evidenza, interlocuzioni

Il mercato del lavoro in Italia

di Federica
Pintaldi

comparazioni internazionali, debolezze persistenti e rilevanza di alcuni interventi normativi*

Fabio Massimo Rapiti e Federica Pintaldi

In questo articolo, che si collega a quello pubblicato sullo scorso numero del Menabò, confrontiamo la struttura occupazionale e professionale dell’Italia con l’Unione europea e accenniamo agli effetti dei vari interventi normativi sull’andamento dei contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato. Anche queste analisi sono largamente riprese dal Rapporto annuale “Il mercato del lavoro 2018: verso una lettura integrata“, pubblicato di recente e frutto della collaborazione sviluppata nell’ambito dell’Accordo quadro stipulato tra Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Istat, Inps, Inail e Anpal di cui abbiamo parlato nell’articolo precedente.

Lo sconfortante confronto con l’Ue. Nonostante la crescita dell’occupazione negli ultimi anni, rimane ampia la distanza tra l’Italia e l’Ue sia nella partecipazione sia nella struttura occupazionale. In Italia, lavora o cerca lavoro poco più della metà della popolazione tra 15 e 74 anni (57,1% nel 2017). Il gap di 7,5 punti con la media Ue è dovuto alle forti differenze di genere e soprattutto territoriali che caratterizzano il nostro paese: se il Nord ha un tasso di attività di 2,3 punti inferiore a quello europeo, per il Mezzogiorno il divario supera i 16 punti. Includendo anche quella parte di inattivi interessati a lavorare (le forze lavoro potenziali) in un ipotetico “tasso di attività allargato”, la partecipazione salirebbe al 67,4% in Europa e al 64% in Italia, ridimensionando il divario (3,4 punti), soprattutto per gli uomini; tale diminuzione del gap pone in luce la più ampia presenza in Italia di quella parte di inattivi vicini al mercato del lavoro che cercano un’occupazione con meno continuità dei disoccupati, spesso perché scoraggiati nella possibilità di trovarlo ma anche per la debolezza degli enti di intermediazione fra domanda e offerta.

Tavola 1 – Numero di occupati, tasso di occupazione e gap occupazionale tra Italia e Ue15. Anno 2017 (valori assoluti in migliaia, percentuali e differenze in punti percentuali)

Nel complesso, in termini assoluti, nel 2017 la forza lavoro non utilizzata potenzialmente impiegabile nel sistema produttivo ammonta a circa sei milioni di individui (2 milioni e 900 mila disoccupati e 3 milioni 131 mila forze di lavoro potenziali). Per raggiungere il tasso di occupazione della media Ue15 (nel 2017 pari 67,9%, contro il 58,0% di quello italiano) il nostro paese dovrebbe avere circa 3,8 milioni di occupati in più. Il confronto tra Italia e Ue15 nei tassi di occupazione specifici per settore (il rapporto tra gli occupati in un settore economico e la popolazione 15-64 anni) mette in luce che il gap occupazionale si concentra in alcuni comparti e in determinate sottopopolazioni (E. Reyneri, Introduzione alla sociologia del mercato del lavoro, 2017).

Nel settore dei servizi alle famiglie, nell’industria e in agricoltura e pesca il tasso di occupazione italiano è addirittura più elevato rispetto a quello dell’Ue15. Negli ultimi due comparti ciò non sorprende, avendo l’Italia una tradizionale specializzazione produttiva in diversi settori manifatturieri e, seppure in misura minore, anche in agricoltura e pesca. La maggiore occupazione nei servizi alle famiglie dipende invece dalla specificità del modello di welfare familistico italiano, in cui alla carenza dei servizi pubblici si è sopperito con il lavoro domestico e di cura da parte delle donne e negli ultimi anni anche con l’acquisto sul mercato da parte delle famiglie di servizi domestici e di cura (badanti, colf, baby-sitter, ecc.), forniti in larga parte da lavoratori stranieri. D’altro canto la carenza occupazionale rispetto al “modello” Ue15 si concentra nel settore della sanità e assistenza sociale (circa 1,4 milioni di occupati in meno) e, seppure in misura minore, nell’istruzione, nella pubblica amministrazione oltre che nelle attività immobiliari, professionali e noleggio e nel commercio. Quindi, per colmare la distanza rispetto al tasso europeo, all’Italia “manca” occupazione soprattutto nei settori a elevata concentrazione di lavoro qualificato e nel terziario, prevalentemente pubblico. Tale divario strutturale si è ampliato nell’ultimo decennio anche a causa del blocco delle assunzioni nella pa durante gli anni della crisi e non è facile da colmare tenuto conto dell’elevato debito pubblico.

Ancora più elevate risultano poi le differenze con l’Ue15 nei tassi di occupazione dei giovani (15-39 anni), dei laureati e nelle professioni qualificate: in tali casi l’occupazione necessaria equivale rispettivamente a 2,4 milioni, 4,3 milioni e 3,3 milioni di unità.

