di Giancarlo Scotoni –
Non è semplice interrogarsi su cosa spinga un giovane come Lorenzo Orsetti di Firenze a abbandonare la sua “normale” esistenza e a arruolarsi nella guerra contro l’Isis. L’Isis -o per meglio dire Daesh- è il gruppo terroristico che ora sembra mettere a rischio la nostra quotidianità e ora sembra scomparire dall’orizzonte delle nostre preoccupazioni lasciando solo le coppie di militari armati di fucile d’assalto alle fermate della metro. [In realtà, oltre che responsabile di attacchi terroristici in Europa, Daesh è un gruppo terroristico-religioso foraggiato da diversi centri -e Stati- sunniti contro gli sciiti e le popolazioni sciite. Ad esempio, attualmente numerosi suoi membri sbandati sono stati re-inquadrati e ri-armati nelle milizie ausiliarie dell’esercito turco per l’illegale invasione e occupazione di Afrin nella Siria del Nord.]
Lorenzo Orsetti era membro del collettivo Da Rifredi ad Afrin e si era poi unito alle Unità di Difesa del Popolo, le milizie della Federazione Democratica della Siria del Nord. Queste forze – a cui spesso si fa riferimento definendole per approssimazione “curde” – sostengono un progetto di pacificazione della regione basato sul riconoscimento della parità tra le diverse etnie e fedi religiose, sulla parità tra i generi, sulla sostenibilità ecologica e sulla democrazia. Non a caso su di esse è pesata gran parte dell’aggressione e della lotta contro Daesh. La Federazione Democratrica della Siria del Nord è infatti un progetto costitutivamente antagonista sia all’oscurantismo integralista che alle forze che lo hanno inconfessabilmente evocato per i propri scopi.
Nel vicino oriente si recitano le ultime battute dell’antico dramma del controllo delle fonti petrolifere e le battute (iniziali?) del nuovo dramma del controlo degli assi di penetrazione tra mercati (leggete al proposito l’articolo di Fabio Alberti “Guerra sulla via della seta“). Il Nord della Siria, l’Iraq, … ci sono davvero prossimi. Eppure si tratta di distanze siderali: nei nostri giornali da molti mesi compaiono davvero di rado. Esistono altresì molti europei (e italiani) che lavorano laggiù: tecnici per l’estrazione del petrolio, militari, contractors, e volontari delle ong, e persino foreign figther di Daesh.
Lorenzo Orsetti non apparteneva a nessuna di queste categorie, si considerava e era considerato dai suoi compagni un anarchico e un internazionalista, cioè qualcuno disposto a combattere altruisticamente un feroce conflitto per una causa comune e pacifista. Siccome su facebook alcuni suoi amici hanno condiviso i messaggi che Lorenzo inviava loro, è semplicemente giusto pubblicarli -anche se mancano le fotografie a corredo-, rispettando le sue parole.
Ma Lorenzo Orsetti non è un caso isolato: una parte consistente di europei e europee hanno stabilito forti legami con la causa del confederalismo democratico. Per molte europee e europei ha una importanza decisiva il fatto che la lotta per l’indipendenza curda sia fuoriuscita dall’ordine bipolare USA-URSS trasformandosi in un progetto democratico dal basso in grado di contrastare le differenze di genere, etniche e religiose in quanto fonti di sfruttamento, di dominio e di guerra. Queste persone sentono che la “causa curda” è centrale nel mondo odierno in modo analogo a quello della Spagna del 1936, della repubblica dei Consigli, della Comune di Parigi, … e -ancora- la considerano una fronte avanzata della battaglia femminile. Inoltre in questi anni abbiamo assistito anche a tutta una serie di iniziative di solidarietà tra cui spicca l’impegno di associazioni, istituzioni e Chiese europee per la ricostruzione della città simbolo di Kobane.
La sensibilità di tante e tanti non va condita di retorica o considerata superficialmente: in Siria il conflitto ha dato luogo a un originale e importante esperimento politico-sociale che è diventata la speranza di un superamento della guerra. A questa realtà costituita e alla speranza concreta che incarna vanno date da parte della UE riconoscimento e interlocuzione: la Federazione della Siria del Nord -che ha rotto con condizioni di partenza che potremmo definire “libiche”- ha diritto a essere riconosciuta come interlocutrice nel processo di composizione del conflitto in corso, la Turchia deve essere costretta a abbandonare il cantone di Afrin -territorio siriano che ha invaso in spregio al diritto internazionale-, il regime di Erdogan va sanzionato per le violazioni verso le opposizioni e i detenuti politici -tra cui spicca Ocalan-. La sinistra in europa deve impegnarsi a questo proposito non tanto per “rispondere” alla sensibilità della sua gente ma per assumere degnamente le dimensioni e i caratteri dello scontro in atto.
Ma ora la parola va a Orso.
August 31, 2017 ·
”Per me il problema non é “se si possa uscire da questa prigione”, ma “quanto comodo fa stare in questa prigione”… Nessuno di noi borghesi cognitivi vuole *davvero* uscirne. Questo é per me il nodo ideologico centrale. In questo senso l’uso del termine “prigione” coincide con questa mistificazione ideologica: i muri che vedi attorno non sono la *nostra* prigione, ma quella degli altri. I muri che vedi sono le fortificazioni che proteggono il nostro benessere. I muri sono ricoperti di scritte contro i muri, abbasso i muri, distruggiamo i muri, ma pochi hanno *davvero* intenzione di prenderli a picconate.”
September 24, 2017 ·
YouTube
Per un po’ sarò senza internet, tutti quelli che non sono riuscito a salutare li saluto qui e ora, vi auguro il meglio a tutti.
Ci incontreremo ancora
Non so dove, non so quando
Ma so che ci rincontreremo
In qualche giorno di sole.
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December 10, 2017 ·
LA RIVOLUZIONE PIÙ BELLA DEL MONDO! Non avete idea di che sollievo sia trovare un posto dove parole tipo: Libertà, uguaglianza, democrazia, rispetto, femminismo, socialità, ecc..ecc.. hanno ancora un senso, non sono state stravolte, o peggio ancora (come da noi) svuotate di ogni significato. La cosa più bella che ho trovato qua finora? La speranza, e me la tengo ben stretta.
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December 12, 2017 ·
TANTO PER ESSERE CHIARI: non sono un pazzo, un incosciente, uno che si trova qua per caso, uno in cerca di fama o un invasato militare. Non mi piacciono le guerre, e non ho mai confuso i videogiochi e i film di hollywood con la vita reale (pratica ahimé, assai comune tra alcuni internazionali. Del resto purtroppo sono nati e cresciuti nella società che abbiamo, ed in un certo senso sono vittime anche loro). Sapevo benissimo i rischi ai quali andavo incontro e ne sono consapevole tutt’ora. Se non m’importa é perché sono fermamente convinto che NON PUÒ ESISTERE LIBERTÀ SENZA ASSUMERSI I PROPRI RISCHI, lo spauracchio della sicurezza, usato per ingabbiare la gente nella minaccia costante su di me non ha mai sortito alcun effetto. La rivoluzione curda é la cosa più vicina ai miei ideali che abbia mai trovato, ed é un piacere ed un onore prendervi parte.
