Mi son guardato attorno, ho suscitato iridi su orizzonti di ragnateli e petali sui tralicci delle inferriate.
Eugenio Montale
Nelle righe conclusive dell’introduzione alla sua enciclopedia dei simboli Hans Biedermann scriveva che l’uso dei simboli può essere ambivalente: «possono fornire accesso ai tesori spirituali del passato e riportarli in vita, ma un uso spregiudicato di questo mondo di cifre può anche avvincere e incatenare l’uomo privandolo della sua volontà e degradandolo al ruolo di semplice automa».
Ma davvero i simboli possono esercitare un potere così forte su di noi ? O, piuttosto, si tratta soltanto di una mistificazione, di uno schermo dietro al quale gli studiosi di riti e miti amano nascondersi, dandoci a bere di una loro confidenza, speciale ed esclusiva, con i segreti e le magie di questo “mondo di cifre”?
Qui discuteremo brevemente di un mito particolarmente celebrato nel mondo della narrazione, quello dell’eroe, per poi soffermarci brevemente su alcuni dei significati simbolici di cui è avvolto.
Da quando Christopher Vogler, grande guru hollywoodiano della “scrittura creativa”, ha dato alle stampe, nel lontano 1995, il suo oramai celebre manuale ad uso di romanzieri e sceneggiatori, tradotto in Italia con il titolo Il viaggio dell’eroe, la teoria del racconto sembra ridotta a uno schema semplice ed onnipresente: quello che vede l’eroe, inizialmente titubante, venir chiamato a un viaggio in cui incontrerà amici e nemici, in cui sarà sottoposto a scontri, a difficili prove, a incantesimi, fino a raggiungere una profonda trasformazione interiore, una “sapienza” che sarà l’esito della sua avventura e la ragione profonda del suo viaggio di ritorno.
A giudicare da quel che leggo (sui pochi libri che mi sono rimasti di un esame di semiotica sostenuto quasi trent’anni fa), le strutture narrative del racconto erano state sottoposte ad analisi puntigliose già dal secondo dopoguerra. Particolarmente convincente quella dello studioso lituano A. J. Greimas che, tra i suoi molti contributi alla ricerca strutturalista sul linguaggio, aveva elaborato anche una semiotica narrativa che contiene, in forma assai più ricca e articolata, gli elementi principali delle tesi di Vogler. Sebbene Vogler nel suo lavoro non citi Greimas, è piuttosto evidente che la sua è stata in larga parte un’operazione di semplificazione, per la verità piuttosto brutale, dell’opera del linguista lituano. Mi guardo bene dal voler, con questo, rimproverare a Vogler una sorta di plagio nei confronti di Greimas. Ritengo che nel lavoro di ricerca l’autore non sia “proprietario” (in senso tradizionale) delle sue teorie. Le quali, del resto, se non fossero condivise, non potrebbero circolare e non verrebbero sottoposte al giudizio e alla verifica dei colleghi ricercatori. Lo scopritore, il teorico, l’inventore vanno certamente tutelati, ma il fatto di scoprire qualcosa, poniamo “la relatività”, non deve (non dovrebbe) esitare in una corsa affannosa all’ufficio brevetti ma, prima di tutto, in una discussione pubblica, di carattere scientifico, sulla validità della teoria. Tuttavia, nel caso Vogler-Greimas le analogie sono così forti che viene fatto di chiedersi per quale motivo uno studioso che ha attinto così vistosamente all’opera precedente di un collega, peraltro molto noto, abbia deciso di non menzionarlo. Le risposte possono essere molte, suggerirei, tra le altre, l’ipotesi che Vogler non condivida gran parte dell’approccio strutturalista al linguaggio. Per quel che ho letto di lui, quando Vogler fa riferimento a quanti lo hanno ispirato, menziona, prima di tutto, lo studioso inglese Joseph Campbell, che non si occupava di linguistica ma di miti religiosi. Abbondano poi i riferimenti all’opera di Carl Gustav Jung, particolarmente alle sue teorie sugli archetipi e sull’inconscio collettivo. Jung e Campbell sono studiosi famosissimi che, tuttavia, Greimas non menzionava nelle sue opere, probabilmente perché li considerava del tutto estranei al tipo di ricerca linguistica in cui era impegnato.