Al riguardo, come conseguenza del basso livello di domanda di lavoro qualificato, l’Italia sconta il paradosso di avere la minore percentuale di laureati sulla popolazione nella Ue (subito dopo la Romania) ma anche una quota simile alla media Ue di occupati che svolgono un lavoro per il quale titolo di studio richiesto è inferiore a quello posseduto. Del resto, nel confronto tra la quota di laureati sulla popolazione (offerta di lavoro potenziale) e quella di occupati in professioni intellettuali e tecniche (domanda di lavoro qualificato) il nostro paese presenta uno squilibrio a “basso livello” nei due indicatori, collocandosi nel quadrante in basso a sinistra (Figura 1; cfr. anche l’articolo di E. Reyneri sul Menabò).

Figura 1 – Laureati di 15-64 anni e occupati in professioni intellettuali e tecniche. Anno 2017 (valori percentuali)

In particolare, in Italia nel 2017 gli occupati sovraistruiti erano 5 milioni 569mila, il 24,2% del totale occupati e il 35,0% degli occupati diplomati e laureati. Negli anni il fenomeno è in continua crescita, sia in virtù di una domanda di lavoro non adeguata al generale innalzamento del livello di istruzione sia per la mancata corrispondenza tra le competenze specialistiche richieste dalle aziende e quelle possedute dagli individui. Tra i laureati che svolgono un lavoro per il quale il titolo di studio più richiesto è inferiore a quello posseduto le professioni più diffuse sono quelle di tecnico informatico, contabile, personale di segreteria, impiegato amministrativo mentre tra i diplomati prevalgano i lavori di barista, cameriere, muratore e camionista. Il fenomeno si attenua progressivamente al crescere dell’età, ad eccezione dei lavoratori stranieri per i quali la sovraistruzione si protrae negli anni.

Il tempo indeterminato tra ciclo economico e interventi normativi. Negli ultimi anni i governi che si sono succeduti hanno effettuato numerose riforme della normativa del mercato del lavoro (Fornero 2012, Decreto Poletti 2014; Job Act 2015; Decreto Dignità 2018 solo per citare le ultime). In particolare, nel Rapporto vengono esaminati alcuni interventi di maggior impatto sull’andamento dell’occupazione: gli sgravi contributivi sulle assunzioni a tempo indeterminato che indubbiamente hanno influenzato fortemente la dinamica congiunturale del lavoro dipendente. L’analisi dei saldi di flussi di assunzioni, cessazioni e trasformazioni rende evidente l’effetto congiunto di andamento ciclico e modifiche normative (Figura 2). Nel dettaglio, il forte aumento delle posizioni lavorative a tempo indeterminato tra il 2015 e il 2016 è in larga parte dovuto allo sgravio contributivo triennale e biennale di quegli anni. In seguito, l’alto volume di contratti di lavoro a tempo determinato attivati nel 2017 ha comportato un successivo aumento del tempo indeterminato nel 2018 dovuto principalmente alle trasformazioni; difatti le trasformazioni a tempo indeterminato sono una quota relativamente stabile del numero di assunzioni a tempo determinato dell’anno precedente. Peraltro, per i giovani fino a 34 anni tale crescita è stata influenzata anche dagli incentivi previsti dalla legge di stabilità 2018. Inoltre sui dati del quarto trimestre 2018 potrebbe aver avuto un ruolo anche l’entrata in vigore del c.d. Decreto Dignità che ha scoraggiato l’utilizzo del tempo determinato spingendo le imprese a una articolata risposta che include l’anticipo delle trasformazioni.

Nel complesso, sulla base dei dati Inps, negli ultimi cinque anni si riscontra una significativa variabilità nell’incidenza dei rapporti di lavoro agevolati sul totale delle assunzioni e trasformazioni a tempo indeterminato: dal 16% del 2014 al 61% del 2015 per poi scendere al minimo del 10% del 2017; nel 2018 (primi nove mesi) si registra una risalita (circa il 15%). Generalmente l’incidenza delle agevolazioni è più elevata per le trasformazioni, con il massimo raggiunto nel 2015 (agevolate il 76% del totale).

Figura 2 – Posizioni lavorative per carattere dell’occupazione e trasformazioni a tempo indeterminato. I 2011-IV 2018 (dati annualizzati, variazioni assolute in migliaia)

In assoluto l’esonero triennale varato per il 2015 risulta di gran lunga l’intervento che ha avuto l’impatto più rilevante: le attivazioni agevolate hanno spinto il numero complessivo di attivazioni a un livello molto più elevato rispetto sia agli anni precedenti che a quelli successivi. A fronte di un volume di cessazioni tendenzialmente stabile, le attivazioni e le trasformazioni del 2015 hanno determinato una forte crescita delle posizioni di lavoro a tempo indeterminato.

Nel triennio 2015-2017, periodo in cui si sono sovrapposti numerosi provvedimenti di agevolazione dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato a livello nazionale, oltre un terzo delle aziende con dipendenti a tempo indeterminato risulta interessato da almeno un rapporto di lavoro agevolato. L’importo medio su base annua per ciascun dipendente incentivato oscilla intorno ai 4 mila euro annui raggiungendo il massimo nel 2015 (4.621 euro).