(nella foto: la mia vecchia vita)
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January 27, 2018 ·
Le ansie, il disagio che proviamo ogni giorno, le insicurezze, sappiamo bene essere indotte dalla società attuale (della quale lo spettacolo é portavoce). Deboli, divisi, manipolabili, conformi al ruolo che ci é stato designato. Incapaci di trovare sollievo (superficiale e momentaneo) se non nel consumo. Vedere famiglie così unite, che hanno poco e nulla se non il reciproco affetto, che hanno lottato, hanno sofferto (in ognuna di esse vi é qualche membro che ha dato la vita durante la lotta o morto sotto qualche bombardamento), e che nonostante tutto trovano la forza di continuare le propria vita con il sorriso penso mi abbia dato una grandissima lezione di vita. Amore, dolore, ho sempre pensato fossero due facce della stessa medaglia, due sentimenti indissolubili, ma forse mi sbagliavo. Bisogna combattere per ciò che si ama, e anche quando la situazione sembra delle più nere non si deve mai permettere al dolore di avere la meglio. Una vita semplice, a misura d’uomo, fatta di poche cose e di emozioni autentiche é possibile, ma vuol dire rinunciare a tutto quello che ci hanno fatto credere essere indispensabile
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February 14, 2018 ·
Oh raga sto bene, scusate se ogni tanto non mi faccio vivo ma dice guerriglia nei boschi e smartphone non vanno tanto d’accordo. Grazie a tutti degli auguri!
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March 11, 2018 ·
Rifredi nel ♥
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March 12, 2018 ·
Abbiamo perso diversi villaggi, molti compagni sono rimasti uccisi, il nemico è molto vicino a chiudere la città del tutto e molto probabilmente ci toccherà affrontare un assedio; hanno elicotteri, droni, carrarmati, e aerei carichi di bombe. Eppure, nonostante la possibilità di andarsene, abbiamo deciso di rimanere a difesa della città e della popolazione. Gli eserciti regolari possono permettersi di combattere solo le battaglie che possono vincere, noi è un lusso che non ci possiamo concedere.
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April 24, 2018 ·
Nella notte tra il 23 e il 24 aprile cominciano le deportazioni. Si procede in modo sistematico, si comincia dai militari richiamati in servizio, dalle persone di spicco, dalle élite religiose e politiche, dagli intellettuali; ma si arriva ben presto a tutti gli uomini in grado d’imbracciare un’arma e combattere. Nei villaggi, nelle città, restano in prevalenza donne vecchi e bambini: la fine che li attende é di gran lunga peggiore della fucilazione. Verranno espropriati di tutto, costretti a marciare chilometri e chilometri nelle peggiori condizioni, rinchiusi in lager e lasciati morire lentamente di fame, sete, e malattie. Bande di malviventi usciti per indulto dalle carceri si uniranno a tribù e criminali locali nel compiere ogni genere di nefandezza e razzia. Daranno la caccia ai pochi fuggitivi ed assalteranno le colonne dei deportati. Molte, moltissime donne e bambini verranno stuprati o venduti come schiavi per i bordelli Siriani. Durante le estenuanti marce subiranno ogni genere di abuso. Le torture sono frequenti e feroci: si cavano gli occhi, si strappano l’unghie con tenaglie. Bruciano i corpi; come se il fuoco bastasse a far scomparire quell’orrore.
Quasi nessuno dei nazionalisti-islamisti dei “giovani Turchi” pagò per lo sterminio di un milione e mezzo di Armeni.
Intanto, ad Ankara, si continua a negare in modo ottuso fatti e documentazioni storiche. Erdogan parla ancora della Grecia e delle sue isole come se gli fossero state sottratte ingiustamente, e, in generale, molti partiti politici all’interno delle istituzioni Turche guardano con nostalgia ai tempi dell’impero Ottomano. La tortura é ancora pratica assai frequente nelle caserme e nelle carceri, le stesse carceri dalle quali escono, all’occorrenza, bande di Jihadisti con le peggiori intenzioni. Nell’era della comunicazione globale la Turchia non può permettersi (apertamente) di gettare la maschera, ma a distanza di oltre un secolo nel suo retaggio niente é cambiato.
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May 1, 2018 ·
Un augurio (quello di disertare!) a tutti i lavoratori.
“Il lavoro rende liberi” é solo una balla scritta sopra a vecchi cancelli tedeschi
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Da queste parti, in particolar modo quando ci sono eventi che coinvolgono molte persone, le unità di difesa civile (HPC) hanno il compito di assicurarsi che tutto si svolga senza intoppi. Sono abitanti della comunità del posto che, a girare, si addestrano per fornire difesa in caso di necessità. La possibilità del popolo di autodifendersi (che è ben lontana dalla concezione individualista della Lega, o degli Americani; e che non vuol dir nemmeno mettere un fucile in mano al primo Zio Michele che passa) è una condizione base per conseguire una libertà reale e degna di essere chiamata tale. Ma più probabilmente in questo caso sarebbero state chiamate delle unità femminili (Jin Asayîşa) le quali si occupano specialmente delle violenze rivolte alle donne, e lì, penso che i nostri “eroi” avrebbero passato un brutto quarto d’ora. Che la sbronza ti passa quando hai la canna di un AK su per il culo. (sulle violenze all’adunata degli alpini).
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July 30, 2018 ·
Men and women, united, who collaborate and fight side by side. There is no other way for a real revolution. Anyone who considers himself a comrade would do well to put this basic concept into his head. We need each other, if we allow the anger and the prejudice to have the best our every action is doomed to fail
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August 16, 2018 ·
Non sono neanche le sette. Abbiamo finito da poco di fare colazione quando sentiamo un boato ”È un mortaio!” esclama un mio compagno, “chi vuoi che ci spari con un mortaio da ‘ste parti?! è una mina sicuro” gli dico. Una colonna di fumo si solleva dall’incrocio con la strada principale. Prendo immediatamente il fucile e salto sul retro del pick-up che stava già partendo. Il furgone che ci rifornisce d’acqua è bloccato in mezzo di strada: ha l’abitacolo sfondato, ma lo noterò solo dopo. Disteso sull’asfalto, in una pozza d’acqua e sangue, c’è il conducente. Ha una kefiah attorcigliata ad una gamba, ed è cosciente. I militari con i quali dividiamo il villaggio vogliono portarlo via così com’è. C’imponiamo per fargli un primo soccorso. Gli strappiamo i pantaloni di dosso e applichiamo celox e tourniquet (e meno male, visto che l’arteria era stata recisa). È sforacchiato qua e là dalle schegge dell’esplosione, probabilmente ha una gamba rotta, ma è stato fortunato: il posto di guida del camion è piuttosto rialzato, fosse stata una macchina sarebbe morto al 100%. Lo carichiamo sul retro e partiamo a razzo. Il comandante guida come un pazzo, sfreccia a zig zag tra le macchine, ed ogni buca rischia di sbalzarci fuori. Arrivati all’ospedale di Heseke lo mettiamo su una barella e viene portato subito dentro. Vado a lavarmi le mani, ma quando mi accendo una sigaretta sento lo stesso l’odore del sangue. D’improvviso, in automatico, la mia mente ritorna ad Afrin. Le grida del compagno ferito non fanno che rafforzare questo riflesso. Strilla “Heval! Heval!” mentre lo ricuciono; e mi sembra di risentire un compagno che durante la mia prima operazione urlava nello stesso identico modo: aveva mezza faccia saltata, tanto che sotto la pelle divelta s’intravedevano le ossa del cranio. Kawa gli stringe la mano, non ha mai smesso lungo tutto il tragitto. “Devi essere forte” gli dice con aria solenne, “chissenefrega di essere forte, fa un male cane!” gli risponde il compagno. Beh, non ha tutti i torti. Gli fanno tre iniezioni di morfina, e quando ci dicono che è fuori pericolo lasciamo tre dei suoi con lui e c’incamminiamo verso casa. È la seconda volta in un mese che ci minano la strada della base, questo fa pensare che l’intento fosse colpire noi (probabilmente per la presenza d’internazionali). “Il mattino ha l’odio in bocca” ripeto spesso per scherzare, ma da queste parti è facile che lo scherzo corrisponda a realtà.
