Il 19 settembre l’esercito azero ha lanciato l’offensiva finale contro il territorio abitato da armeni del Nagorno-Karabakh, noto agli stessi abitanti come “Repubblica di Artsakh”, un’entità politico-amministrativa non riconosciuta a livello internazionale. Per gli armeni non c’è stata alcuna possibilità di resistere militarmente e questo ha portato oltre 100.000 abitanti a lasciare il territorio per rifugiarsi in Armenia. Il timore di massacri era fondato sulla diretta esperienza delle fasi precedenti del conflitto e apertamente alimentato dal regime azero che ha lasciato liberamente circolare sui canali social le minacce di pogrom.
L’intenzione del regime azero di assumere il controllo dell’intero territorio del Nagorno-Karabakh, dopo il parziale successo del 2020 a cui era succeduto un cessate il fuoco garantito dalla Russia, risultava evidente dalle azioni intraprese da mesi. Da dicembre dell’anno scorso era stato interrotto il corridoio di Lachin che consentiva i rifornimenti dell’enclave armena. In pratica era stato messo in atto un vero e proprio assedio che impediva l’arrivo anche di beni fondamentali. Nelle ultime settimane si erano intensificati gli arrivi di armi da Israele che mantiene buoni rapporti con il regime azero della famiglia Aliyev e che non ha mancato l’occasione di sostenere una operazione di pulizia etnica.
Gli ultimi anni hanno visto un progressivo cambiamento degli equilibri in tutta la zona. Se nei primi anni ’90 i rapporti di forza erano tali da consentire all’Armenia di prevalere nel primo conflitto del Nagorno-Karabakh e di imporre uno statu quo relativamente favorevole, l’evoluzione della situazione ha portato a un consistente rafforzamento dell’Azerbaijan.
Si tratta di uno Stato controllato come un possedimento personale da un’elite imperniata sulla famiglia Aliyev. L’attuale presidente è figlio del precedente, il quale si era convertito dalla leadership comunista al nazionalismo sciovinista ed autoritario mantenendo il controllo del paese. La presenza di risorse naturali (petrolio e gas) hanno consentito afflusso di fondi consistenti e la possibilità di giocare le proprie carte su più tavoli. Dal punto di vista ideologico gli Aliyev hanno aderito alla visione panturanica e panislamica promossa dal presidente turco Erdogan. E la Turchia è un alleato fondamentale, sia sul piano politico che militare, dell’Azerbaijan nel nome dell’”unica nazione, due stati”.
Ma anche i rapporti con l’Occidente sono più che buoni e si sono intensificati con la guerra in Ucraina. L’Unione Europea ha fatto accordi con Baku per incrementare le importazioni di gas e petrolio in sostituzione di quelle russe (chiudendo un occhio sul fatto che parte di quei flussi sono gli stessi che l’Azerbaijan importa dalla Russia). Sul dramma della popolazione armena l’Unione Europea si è convenientemente girata dall’altra parte. Solo la Francia di Macron ha provato ad alzare la voce dovendo tener conto di una forte e tradizionale minoranza di origine armena esistente nel Paese. Ma senza alcun effetto concreto.
Particolarmente ambiguo il ruolo della Russia nella vicenda. Sul campo contava quasi 2.000 soldati che in base agli accordi dovevano garantire il cessate il fuoco e una certa misura di protezione della popolazione armena. In realtà non si sono mossi, probabilmente secondo le fonti di stampa sono stati avvertiti dell’operazione azera solo pochi minuti prima del suo inizio, ma sembra evidente che Baku contava sulla mancata reazione di Mosca. Quest’ultima ha potuto scaricare la responsabilità sul governo armeno del primo ministro Panyshin.
Le manovre politiche del governo di Erevan si sono rivelate particolarmente inefficaci per non dire incompetenti. Se l’Armenia ha potuto tradizionalmente contare sull’alleanza con Mosca, ultimamente aveva tentato uno sganciamento avvicinandosi all’Occidente con segnali per quanto tenui di schieramento con Kiev nella guerra in Ucraina e avvio di una diretta collaborazione militare con gli Stati Uniti. Ma in questo gioco l’Azerbaijan si è dimostrato molto più abile e soprattutto con in mano molti più assi da giocare. Il risultato è che dagli Stati Uniti sono venute solo promesse di aiuti umanitari a cose fatte e l’Europa non ha certo intenzione di turbare le relazioni con Baku per occuparsi di qualche decina di migliaia di persone vittime di pulizia etnica. Non servono né come pedine della nuova guerra fredda né per una qualche forma di propaganda umanitaria.