Il ricorso alle agevolazioni è risultato prevalente nelle piccole imprese, più frequente nel Mezzogiorno e nei comparti delle costruzioni e del commercio. In sostanza per le piccole imprese l’agevolazione, se rilevante, assume un significato di sostanziale abbattimento del costo del lavoro complessivo, il che può “spingere” ulteriormente la già fisiologica maggior movimentazione di rapporti di lavoro nelle piccole imprese.

Tra i giovani under 30 la quota di dipendenti beneficiari di incentivo è più elevata del valore medio: nel 2016 raggiunge il 34% ma sono significativi anche i valori registrati per il 2015 (27%) e per il 2017 (26%). Ciò è dovuto a due fattori: a) l’esistenza di programmi specificamente dedicati ai giovani (Garanzia Giovani, bonus Giovannini); b) la fisiologica maggior incidenza dei giovani sui flussi, condizione per essere beneficiari delle agevolazioni.

Resta il fatto che il contratto dipendente a termine rimane il canale più frequente di accesso al mercato del lavoro, ancor più evidente per i giovani alla prima esperienza di lavoro. Al riguardo, nel 2017, dei circa 773 mila primi ingressi di giovani di 15-29 anni nel lavoro dipendente, parasubordinato e in somministrazione oltre la metà avviene con un contratto a tempo determinato (50,5%), seguito da apprendistato (14%) e lavoro intermittente (11,9%), con quote intorno al 9% per il tempo indeterminato e il lavoro in somministrazione e al 4% per le collaborazioni.

Anche in questo caso, nel triennio è evidente il forte impatto sulla distribuzione dei contratti al primo ingresso delle modifiche normative: nel 2017 si assiste al dimezzamento del tempo indeterminato a seguito del venir meno dell’incentivo della decontribuzione piena del 2015 e alla triplicazione dei nuovi ingressi con lavoro intermittente in concomitanza con l’abolizione dei voucher a marzo dello stesso anno.

Alloggio e ristorazione, trasporto e altri servizi di mercato sono i settori più ricettivi per i giovani alla prima esperienza di lavoro dipendente; camerieri e assimilati, commessi delle vendite al minuto, braccianti agricoli, lavori esecutivi di ufficio sono le professioni più frequenti.

Conclusioni. Malgrado la ripresa dell’occupazione i problemi del mercato del lavoro italiano restano numerosi e piuttosto seri. In particolare, c’è il problema degli squilibri territoriali e quello della tendenza alla crescita soprattutto delle occupazioni a bassa qualifica e bassa retribuzione. Le politiche dovrebbero essere indirizzate a questi problemi. Al contrario, c’è una eccessiva attenzione alle riforme della normativa che regolano il mercato del lavoro poiché se ne sopravvalutano spesso gli effetti (positivi o negativi) sull’occupazione: nella maggior parte dei casi si risolvono in modifiche al margine del mix di tipologie contrattuali senza aumentarne il totale. Se, per esempio, è vero che la decontribuzione a pioggia 2015-2016 coinvolgendo moltissime imprese e lavoratori e impegnando molte risorse pubbliche è stata utile per accelerare la ripresa e il suo contenuto occupazionale, si è rivelata comunque un incentivo temporaneo con effetti prevalentemente congiunturali ma scarsi nel lungo termine.

Non si può invece eludere, in primo luogo, il tema dello sviluppo del Mezzogiorno, in cui la crescente emigrazione della forza lavoro qualificata verso Centro-Nord e l’estero ne indebolisce ancor di più le potenzialità. In secondo luogo occorrerebbe incoraggiare politiche industriali strategiche che favoriscano lo sviluppo di attività in settori avanzati e in produzione di beni o servizi innovativi, per quali la competitività si basa sulla conoscenza piuttosto che sul basso costo del lavoro.

In questa direzione dovrebbero avere un ruolo chiave le politiche pubbliche di ripresa degli investimenti produttivi e delle assunzioni in servizi pubblici essenziali che hanno ricadute dirette sul sistema economico e sulle famiglie (ricerca e innovazione, infrastrutture, servizi per l’incontro domanda-offerta di lavoro, servizi alle imprese, giustizia civile, istruzione e formazione continua, welfare, sanità, assistenza); esse sono indispensabili non solo per rafforzare le potenzialità della struttura economica e accrescere la produttività del sistema ma anche per mantenere e migliorare la qualità della vita delle famiglie e aumentare quantitativamente e qualitativamente l’offerta di lavoro.

Tali politiche avrebbero il pregio di aumentare la stagnante domanda aggregata agendo allo stesso tempo su diversi colli di bottiglia dell’offerta (di beni e servizi e di lavoro) attivando così un circolo virtuoso.

*Le considerazioni presentate sono di responsabilità esclusiva degli autori e non impegnano in alcun modo l’Istituzione di appartenenza.

pubblicato su eticaeconomia.it