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September 19, 2018
É con sommo stupore che apprendo, da fonti Ansa, e grazie all’encomiabile lavoro della DIGOS di Nuoro, che, in Siria, in quello che al momento é uno dei peggiori teatri di guerra del mondo…si spara! Munizioni vere eh, mica cazzi!
Uao! Ancora stento a crederci. Però a sto punto vorrei sapere che idea della guerra hanno la DIGOS e l’antiterrorismo di Nuoro (in fondo sono militari pure loro) e soprattutto, come intenderebbero fermare, se fossero al nostro posto, un esercito di estremisti, fanatici, assassini, stupratori e mutilatori di cadaveri (esercito peraltro molto ben armato da turchia & company)?
Che facciamo, gli tiriamo baci? Elargiamo abbracci?
Massima solidarietà al Compagno Luisi Caria possano queste accuse (idiote?) chiaramente strumentali e intimidatorie cadere al più presto nel nulla che sono.
Intanto abbiamo capito la lezione, e d’ora in poi metteremo solo fiori nei nostri cannoni. Vi aspettiamo con ansia per la perizia balistica. Saluti
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November 10, 2018
Siamo di nuovo in partenza, destinazione Hajin, nella fascia di Deir ez-Zor.
Gli ultimi mesi sono stati difficili, fatti di duro lavoro (sia fisico che mentale), ed infinita pazienza. In questi casi é facile che la stanchezza tenda a minare il morale. Qua la vita é dura, ma semplice, e per fortuna nella sua schiettezza a volte é racchiuso un senso più profondo, in grado di cambiare ogni prospettiva per chi lo sa cogliere… Ci trovavamo nel cimitero dei Martiri di Qamişlo, luogo di per sé molto suggestivo, specie tenendo conto della sacralità con la quale viene trattata la morte in questa cultura; quando al termine di un lungo giro tra le lapidi l’anziano guardiano ci invita a fumare con lui. Insiste più volte per farmi sedere al suo posto, in quella che considera la sedia più comoda, e ci racconta la sua storia. Ha avuto tre figli Şehid, e due, che non rivede da anni, sono a combattere in montagna. Insomma, più o meno la storia di ogni famiglia da queste parti. Il suo volto, bruciato dal sole, e scavato dal tempo, rimarca alla perfezione l’enfasi delle sue parole. Le mani nodose stringono saldamente un vecchio fucile logoro. S’interrompe ogni volta che spengo una sigaretta per frugarsi frettolosamente in tasca ed offrirmene prontamente un’altra.
Ad un certo punto mi prende un braccio, mi fissa dritto, e con voce ferma mi dice: “tu sei venuto qua a difendere la mia terra, a difendere la mia gente, tu sei i miei occhi, tu sei il mio cuore”; e quegli occhi, un tempo di un blu acceso, ma ormai velati di bianco dalla vecchiaia, sono pieni di rispetto e gratitudine sincera. Difficile descrivere come mi sono sentito in quel momento, e anche se l’anziano guardiano non lo saprà mai, quelle sue parole sono state importanti per me. Ho ritrovato quello slancio, che in fondo non avevo mai perso.
Avremo bisogno di tutto il morale possibile, la situazione che ci attende richiede un impegno estremo: Daesh è un nemico forte, ben armato, ed ogni contrattacco che lancia é massiccio e ben coordinato. Ci sono molte perdite da entrambe le parti; è una lotta estremamente dura.
Kawa (nella foto) mi prende in giro, dice che penso troppo alla morte, che non mi devo preoccupare, che siamo “Alhamdulillah!” (nella grazia di Dio). Ecco, io non credo in Dio da molto tempo, e, in generale, a Kawa lo contraddico più o meno sempre, ma per una volta, una soltanto, mi piace pensare che in fondo in fondo, su questo, abbia ragione.
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November 25, 2018
Chillin’ with Daesh guys
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November 29, 2018 ·
Forse riparto tra due giorni, forse due settimane (non si capiscono mai le tempistiche in questo posto), intanto mi godo l’ennesima ondata di cuccioli
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December 1, 2018 ·
La linea del fronte era situata ad una quindicina di Km da Hajin. La nostra nocta, come le altre, era circondata da barricate di terra (dette “satir”) su ogni lato, ed al centro si trovava un piccolo edificio di appena tre stanze. La nocta alla nostra destra era ancora più piccola, distava circa 200 metri; quella a sinistra, più o meno delle nostre dimensioni, ne distava su per giù 500. Una nuova linea di trincee era in costruzione, ma troppo avanzate, e quindi indifendibili. Un’ unità di assiri occupava la base a sinistra, mentre in quella a destra vi erano alcuni degli eremì di heseke che erano partiti con noi. Nel nostro punto vi era una unità di tiratori (ma male equipaggiata, visto che la maggior parte di loro era sprovvista di mirino al fucile), una di sabotaggio (anche loro senza alcuna sorta di mina o esplosivo), ed una di heavy weapons (1-2 humvee, 1-2 Dshke montate sul retro di pickup). Queste squadre non stazionavano fisse, parte dei loro membri andavano e venivano, e, in totale, non eravamo quasi mai più di una quindicina. Discutiamo col comandante per farci lasciare almeno una persona provvista di termal, che, comunque, vista la fitta nebbia che molto spesso ci avvolgeva proprio la notte, non poteva fare gran che.
I primi dieci giorni passano in relativa tranquillità, ma verso le 7 di mattina del giorno 21 vediamo le macchine blindate del nemico avanzare verso la nocta al nostro fianco. Sono due, munite entrambe di torrette, ed uno è un furgone, anch’esso rinforzato da pesanti lastre di metallo su ogni lato. Prendono la nocta accanto con molta facilità; al suo interno vi erano solo solo sei persone: due verranno uccise, uno verrà fatto prigioniero, i restanti tre riusciranno ad uscire dalla parte posteriore della nocta per continuare una debole, ma stoica, resistenza.
Le macchine continuano a muoversi lungo tutto il lato nord; avanzano e si ritirano, dopo brevi soste, nel tentativo di farci sprecare munizioni. Sfruttano le nostre trincee e quelle dell’altra nocta. Di tanto in tanto scaricano i loro combattenti qua e là, sempre al riparo dei numerosi satir. Cerchiamo di colpire la macchina a 200 m con il bisfing, ed in un paio di casi ci andiamo molto vicino; uno dei nostri razzi anticarro esplode a due passi dal retro del bus, ma senza gravi conseguenze.
Durante lo scontro ne ammazziamo diversi. Li vediamo trasportare a spalla i corpi per caricarli sul furgone. Ad una certa sembrano ritirarsi; in un impeto di gioia ed esaltazione alcuni dei nostri scavalcano il satir. Grave errore. Da dietro una duna appare una delle due macchine; fa fuoco, e colpisce uno dei nostri. Tutti corrono indietro, al riparo nella barricata, ma un compagno dell’heavy weapon cerca di trascinare via il ferito. Gli urliamo di rientrare, ma inutilmente. Poco dopo verrà centrato in pieno volto.
Le munizioni cominciano a scarseggiare, e lo scontro non accenna a finire. In diversi siamo rimasti con un solo caricatore. Il comandante cerca qualcuno che salga sull’humvee e vada a recuperare i corpi. Senza neanche pensarci mi offro volontario, e mi tuffo di corsa nell’abitacolo. Il mezzo fa il giro largo, i proiettili s’infrangono sui vetri già incrinati. Appena raggiungiamo i due corpi ci fiondiamo fuori e li trasciniamo fino al bagagliaio. Continuano a spararci addosso, ma nel giro di trenta secondi siamo di nuovo in marcia . Portiamo i cadaveri nella nocta degli assiri, che in quel momento era meno colpita dall’attacco. Lì ho modo di prendere poche munizioni ed un paio di razzi da riportare ai miei compagni.