Può darsi, ma non vi è alcuna certezza, che la chiusura della realtà autonoma del Nagorno-Karabakh metta fine alla situazione di conflitto latente esistente nella zona dalla fine dell’Unione Sovietica. L’Armenia è un paese relativamente (e il relativamente va sottolineato) più democratico di altre realtà della zona ma non si può escludere che la fine drammatica dell’enclave armena, che chiude una presenza bimillenaria in quei territori, la difficoltà di gestire l’afflusso dei profughi, i rancori della sconfitta e la verifica dell’inettitudine del primo ministro non apra una stagione di nuovi conflitti interni.
Inoltre resta la complicata situazione della regione autonoma del Nakhchivan, una exclave azera di mezzo milione di persone, separata dall’Azerbaijan dal territorio armeno e confinante con l’Iran e la Turchia. La disponibilità di un corridoio di accesso dall’Azerbaijan è un tema che resta complicato. Con l’accordo di cessate il fuoco del 2020 veniva garantita la possibilità di comunicazione tra il Nakhchivan e il territorio azero, garantito dal pattugliamento da parte di forze di frontiera della Federazione Russa. Un accordo sulla cui permanente validità a questo punto è difficile scommettere.
Il lungo conflitto del Nagorno-Karabakh è una delle conseguenze del crollo dell’Unione Sovietica. Il tentativo decennale, pur con contraddizioni e forzature autoritarie, soprattutto nella fase staliniana, di far convivere popolazioni diverse derivanti da un impero multietnico, riconoscendone le specifiche identità nazionali, aveva consentito di smussare se non cancellare le differenze in una comune identità sovietica. Questa aveva avviato un processo di convivenza di minoranze integrate in repubbliche sovietiche nelle quali prevaleva una diversa identità nazionale. Aveva portato alla crescita di matrimoni misti e di altri fattori di integrazione. Questo era avvenuto anche in due realtà intrecciate come l’Azerbaijan e l’Armenia.
Tutta questa lenta e difficile costruzione è crollata con la fine dell’Unione Sovietica. Le spinte nazionaliste e scioviniste sono cresciute dall’interno ma non per “combustione spontanea” quanto perché spesso alimentate da élite spregiudicate e opportuniste che hanno usato questi conflitti per trovare nuova legittimazione. Dall’esterno sono stati favoriti, come in Jugoslavia dall’interesse del blocco occidentale a disgregare l’Unione Sovietica. Una rottura dei difficili equilibri raggiunti dovuta, più che dalle spinte periferiche, inizialmente minoritarie in quasi tutte le repubbliche sovietiche, quanto per la decisione dello stesso Yeltsin di cavalcare il nazionalismo russo e di sfilare innanzitutto la Russia dalla costruzione comune. Un altro caso nel quale la retorica sciovinista mascherava in realtà l’allineamento agli interessi e alla volontà delle potenze globali dominanti, in primo luogo gli Stati Uniti.
Nel conflitto tra Armenia e Azerbaijan, va detto, le responsabilità non sono da una parte sola, dato che entrambe le classi dominanti di questi due paesi hanno soffiato sul fuoco del razzismo e del conflitto etnico e anche parti importanti della popolazione azera hanno pagato un prezzo elevato al conflitto. La rinascita dell’etno-nazionalismo sulla sconfitta dell’universalismo sovietico ha prodotto una lunga scia di disastri di cui la pulizia etnica del Nagorno-Karabakh è una faccia. La guerra in Ucraina un’altra. Il dramma degli armeni fa intravedere quale sarebbe il destino delle minoranze russe qualora l’attuale regime di Kiev riuscisse a riprendere con la forza i territori che sono stati occupati dalla Russia. Senza nessuna di quelle garanzie che erano state promesse dagli accordi di Minsk, mai attuati.
Franco Ferrari