-italia.it/la-vittoria-di-adua/.[]
  9. Indro Montanelli, XX Battaglione Eritreo, Panorama 1936, p. 226.[]
  10. Bottai aveva ambizioni di grande intellettuale, tra cui quella di rivoluzionare l’ortografia italiana “affricano” con due “f” non è una svista come non è una svista la declinazione del verbo avere senza “h”: “io o”,” tu ai”, “egli a” che rende irritante la lettura delle sue Memorie, per chi si sottoponesse alla dura fatica.[]
  11. Angelo Del Boca, Italiani, Brava gente?, Neri pozza, Vicenza, 2005. pag. 197.[]
  12. Angelo Del Boca, Italiani, Brava gente?, Neri Pozza, Vicenza, 2005, pag. 202. DEPA.[]
  13. DEPA- Documentazione sull’Etiopia presso l’autore- Torino, Angelo Del Boca.[]
  14. Angelo Del Boca, Italiani, Brava gente?, Neri Pozza, Vicenza, 2005. pag. 204.[]
  15. Citato in Giorgio Rochat, L’impiego dei gas nelle guerra d’Etiopia, 1935-1936, in Angelo Del Boca, I gas di Mussolini, Editori Riuniti, 1996.[]
  16. Angelo Del Boca, Italiani, Brava gente?, Neri Pozza, Vicenza, 2005, pag. 203.[]
  17. Angelo Del Boca, Italiani, Brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2005, pag. 207.[]
  18. ASMAI AOI pos. 181-40, p. 195, Archivio Storico Ministeriale Africa Italiana.[]
  19. Ciro Poggiali, Diario AOI, 15 giugno 1936- 4 ottobre 1937, Longanesi Milano 1971, p. 182.[]
  20. Testimonianza all’autore di Antonio Dordoni raccolta ad Addis Abeba il 26 marzo 1965. Angelo Del Boca, Italiani, Brava gente?.,Neri pozza, Vicenza, 2005. pag.219.[]
  21. Jan Campbell, Il Massacro di Addis Abeba, Una vergogna italiana, Rizzoli 2018.[]
  22. Angelo Del Boca, Italiani, Brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2005. pag. 224.[]
  23. Si veda in proposito Martha Nasibù, Memorie di una principessa etiope, Neri Pozza, Vicenza, 2005.[]
  24. Scaricandone la colpa su mussolini e su Lessona (Angelo Del Boca, Italiani, Brava gente?,  Neri Pozza, Vicenza, 2005, pag.229).[]
  25. Départment de la Presse et de l’Information du Gouvernement Imperial d’Ethiopie, La civilisation de l’Italie Fasciste en Ethiopie, Vol. 1, Berhanema Selam Printing Press , Adddis Abeba 1945, p. 128, telegramma n 25876.[]
  26. Telegramma di Graziani a Lessona del 21 maggio 1937 n° 23260. Archivio Centrale dello Stato, Fondo Graziani, i Primi venti mesi dell’Impero.[]
  27. Jan Leslie. Campbell e D. Gabre Tsadik. La Repressione fascista in Etiopia. La ricostruzione del massacro di Debra lebanos. Studi Piacentini, n° 21, 1997, p. 100.[]
  28. Indro Montanelli, XX Battaglione Eritreo, Panorama 1936, p. 226.[]
  29. Départment de la Presse et de l’Information du Gouvernement Imperial d’Ethiopie, La civilisation de l’Italie Fasciste en Ethiopie,  Vol. 1,  Berhanema Selam Printing Press , Adddis Abeba 1945, p. 9.[]
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