Quando torniamo sono sorpresi di vedermi: un fuser aveva centrato in pieno uno dei nostri humvee poco dopo che ce n’eravamo andati, e mi credevano morto. Dopo un’altra ora circa di scontro a fuoco Daesh si ritira, questa volta davvero.
Dobbiamo insistere, ma alla fine ci vengono portate un paio di casse di munizioni. In molti ci si avventano sopra, e nel giro di due minuti sono già terminate. Firat si lamenta (giustamente) con il comandante, così, nel giro di un’ora, viene portato un’ altro carico. La base è gremita di gente, forze fresche, quello di cui avevamo bisogno, ma non facciamo in tempo ad andare alla tenda a pulire le nostre armi che quando usciamo sono tutti spariti.
Siamo anche meno di prima, circa una quindicina, e scopriamo che dovremo passare la notte così. Siamo tutti sicuri di un prossimo attacco, il primo di solito è un test, ed il maltempo è perfetto per una seconda offensiva. Torneranno, forse di notte forse al mattino, ma torneranno.
Passiamo la notte in stato di allerta, restiamo svegli fino all’alba. Non facciamo a tempo a riposare un paio d’ore che sentiamo i primi spari. Sono lontani, stanno attaccando diverse altre nocte su tutta la linea. Come il giorno prima i blindati si riparano dietro le nostre trincee, ma questa volta sono molti di più, almeno sei o sette. Si tengono a distanza e non scaricano i loro combattenti. Dopo un po’ che ci ronzano attorno alcuni dei loro mezzi indietreggiano a circa un Km e mezzo dove finisce una lunga striscia di dune. Da quella posizione iniziano a pioverci addosso diversi razzi. Non sono bisfing, non sono fuser, ma cascano ugualmente nel nostro perimetro con una precisione assurda per quella distanza. Il Dshke è l’unica cosa con la quale possiamo rispondere, ma non risulta troppo efficace, in più sta già a corto di munizioni. Loro non hanno lo stesso problema: 4-5 moto fanno staffetta avanti e indietro per rifornirli. Il tutto va avanti per più di un’ora. Proviamo a chiamare un attacco aereo, ma il compagno che dovrebbe fornire le coordinate ha qualche problema, e quando finalmente l’aereo arriva (molto in ritardo) i suoi missili esplodono solo a poche centinaia di metri da noi. I blindati comunque non erano più raggruppati all’estremità del satir, ed erano tornati a girarci piuttosto vicini. Contrariamente al giorno prima i nostri bisfing vengano sparati troppo presto, e mancano tutti il bersaglio. Come se non bastasse un proiettile colpisce il Dshke, mandandolo in pezzi. A questo punto molti dei nostri combattenti cominciano a temere il peggio: non abbiamo più bisfing, un Dhske è andato, e comunque non c’erano più munizioni, un blindato carico di Daesh ci è incredibilmente vicino (al riparo dietro uno dei nostri satir ad una cinquantina di metri da noi), mentre altri due stanno salendo lungo i nostri fianchi in una sorta di manovra a tenaglia nel tentativo di accerchiarci. Diversi dei nostri lasciano le posizioni e corrono verso l’humvee che chiude la porta sul retro. Strillano che ce ne dobbiamo andare. La nostra squadra è sempre al suo posto, ma siamo rimasti veramente in pochi. Il comandante della heavy weapons capisce che in quelle condizioni c’è ben poco da fare, parla alla radio, e comunica che ci ritiriamo. Riusciamo a saltare appena in tempo sul retro dei pickup che stavano già partendo. Daesh c’insegue, e proiettili e bisfing a momenti quasi ci prendono. Incrociamo altre macchine, di altre nocte, anch’esse in ritirata come noi. Daesh ha attaccato duramente su tutta la linea, ed i pochi che sono rimasti a combattere fino all’ultimo sono stati uccisi o fatti prigionieri. Rilasceranno un video di propaganda due giorni dopo, dove le teste mozzate di diversi compagni verranno esposte in fila come trofeo.
Torniamo all’oleodotto dove avevamo passato la prima notte. Parliamo col comandante del posto e gli raccontiamo la nostra versione degli eventi. Si dimostra comprensivo e disponibile, dopo averci ascoltati ci congeda, consigliandoci di andarci a riposare.
Quella stessa sera arriva un auto che trasporta due prigionieri catturati poco distante. Uno è Tunisino, l’altro Uzbeko; ci vengono a chiamare visto che uno dei due parla inglese, ed ha una brutta ferita dietro alla schiena. Non dicono molto, recitano la parte degli stupidi, così, dopo averci discusso mezz’ora ed aver applicato un bendaggio, lasciamo che li portino via.
Passiamo la notte lì, col gruppo di Heseke. La mattina dopo vediamo tornare in base molte macchine dei nostri partite la sera prima; la linea del fronte è saltata ci dicono. Prendiamo armi e munizioni e ci disponiamo lungo l’immenso perimetro. Passa poco tempo che anche le truppe della coalizione arrivano. Hanno di tutto: una ventina di blindati, elicotteri, e aerei da guerra. Dopo qualche ora ci raggiunge il comandante dicendoci che è tutto sotto controllo, che ci rimandano indietro, e che un altro tabur prenderà il posto di quello di Heseke. Vorremmo restare, ma non ci va d’insistere.
Durante il ritorno non posso fare a meno di pensare a tutti i compagni che hanno perso la vita senza che la coalizione muovesse un dito, mentre il massiccio dispiegamento di forze a difesa dell’oleodotto lasciava chiaramente intendere che i mezzi in quella zona certamente non mancavano. Inoltre tutte le voci che davano Daesh per finito mi sembrano ora più assurde che mai. Daesh è ancora forte, soprattutto ad Hajin; hanno ottima logistica e gente esperta; non distruggerli ora che ci sarebbe il modo è, a mio avviso, un rischio inutile e grande.
Seduto nel retro del pickup, questi e mille altri pensieri si dibattono nella mia testa, prima che il vento pungente della notte non li sovrasti con il suo gelo. I villaggi per i quali passiamo, seppure in zona nostra, sono pieni di nemici; si può intuire dai loro sguardi sprezzanti al passaggio della carovana. Una volta passati quei suoni, quei colori, resta solo il buio avvolgente del deserto, nient’altro, a scortarci verso casa.
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December 18, 2018 ·
Arriviamo all’oleodotto che le luci del giorno si sono già spente. Il comandante di zona mi riconosce alla prima occhiata. È amichevole come sempre, ed una volta terminate le strette di mano ed i saluti di rito ci fa un breve riepilogo della situazione. Le cose vanno decisamente meglio rispetto all’ultima volta: siamo molto vicini ad Hajin, appena fuori dalla periferia della città, le difese sono solide, e le varie nocte sono state costruite con molto più criterio. Siamo disposti in una sorta di “Z”, con due linee che avvolgono la città ed una che copre il fianco. Ci raccomanda di non entrare per nessun motivo all’interno delle vecchie nocte; nel poco tempo che daesh ne ha preso possesso ha provveduto a minarle meticolosamente, lasciando armi e munizioni ben esposte per attirarci.
Dopo un paio d’ore arrivano due macchine a prenderci. Saliamo in fretta, senza neanche il tempo per le presentazioni, ma una volta in viaggio il compagno al lato del conducente si gira e mi fa: “piacere sono Marwan, Marwan il pazzo”, “piacere Tekoşer, e sono pazzo anch’io” gli dico. Ridiamo. Ha la faccia simpatica, ma anche l’aria di essere un osso duro. È da Kobane che combatte, e non sembra affatto stanco di questa vita. Capisco immediatamente il tipo; ho visto molti altri combattenti come lui: gente instancabile, capace di resistere giorni senza dormire, insensibili al caldo, al freddo, alla paura. Guidiamo a lungo, molto più a lungo dell’altra volta. Quando arriviamo ci invitano a bere il the all’interno di un Defender (grosso furgone blindato munito di torretta). Il çay è buono, e il comandante sembra un tipo affabile. Ci dice che due notti fa Daesh ha attaccato quella posizione, ma senza successo, perdendo quattro uomini, due motociclette, e diverse armi. Si premura inoltre di mostrarci tutte le coordinate del luogo su un tablet, una volta finito, ci dice che per quella notte non siamo di guardia, e che possiamo andare a riposare in una tenda che ha fatto montare appositamente per noi.