Questo ci riporta al problema da cui siamo partiti quando ci siamo chiesti se i simboli hanno o meno un potere su di noi. Nella concezione degli archetipi di Jung il potere di questi simboli originari sull’inconscio è possente, coercitivo. Uno dei principali motivi del contendere riguarda, dunque, questa pretesa universalità dei miti, in particolare di quello dell’eroe. Universalità su cui Vogler è disposto a scommettere, ma che gli studiosi strutturalisti difficilmente avrebbero accettato, almeno nei termini in cui Jung l’ha proposta. Le ragioni di una differenza teorica così profonda sono interessanti. Una lettura molto utile, in proposito, è Miti d’oggi di Roland Barthes, scrittore e semiologo strutturalista, amico e stretto collaboratore di Greimas. Uscito a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, Miti d’oggi è una rassegna di articoli che si potrebbero definire “demistificatori”. Marxista, Barthes sfidava esplicitamente l’uso del mito nelle nuove forme di comunicazione di massa che si stavano affermando in Francia in quegli anni, televisione e pubblicità su tutte le altre. Il mondo del catch, Il tour de France come epopea, Strip-tease, per citarne alcuni, sono titoli di articoli di poche pagine, in cui Barthes gioca abilmente i rapporti tra medium e messaggio, mostrando come l’elemento mitico venga introdotto nelle comunicazioni di massa intenzionalmente, per conferire al messaggio i tratti di un’eternità irreversibile. Evidentemente, per lui, i miti non erano manifestazioni dell’ intemporale e tantomeno dell’ universale. Il mito, scriveva Barthes, “è parola”. Come tale, deve sottostare alla dimensione storica che caratterizza la produzione linguistica. L’ultimo articolo del libro di Barthes è, in realtà, un saggio di una quarantina di pagine che spiega le ragioni della sua fiera opposizione alla produzione seriale di strutture mitiche prêt-à-porter. Esemplari, a tale riguardo, le righe che riporto di seguito, tratte dalle conclusioni:
«I miti non sono altro che questa sollecitazione, incessante, instancabile, questa esigenza insidiosa e inflessibile secondo cui tutti gli uomini si dovrebbero riconoscere in quella immagine eterna, e tuttavia situata nel tempo, che di essi un giorno è stata costruita come se destinata a valere per sempre».
Naturalmente ci si potrebbe chiedere perché, se Greimas la pensava come Barthes, abbia poi definito in modo così preciso le strutture narrative. Il fatto è che le strutture narrative di Greimas, aspirano certamente ad un’universalità ma si tratta di un universalità che rimane circoscritta all’ambito linguistico. Sono elementi dinamici, generali, fluidi e fungibili, che si prestano alle più varie operazioni di montaggio e smontaggio. In ultima analisi, sono strutture linguistiche che non hanno altri riferimenti che non siano nel linguaggio stesso. Quelli che nei testi di Greimas sono, dunque, elementi strutturali, astratti, al servizio di una narrazione altamente combinatoria, nel Viaggio dell’eroe di Vogler diventano tappe definite, schemi fondamentali e poco alterabili di ogni narrazione che si voglia efficace. Come se Vogler avesse voluto “mitizzare” la struttura narrativa attraverso un’operazione di riduzione e prosciugamento che l’ ha, per così dire, fissata in un’ essenza che si pretende definitiva. In questo modo, si potrebbe forse dire, è la stessa forma narrativa che a diventare mito. Mentre gli elementi narrativi individuati da Greimas possono virtualmente essere applicati a racconti di ogni genere, da quelli di uno schizofrenico o di un bambino a quelli che si svelano nel segreto di un confessionale, il mito dell’eroe, in Vogler, predetermina la struttura del racconto stesso, nel nome di pretese regole universali che vanno il più possibile rispettate. Al fondo, si dirà, c’è una differenza di approccio: Vogler scrive manuali ad uso degli sceneggiatori, non si occupa di teorie del linguaggio. Insomma, Greimas ha individuato delle strutture, mentre Vogler, da quelle strutture, ha saputo estrarre ciò che più si presta alla realizzazione di una sceneggiatura di successo. Usando il gergo degli ingegneri del passato, si potrebbe liquidare la faccenda dicendo che il primo ha fatto ricerca pura, il secondo ricerca applicata. Ma sarebbe una comoda semplificazione che lascia irrisolto il problema da cui siamo partiti. Le teorie di Vogler funzionano perché racchiudono i fondamentali del racconto ? Sono davvero “archetipiche” e universali o, piuttosto, si limitano a circoscrivere la narrazione in uno schema normativo predefinito ?
Spazio per dietrologie ce n’è in entrambi i casi: se il viaggio dell’eroe è un archetipo irresistibile, allora, molto semplicemente, ci viene inflitto perché garantisce forti margini di successo al messaggio che intende trasmettere. Se invece i miti sono costruzioni storicamente determinate, come pensava Barthes, dobbiamo interrogarci sulla loro funzione più esplicitamente politica e ideologica: circoscrivono la narrazione in uno schema che veicola sistematicamente un insieme di valori che si vogliono condivisi. In questo secondo caso, il fatto che funzionino non dipende dal loro potere di archetipi, ma dalla loro costante ripetizione. Sono solo dei memi che tuttavia, come si dice delle lingue ufficiali, dispongono di un esercito e di una marina.