Con le prime luci dell’alba abbiamo modo di fare colazione e di guardarci meglio attorno. Si vede subito che il campo è di costruzione recente, infatti la presenza di rifiuti, topi, ed escrementi, è sensibilmente ridotta. La guerra sa essere un posto molto sporco a volte. Mi dirigo verso il punto più sopraelevato, in una grossa barriera di sacchi di sabbia che con gli altri compagni chiameremo “la nave” per via della sua forma singolare. Una volta raggiunta resto sgomento: Hajin è talmente vicina da sembrare un miraggio! Resto basito ad osservarla per qualche attimo, quando un compagno si avvicina da dietro, interrompendo il mio stupore. Si chiama Aras, ed è il caposquadra del gruppo che presidia “la nave”. Sono tutti Arabi, e nessuno sa il curdo, ma non so ancora come, in un tripudio di gesti e parole inesistenti riusciamo comunque ad intenderci . Ovviamente un bicchiere di çay con sovrabbondante dose di zucchero è d’obbligo in queste situazioni.
I giorni volano, e, a parte le interminabili sessioni di guardia notturne, e il tedio tipico del fronte, non si sta poi così male. Una buona parte delle nostre forze sta avanzando rapidamente in città. Chiediamo di poter fare altrettanto, ma dal comando generale ci viene detto di aspettare. Una sera dalla nocta accanto vedono del movimento fra le dune; certi di avere a che fare con dei ricognitori nemici, i compagni decidono di tendergli un imboscata. Ne catturano uno, e lo portano al nostro campo per interrogarlo. Quando vengo a sapere che il prigioniero è nella tenda a fianco mi precipito a vedere. Resto un po’ deluso: mi aspettavo la faccia truce, gli occhi a pazzo, la barba incolta, ed invece mi trovo davanti un ragazzino. Ha una manetta allentata ad un polso, nella mano un bicchiere fumante di çay, ed è avvolto in una grossa coperta. Ha quattordici anni, è nipote di un Emir (comandante-leader) di Daesh, e suo padre era anch’egli un combattente nemico. Con una famiglia del genere quale altro futuro avrebbe potuto avere, mi chiedo. È un sabotatore, addosso gli sono stati rinvenuti gli strumenti utili a minare intorno alla base. Mangia come se non vedesse cibo da giorni, ed infatti è così, ci dice che in città hanno finito le scorte durante l’assedio, sopravvivono mangiando topi e serpenti che riescono a catturare. Aras e Marwan ci parlano a lungo, in un alternarsi di “poliziotto buono – poliziotto cattivo”, poi, quando decidono che può bastare, lo portano via in macchina. Credo che in fondo gli sia andata bene, vista la giovane età sono certo che un giorno lo YPG proverà a reintegrarlo in società in qualche modo.
La mattina che ce ne dobbiamo andare la città è più del 70% sotto il nostro controllo. Nella notte è stato respinto un grosso contrattacco, ed una cinquantina di Daesh hanno perso la vita. La tentazione di rimanere è tanta, ma il battaglione che rimpiazzerà quello di Heseke è composto quasi interamente da Arabi, ed intendersi in maniera efficace sarebbe sicuramente un problema. In più la situazione con la Turchia è più minacciosa che mai, ed il mio comandante a telefono mi chiede di rientrare. Daesh ha lasciato Hajin, e si è ritirato nei villaggi adiacenti. Il tempismo della Turchia fa pensare proprio ad una reazione per la perdita della città. L’invasione sembra imminente, ed in tal caso non penso terremo aperti due fronti; ci toccherà sospendere le operazioni a Deir Ez-zor, entrambi i nostri avversari condividono gli stessi valori e le stesse inclinazioni, e, vada come vada, ci troveranno sempre pronti a dare battaglia
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December 19, 2018 ·
Anonimi funzionari Usa hanno annunciato il ritiro completo della UsArmy dalla Siria del nord. #Trump ha twittato che la guerra all’#ISIS, considerata conclusa, era l’unica ragione per una presenza statunitense nell’area.
Poche ore prima #Erdogan aveva annunciato di aver avuto “semaforo verde” per l’invasione della Federazione democratica della Siria del nord Rojava da parte di Trump.
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December 28, 2018
Da alcune ore gira la notizia che SDF avrebbero lasciato Mambij al regime, NO, non è così, sono stati semplicemente dispiegati altri soldati (che comunque erano già presenti in parte sul territorio) come deterrente per la turchia. In questi giorni è tutto un susseguirsi di notizie sensazionalistiche, sì, la situazione è quella che è, ma evitiamo di credere a tutto quello che la propaganda delle rispettive fazioni prova a divulgare, insieme a panico, e allarmismi a comando. Comunque ogni parte del Rojava liberata è costata allo YPG/YPJ centinaia di martiri, la possibilità che questi lascieranno territori senza combattere è prossima allo zero.
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January 5 ·
Mi chiedo come facciano a non provare imbarazzo alla procura di Torino. Allora che chiedessero la sorveglianza speciale anche per le guardie giurate, o per chiunque sia mai entrato in un poligono di tiro, o vietiamo l’accesso alla quasi totalità dei turisti americani che vengono in italia, o ai militari di qualsiasi altra nazione…ecc…ecc…Questo è un chiarissimo esempio di come l’argomento “sicurezza” sia costantemente usato come strumento di controllo sociale ed arma politica
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January 11 ·
Altro giro altra corsa. Si torna a Deir ez-Zor, in quello che probabilmente sarà la spinta finale contro Daesh in quella zona. Come ho già scritto, anche se tutto andasse come deve andare, non è la fine: l’ideologia di Daesh è ancora forte in Siria (e non solo). Sopravvive nelle varie milizie jihadiste, quali HTS (Tahrir al-Sham), e NFL (National Front for Liberation), sopravvive nei fiancheggiatori sparsi nelle città (i quali aspettano solo la giusta occasione per tornare allo scoperto), e sopravvive nelle file dell’FSA (Free Syrian Army) al servizio della Turchia. Sono in molti i Jihadisti che si sono riciclati in questi gruppi, o che hanno trovato riparo aldilà del confine turco. La lotta non è finita, come la speranza del resto. “Se vuoi la pace prepara la guerra”; beh, qui la guerra va avanti da anni, portandosi dietro ogni genere di orrore. Chissà se un giorno riusciremo a vederla questa tanto agognata pace. Noi non smetteremo di crederci e di batterci per questo. Fino alla vittoria, Serkeftin!
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February 28 at 3:39 PM ·
Partiamo in fretta e furia, del resto in accademia c’è stato insegnato che in un minuto e mezzo dobbiamo esser pronti a tutto. Mi ero fidato di “livemap”, credendo fosse Marashidah l’ultima città rimasta, invece scopro che è a Baghoz che si chiuderà questa storia. Ci ritroviamo nel solito quartier generale, a fianco dell’hotel dismesso nel centro di Hajin. Mangiamo e beviamo con i comandanti, mentre c’illustrano i progressi fatti su un tablet. Neanche il tempo di finire che entra Marwuan: “Allora noi andiamo” dice al comandante di zona. Colgo l’occasione al volo, “posso andare con loro?” domando. Si scambiano un’occhiata, poi Marwuan fa cenno di sì con la testa. “Uao! è stato facile a ‘sto giro” penso tra me e me. A volte c’è una sorta di atteggiamento protettivo nei confronti degli internazionali, e spesso raggiungere le prime linee è un vero e proprio calvario. L’avanzata è fissata per la notte del giorno dopo. Giriamo in macchina visitando le varie nocte disposte appena fuori da Baghoz. Facciamo più viaggi, caricando e scaricando tonnellate di munizioni, distribuendole equamente ai vari gruppi. Il giorno dell’attacco ci ritroviamo con diverse altre squadre, in un ampio cortile al riparo tra due case. Guardo i nostri: molti sono giovanissimi, appena freschi d’accademia, alcuni ragazzi arabi sono truccati col mascara e portano strani ciuffi simili alla moda “emo” di qualche anno fa; un altro indossa una maschera antigas, ed un’accetta gli spunta da dietro la schiena. C’è una certa estetica che c’accomuna tutti, ma ognuno indossa pezzi di uniformi diverse e kefieh dei più svariati colori. Sembriamo “l’armata Brancaleone”: siamo bellissimi! Essendo unità di “eremì” non c’è tutto l’ordine ed il rigore tipici dei tabur quadri, ma questi ragazzi comunque stanno andando a combattere contro gente spietata, organizzata, e spesso addestrata in occidente, eppure nessuno di loro mostra il minimo segno di paura. Il morale è forte: si balla, si canta, e si bevono ettolitri di çai. All’imbrunire ci raggruppiamo tutti, Humvee e Dshke compresi, davanti ad un grande solco scavato da un buldozer. Oltre quella linea è tutta zona Daesh. La grossa ruspa blindata ci precede, il nostro autista la segue, ben attento a restare sulle tracce dei cingoli visto che tutta la zona è minata. Per ogni gruppo di case scendiamo e tiriamo “bombe fitil” per ripulirle dalle trappole esplosive. Ne tireremo un centinaio, forse di più, e quasi tutte fanno saltare qualche cosa (il rumore è più forte quando oltre al fitil esplode qualche ordigno). Avanziamo così diverse ore, prendendo più di mezza città. Sono le quattro di notte quando Daesh passa al contrattacco. Hanno preso di mira le due case più isolate, circondandole quasi del tutto. Io mi trovo a circa duecento metri da loro, sentiamo le grida “Allah akbar!” e vediamo le scie dei razzi che vengono copiosamente sparati. Alcuni proiettili arrivano nella nostra direzione. Ad una certa vediamo gli Humvee ripartire da quelle case a tutta velocità, e pure a noi viene ordinato di ritirarci. I più si ammassano sugli Humvee come meglio possono, ricordandomi le foto di alcuni autobus in India stracarichi di gente, ma un gruppetto di noi rimane senza passaggio, e ci tocca farcela a piedi. Corriamo al buio più completo, con tutta l’attrezzatura pesante, con il sibilo dei proiettili che passa sulle nostre teste, cercando di rimanere sulle tracce del buldozer perchè tutto intorno è minato. Insomma, non è proprio il massimo. Guardo il ragazzino accanto a me che zompetta con lo zaino delle munizioni, pesante svariati chili, e sono contento per lui che possiede una decina d’anni in meno di me. Ci riuniamo tutti qualche casa più in là. Abbiamo pochissime coperte, così dormiamo ammassati gli uni sugli altri per via del freddo. Daesh intanto si è ritirato, e c’è da andare a recuperare i corpi dei compagni caduti. Il primo lo carichiamo senza problemi, il secondo è in posizione più avanzata, e mentre lo stiamo issando sul retro cominciano a spararci addosso. Un razzo a momenti ci prende. L’autista riparte a manetta; io sono nel bagagliaio ed ho la gamba incastrata tra i due corpi. Sfilandola perdo una scarpa, ed è mentre frugo in quel groviglio che mi accorgo d’una nuvoletta di fumo che fuoriesce dalla bocca di uno dei due. “Hey, questo qua respira ancora!” dico al compagno accanto a me. È vivo, ma è più di là che di qua. Dubito che ce la farà. Ci lasciano alla casa di prima, e vanno diretti all’ospedale da campo. Riconquistiamo diversi edifici. Il nostro gruppo si ferma in quei due dai quali eravamo stati scacciati nella notte. Siamo sul tetto, quando ad una certa cominciano a pioverci addosso proiettili. Guardo dai buchi nel muro che abbiamo fatto per proteggerci, ma non riesco a capire da dove ci stanno sparando. Chiedo al compagno accanto a me, ma dice una parola in curdo che non conosco; chiedo ancora, e lui fa un gesto con le mani come a dire “inclinato”. Allora capisco: c’è un grosso silos pendente, e guardando meglio ci sono fori come feritoie uguali ai nostri. Concentriamo il fuoco lì. Tiriamo anche due bisfing (rpg) che lo centrano in pieno. I colpi provenienti dal silos cessano. Nella casa accanto hanno trovato l’ingresso di un tunnel, il che spiega come la sera prima avevano fatto ad arrivare così all’improvviso. In pochi giorni prendiamo praticamente tutta la città. Resta solo una piccolissima striscia di case, intrappolata tra noi e l’Eufrate. A separarci da questo quartiere vi è solo una distesa erbosa, priva di edifici, della lunghezza di circa un chilometro. I nostri kalashnikov sono inutili da quella distanza, ma abbiamo diversi BKC (grosse mitragliatrici) e un Xanas (fucile Dragunov). Gli airstrike non possono colpire quella zona, perchè è certa la presenza di diversi civili (addirittura il battaglione dall’altro lato rispetto al nostro libererà alcuni Yazidi prigionieri dal 2014). Daesh non ha più la forza per contrattaccare; provano qualche sortita, la notte, ma sempre solo di un paio di persone in moto, probabilmente per minare la strada. Li respingiamo ogni volta. I loro cecchini ci sparano spesso, fortunatamente con scarsi risultati. Un pomeriggio siamo sul tetto e Marwuan sta sparando qualche colpo col Dragunov, quando vediamo uno dei loro furgoni. Improvvisamente mi ricordo che in una delle loro armerie abbiamo trovato un “SKS”: è un vecchio fucile sovietico, spara le stesse munizioni del kalashnikov, ma fino a 1000-1200 metri ci arriva. Corro a prenderlo, e lo carico con una manciata di munizioni che ho in tasca, mentre mi fiondo su per le scale. Spariamo entrambi una dozzina di colpi, mirando all’abitacolo. Non so se guastiamo il mezzo, o feriamo l’autista, o semplicemente lo spaventiamo, ma c’andiamo vicini perchè lo vediamo scendere e scappare a gambe levate, lasciando lì il camion. Marwuan se la ride alla radio, e due compagni sono in piedi accanto a me; io sono sempre lì con lo sguardo puntato, quando all’improvviso il muro va in frantumi. Il ragazzino accanto a me grida “mi hanno colpito! mi hanno colpito!”