Parentesi: non starei qui a tormentarvi con simili volate teoriche se non fossi convinto che riguardano fenomeni concreti e attuali. Per esempio, la costruzione dei cosiddetti brand, che mirano a rendere riconoscibili i grandi protagonisti della rivoluzione informatica e le loro aziende, si presenta sempre più spesso come un tessuto di rappresentazioni mitologiche dell’eroe. Si pensi a Jeff Bezos, fondatore di Amazon, e al suo esclusivo viaggio nello spazio, su una navicella fatta costruire ad hoc e costato cinque miliardi di dollari. Oppure, si rifletta sulla speranza di Elon Musk di riuscire un giorno a traghettare il genere umano su Marte. Ci troviamo di fronte a una continua allusione al mito del viaggio dell’eroe come garanzia di affidabilità per organizzazioni di cui vediamo crescere ogni giorno non solo il potere economico e finanziario, ma anche quello politico. C’è di peggio: Vogler insiste su un’equazione tra dimensione soggettiva e dimensione narrativa: la nostra vita per lui è un viaggio dell’eroe. Di qui l’irresistibile identificazione col personaggio principale:
«L’archetipo dell’eroe rappresenta la ricerca da parte dell’Io dell’identità e della compiutezza. Nel processo che ci trasforma in uomini compiuti, siamo tutti Eroi che affrontano guardiani interiori, mostri e aiutanti».
Qualcuno ricorda James Holmes, che il 20 Luglio del 2012 è entrato in un cinema di Aurora (Colorado) vestito con elmetto, gambali antiproiettile, una maschera antigas e ha iniziato a sparare sul pubblico uccidendo dodici persone e ferendone settanta ? Holmes, in qualche modo misterioso, si identificava con il super-eroe protagonista del film in proiezione quella sera, Batman.
Franco Berardi, uno dei pochi studiosi che in Italia hanno dedicato un pregevole lavoro di ricerca al fenomeno dei cosiddetti “suicidi micidiali”, l’ha intitolato Heroes, come a voler suggerire una prossimità tra la follia di questi gesti e un’idea delirante di eroismo individuale. Si badi: non penso minimamente che il successo delle teorie di Vogler sia in qualche modo all’origine di questi fenomeni di violenza omicida. Penso però che il mito dell’eroe andrebbe indagato con maggior attenzione, specialmente nei suoi rapporti con i processi di soggettivazione in epoca neoliberale. “Nel processo che ci trasforma in uomini compiuti” un’identità presa troppo sul serio, mitizzata, vorrà manifestarsi perfino quando, confinata in dimensioni immaginarie, ha mancato tutti i principali appuntamenti con l’esperienza, con il vissuto, con l’alterità. Così, il vuoto finisce con il deflagrare. Vale qui riportare altre tre righe fondamentali dal saggio conclusivo di Miti d’oggi, lì dove Barthes scrive:«La funzione del mito è di svuotare il reale: alla lettera esso è un deflusso incessante, un’emorragia o se si preferisce un’evaporazione, insomma un’assenza sensibile». Come dire: fate il pieno di miti e avrete in cambio un’esistenza irreale.
Tra le pagine di un libro recente di una studiosa femminista, Laura Marzi, trovo un elenco di obiezioni radicali al mito maschile dell’eroe, nei termini di un’affilata polemica di genere. Marzi non ha in mente Vogler o la semiotica narrativa di Greimas (che peraltro conosce benissimo). Vuole cogliere, invece, un’alternativa di genere all’eroismo maschile, che definisce attraverso un termine nuovo, eroinismo, particolarmente utile per trovare il senso della narrazione nel lavoro delle badanti, delle tate, delle colf, delle baby sitter. Eroine viventi e carnali che certamente viaggiano, superano prove, incontrano mostri, incantesimi, amici e nemici, ma il cui eroinismo si snoda su dimensioni del tutto diverse da quelle dell’eroe maschile.
Di quest’ultimo è utile tentare di riassumere le due caratteristiche principali delineate da Laura Marzi.
Primo, l’intesa permanente, profonda e radicale dell’eroe maschile con la morte. Marzi, in una serrata elencazione di riferimenti tratti in larga parte dalla letteratura critica di genere, segnala tra l’altro come alla voce “eroe” del Grande Dizionario Garzanti della Lingua Italiana, il primo esempio sia “morire da eroe”. Marchio patriarcale, la morte accompagna l’eroe come un basso di fondo che, scrive Marzi traducendo Maurice Blanchot, “dall’inizio alla fine tiene tutta la scena, che parla quando l’eroe parla e gli risponde quando lui tace”.
Secondo, e altrettanto cruciale argomento, l’eroe maschile deve bastare a se stesso:
«La forza stessa di un eroe è tale anche perché non si fa mai influenzare o fermare dai suoi legami né dalla volontà di coloro con cui è in relazione: un eroe persegue sempre la sua impresa senza mai lasciarsi frenare dagli obblighi che ha nei confronti degli altri».
Tanto la relazione con la morte quanto l’indifferenza e il distacco dell’eroe maschile nei confronti delle relazioni non trovano ospitalità nell’eroinismo di Marzi:
«Le azioni delle personagge protagoniste di storie di cura, delle eroine, sono in primo luogo una risposta alla vulnerabilità e alla dipendenza umane e si fondano sull’esistenza di una relazione. L’eroismo femminista, l’eroinismo, quindi, si definisce attraverso azioni volte al mantenimento e alla salvaguardia della vita».
Contrariamente a quanto sostengono in molti, il mito dell’eroe maschile non andrebbe universalizzato ma definitivamente sistemato in archivio. Lungi dal costituire il paradigma naturale della narrazione, rischia di costituirne una gabbia. Fortuna che le celle, a volte, hanno le ali.
Giuseppe Nicolosi