. Guardo il foro nel muro. “BAM!” un altro foro, questa volta alla mia sinistra. Non devono aver gradito lo scherzetto del furgone, perchè ci stanno sparando addosso con uno Zagros. Lo Zagros è un fucile di grosso calibro, viene autoprodotto riciclando le canne delle mitragliatrici Dshke, e spara le stesse munizioni (proiettili lunghi una decina di centimetri per intendersi), ed ha la brutta abitudine (o buona a seconda di se sei te a tirare il grilletto anzichè fare da bersaglio) di passare i muri come nulla fosse. Afferro il Dragunov e corriamo verso le scale. Il ragazzino continua a strillare e perde molto sangue. Le scale sono mezze crollate, e per poterle scendere bisogna strisciare in una fessura triangolare. Io ed un compagno arabo restiamo per ultimi; lui è un omone enorme dalla folta barba nera, porta un pugnale ricurvo d’argento in mezzo ai caricatori, indossa pezzi d’uniforme nemica e se non sapessi per certo che sta con noi potrebbe apparire un po’ inquietante; ma ha gli occhi di un uomo buono ed è sempre stato gentile con me e gli altri compagni. Ha appena infilato le gambe nella fessura, quando si fruga in tasca preoccupato ed indica un punto alle mie spalle. “BAM!” intanto lo Zagros spara ancora. Guardo che cosa ha perso, e noto una batteria esterna per cellulare al centro del tetto. Mentre mi rigiro per guardarlo il mio cervello in un millesimo di secondo elabora la risposta più sensata possibile: “ma manco per il cavolo!”. Buono, segno che funziona ancora, ma inspiegabilmente trasmette al mio corpo tutt’altro, una sorta di “…e vabbè”. Così corro a testa bassa a prendergli la batteria, maledicendo tutti i santi che mi vengono in mente in quel momento. Quando gliela porgo mi ringrazia calorosamente. L’uomo buono vestito da Daesh ha ritrovato il sorriso. Corriamo al piano terra, dove il ragazzino continua ad urlare. Non è grave, probabilmente ha una scheggia nel braccio, ma ossa ed arterie sono intatte. Lo medichiamo e lo facciamo portare via da un Humvee. Intanto i giorni passano nella nocta. Vorremmo avanzare, con le poche case rimaste potremmo finire il lavoro in uno-due giorni, ma l’ordine ci viene sempre negato. Per passare il tempo ripuliamo tutti gli edifici della zona. Troviamo di tutto, specialmente droni e cinture esplosive. Il compagno Şami si mette in testa di farle saltare, così ne raccoglie il più possibile e le pressa tutte assieme. Le fa esplodere accanto al grande silos, nella speranza di buttarlo giù, ma il cemento armato prevale, e anche senza un pilastro resiste. Sami è contento lo stesso, fin quando sulla via del ritorno non nota qualcosa che gli cambierà l’umore irrimediabilmente. È il corpo senza vita di una bambina, o quel che ne resta. Le gambe ed un braccio sono saltate, resta solo il torso, una manina carbonizzata, ed il cranio, aperto come il guscio di un uovo. Indossa una giacchetta rosa con delle stelle viola; sembra una bambola rotta. Avevo già visto cadaveri di donne e bambini ad Afrin, morti sotto i bombardamenti della Turchia, ed i compagni che conoscevo che sono caduti ormai non li conto più neanche; certo, non resto insensibile davanti alla morte, ma non mi fa più lo stesso effetto di un tempo. Şami invece si rabbuia, quasi piange, non spiccica parola per tutto il ritorno se non “era solo una bambina”, cosa che ripete di tanto in tanto con la voce carica di dolore. In effetti non aveva colpe, la sua sola sfortuna era stata nascere nella famiglia sbagliata. Le due macchine colpite erano entrambe piene d’esplosivo, segno che suo padre, o chi viaggiava con lei, era sicuramente dello stato islamico. Del resto la lotta di Daesh è sempre stato un affare di famiglia: le donne si uniscono alla polizia segreta, si fanno esplodere, e anche loro si macchiano dei peggio crimini; i figli, seppur giovanissimi, guidano autobombe e piazzano mine dove possono; i bimbi più piccoli molto spesso vengono portati nelle missioni suicide. Nessuno è escluso, e il confine tra vittima e carnefice è flebile e non sempre chiaro. Intanto altre squadre sono arrivate a darci il cambio. Nel paese appena fuori Hajin i bambini rincorrono le nostre macchine. Gli lancio dal finestrino tutte le merendine e le bottigliette d’acqua che abbiamo; in cambio riceviamo grandi sorrisi e gridolini di gioia. Ma la sorpresa più grande deve ancora arrivare: ha piovuto molto in questi giorni, e quando raggiungiamo il deserto fatico a riconoscerlo. Un sottilissimo strato d’erba lo ricopre per intero, disegnando una distesa verde che si perde all’orizzonte. I miei occhi si riempiono di quell’oceano dal colore brillante. Lo guardo assorto, incredulo, come fossi al cospetto d’un miracolo.
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February 2 ·
“Sono già partiti”
“Che storia è questa?!”
“Sì sì, circa un’ora fa”
Una smorfia d’ansia si dipinge subito sui volti dei miei compagni.
“Siamo fregati”. “Ma nooo, vedrai che il modo si trova” rispondo.
Il battaglione di Heseke ha già lasciato la base, e nel piazzale sono rimasti in quattro gatti. Riconosco Marwuan “il pazzo” intento a passeggiare con il comandante. “la quadro walk” l’abbiamo rinominata: è la pratica molto comune di prendersi a braccetto, e, con la schiena leggermente ricurva, fare su e giù sempre per lo stesso percorso. È stata inventata molti anni addietro in prigione; ancora una volta è la mera necessità a forgiare la tradizione. Vedo che mi notano, così vado a salutarli.
“Non c’è problema! Abbiamo un Defender (camion blindato) che è a riparare e domani dovrebbe raggiungere il resto del gruppo. Fino ad allora siete miei ospiti”.
Ecco, di solito “domani” non è mai domani in Rojava, ma mi sta bene comunque; ho avuto qualche problema di salute ultimamente, ed un paio di giorni di riposo, caldo, e cibo buono (nella base di Heseke si mangia veramente bene perchè essendo in tanti hanno bisogno di far venire cuochi civili dalla città per cucinare), non possono farmi certamente male. Dopo quasi tre giorni finalmente partiamo, ed una volta raggiunto il solito oleodotto cambiamo macchina. Il furgoncino sgangherato della logistica prosegue per la strada impervia, sbalzandoci ad ogni buca. Lo stereo pompa i suoni acuti ed incredibilmente ripetitivi tipici della musica araba. Procediamo in linea retta, senza il minimo accenno di curva, fino a quando anche la strada scompare, e non resta niente; solo il giallo tenue della sabbia del deserto, che si scontra con il cielo cristallino. Riconosco alcune basi dalle quali sono già passato, e poi, infine, la sagoma all’orizzonte della città di Hajin. Fa un po’ strano attraversarla così, senza alcun problema. Si è combattuto molto per averla, e molti compagni hanno perso la vita in questo sforzo. La città è ridotta ad un cumulo di macerie; le buche della strada fatta in precedenza sembrano nulla al confronto dei crateri di una quindicina di metri lasciati dagli airstrike. Ero già stato a Raqqa subito dopo la liberazione, sono abituato a vedere un certo tipo di distruzione, ma qui siamo proprio ad un altro livello. Sembra di stare dentro “Guernica”, il quadro di Picasso, o in una partita di “Tetris” finita male. Alcuni civili in periferia, incuranti delle mine inesplose, stanno già cominciando a tornare in quello che resta delle loro case, ma il grosso della città è chiuso dai check point degli Asaysh. Arriviamo in un hotel dismesso, dove si trova una sorta di comando generale. La battaglia per il controllo di Al Susah è già cominciata. Ci dicono che aspetteranno la notte prima d’inviare un’altra ondata. Alcuni compagni dell’Heavy Weapons insistono perchè restiamo con loro, ma le armi pesanti richiedono una certa distanza per funzionare, e preferendo la prima linea ci troviamo costretti a rifiutare.
Giunta la notte si parte. Ci stipano in dodici in un Humvee, e dopo svariate ore di attesa (una grossa ruspa blindata sta ripulendo la strada principale dagli ordigni) ci lanciano in battaglia. Non c’è un tempo di preparazione, si scende e si combatte subito. Con la dovuta cautela prendiamo il controllo del tetto di uno stabile. Siamo circa nel centro della città. Tra una cosa e l’altra sta già albeggiando. I suoni inconfondibili della guerra si sollevano tutto intorno a noi; sparsi come macchie di leopardo in svariati quartieri di Al Susah. Ad un centinaio di metri da noi noto due sagome. Quello più alto indossa un lungo impermeabile, ma sono rivolti nella nostra medesima direzione. È un tiro facile, ma non vorrei colpire qualcuno dei nostri che magari per via del freddo si è messo la prima giacca che ha trovato. Chiedo al caposquadra che contatta alcuni compagni via radio, ma quando ci viene dato il via libera sono ormai molto lontani. Li manchiamo di poco, vedo i proiettili infrangersi nel muro dietro loro, prima che entrambi si dissolvano dietro un angolo. Daesh non combatte più in uniforme da diverso tempo, per provare, quando è possibile, a confondersi tra i civili. Intanto è già mattina, ed avanziamo di un paio di case. Siamo accovacciati dietro un blindato, diretti ad una nocta poco più avanti occupata da compagni. Sembra un momento abbastanza tranquillo, e decido di scattare una foto con il cellulare. Uno degli occupanti della nocta è in piedi vicino all’ingresso. Sarà la sua ultima foto da vivo: come premo il pulsante per lo scatto il colpo di un cecchino viene esploso, quasi in simultanea, come se a sparare fosse stato il mio telefono. “Uoooo!”, un’ esclamazione mi sfugge dalle labbra, mentre il suo corpo si affloscia a terra senza vita. Un compagno si sdraia nel bagagliaio dell’Humvee, mentre noi procediamo a piedi al riparo dietro ad esso. Questa volta non sono io a raccogliere il cadavere del malcapitato, poichè sono intento a fare fuoco di copertura verso le finestre che reputo nascondigli ideali. Daesh ha cecchini formidabili, e molto difficili da individuare. Raccolto il corpo e tornati un paio di case indietro saliamo su un piano sopraelevato, nel tentativo di capire da dove spara. C’è da stare ben attenti anche ai lati, per evitare eventuali manovre d’accerchiamento, altra specialità di Daesh. D’improvviso il suono di un missile sganciato da un aereo taglia l’aria proprio vicino alla nostra posizione. Il palazzo vicino al nostro va letteralmente in frantumi. Enormi blocchi di cemento armato volteggiano leggiadri nel cielo, facendosi evidenti beffe di ogni nozione di forza di gravità. Faccio appena in tempo a coprirmi con le braccia la testa, prima che i detriti c’investano. Una grossa pietra mi centra in pieno petto, facendo saltare la molla di uno dei caricatori, che a momenti quasi mi prende in faccia. Il caricatore se non altro attutisce l’impatto, assieme alla piastra antiproiettile che mi ha lasciato Kawa; non sarei morto, ma magari senza qualche costola me la incrinavo. Non si vede più niente; le polveri dell’esplosione ricordano le tempeste di sabbia. Riesco a distinguere solo le sagome dei compagni assieme a me.
“State bene?” gli chiedo.
“Tutto a posto!” rispondono.
Gli scontri vanno avanti per un paio di giorni. Ci siamo situati su un edificio dal quale si ha una buona visuale. Facciamo turni di guardia interminabili, almeno sei ore al giorno, a volte nove. La maggior parte dei nemici sono sepolti sotto qualche palazzo, falciati dagli airstrike, ma sono in diversi ad essersi arresi. I pochi sopravvissuti stanno ritirandosi nell’ultimo villaggio rimasto. Bruciano le munizioni che non possono portarsi appresso; le sentiamo scoppiettare nella notte, come pop corn, all’interno di grossi falò accesi dentro a buche profonde. Non passa giorno senza che qualcuno zompi su qualche mina. Per ogni casa che ripuliamo usiamo grosse bombe artigianali, dette “fitil”, simili a “palloni di Maradona” o ad altri botti napoletani, in grado di ripulire le stanze da eventuali ordigni. Ma a volte non bastano, o sono finite, e restano comunque inefficaci in ambienti esterni. Insomma, non è proprio una passeggiata salutare. Un pomeriggio avvertiamo il suono di un piccolo motore. I compagni dal tetto affianco urlano e si sbracciano indicando un punto nel cielo. È un drone di Daesh. Certo, non sarà all’altezza dei droni turchi, o della coalizione, ma è pur sempre utile a rivelare molto delle nostre posizioni. Iniziamo a sparare in aria come ossessi.
“Non lo prenderemo mai” penso dentro di me. Ma invece, quando passa una seconda volta sopra le nostre teste, un proiettile fortunato riesce a colpirlo. Iniziamo a ridere, saltare, e sparare per festeggiare. No, non saremo un’armata di professionisti, ma sapete cosa? È proprio questo il suo bello: tanta euforia, tanto cuore, e tanto coraggio, non sono sicuro si possano trovare tra le file degli eserciti regolari. Gli ultimi due giorni li passiamo a scalpitare lungo i bordi di Al Marashidah, ultimo paese ufficialmente controllato da Daesh, ma ogni volta che sembra partire l’attacco arriva un contrordine subito dopo. Intanto un nuovo battaglione è arrivato a darci il cambio. Non mi dispiace: fa freddo, sono stanco, e non mi lavo da una ventina di giorni; per quanto riguarda Deir ez Zor il mio contributo mi sembra di averlo dato. Sono pochi i nemici rimasti in quella zona, i più sono già scappati molto tempo addietro ad Idlib, o ad Afrin, o in Turchia. Alcuni sono riusciti a mimetizzarsi tra i civili.
Ripenso ai limiti che avevo, e a come questa lunga strada intrapresa in Rojava mi abbia aiutato a superarli; ma non come avrei fatto a casa, alzando l’asticella di volta in volta, ma prendendo la rincorsa e sfondando tutto quello che c’era. Sono sereno mentre torniamo verso la base. Dal finestrino dell’auto i bagliori del tramonto incendiano le cime delle palme, e il sole lentamente si spegne nelle fredde acque del fiume Eufrate.
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February 4 ·
Io l’ho finito di leggere a Deir ez Zor, tra un turno di guardia e un altro (solo perché incredibilmente il compagno Davide Grasso è riuscito a farmelo arrivare). Che dire? In pochi riescono a comprendere a fondo il significato e lo spirito di questi popoli e di questa rivoluzione, Davide ci riesce a pieno, fornendo inoltre un quadro precisissimo di come tutto è cominciato.
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February 6 ·
“C’è un convoglio va a Deir Ez Zor, il comandante si ricorda di te e ha chiesto se vuoi venire”
”mmmm ma ce sta da combattere?”
”Sì dice ci sta”
”Quando andiamo?”
”Tra neanche mezz’ora”
”Ok let’s go!”
I love Rojava ❤
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March 12 at 7:43 AM ·
“Rossa per la fiumana di sangue versato, nera per il lutto dei milioni di morti. Questo è il colore della bandiera degli anarchici, che mai è stata ammainata, che raggrupa tutti gli uomini che amano l’umanità. Lottano per la libertà e combattono tutte le ingiustizie sociali, per questi nobili sentimenti che gli anarchici sono sempre stati diffamati, calunniati, torturati, perseguitati, incarcerati, assasinati in maniera ignobile, vergognosa, che ripugna la coscienza degli uomini. Gli anarchici vogliono vivere in una società umana e fraterna, senza stato, soldati, denaro, padroni, senza poliziotti, senza galere e senza sfruttatori. Dove tutti si lavora alla produzione di cose utili, e vivere veramente la nostra breve esistenza, senza odio, paura, preoccupazioni per il domani.
Ora e sempre, viva l’Anarchia”
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March 12 at 9:11 PM ·
A quanto pare diverse case-trincee-tunnel sono rimaste. Non me lo faccio dire due volte, se tutto va bene domani riparto!