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Deglobalizzazione, verso destra o sinistra?

Da OtherNews riprendiamo con lo stesso titolo questo articolo di Walden Bello – Foreign Policy In Focus (FPIF)* –

“Che i beni siano prodotti in casa ogni volta che ciò sia ragionevolmente e convenientemente possibile e, soprattutto, che la finanza sia principalmente nazionale” – questo consiglio di Keynes resta oggi attuale quanto lo era negli anni Trenta.

Il 23 settembre 2025, la Foreign Policy Association e il Committee of 100 hanno ospitato un dibattito sul tema “La deglobalizzazione è inevitabile?”, con Walden Bello, co-presidente del Consiglio di Focus on the Global South, ed Edward Ashbee della Copenhagen Business School. Bello ha difeso la tesi affermativa, dopo un dialogo con il premio Nobel Joseph Stiglitz. Il pubblico ha giudicato la posizione di Bello la più convincente tra le due.

Negli anni ’90 ci fu detto che stavamo entrando in un’era, nota come globalizzazione, che, grazie al libero scambio e ai flussi di capitale senza ostacoli in un’economia globale senza frontiere, avrebbe portato al migliore dei mondi possibili. La maggior parte delle élite economiche, politiche e intellettuali dell’Occidente accolsero questa visione. Ricordo ancora come il venerabile Thomas Friedman del New York Times derideva quelli di noi che resistevano a tale visione come “flat-earthers”, ovvero sostenitori di una terra piatta. Ricordo anche come l’altrettanto venerabile rivista The Economist mi indicò come colui che aveva coniato la parola “deglobalizzazione”, non per salutarmi come profeta, ma come un pazzo che predicava un ritorno a un passato giurassico.

Trent’anni dopo, questo “flat-earther” non prova alcun orgoglio nell’aver previsto il caos in cui ci troviamo, al quale la globalizzazione senza freni ha contribuito in modo centrale: i più alti tassi di disuguaglianza da decenni, la crescente povertà sia nel Global North che nel Global South, la deindustrializzazione negli Stati Uniti e in molti altri paesi, l’indebitamento massiccio dei consumatori nel Global North e di interi stati nel Global South, crisi finanziaria dopo crisi finanziaria, l’ascesa dell’estrema destra e l’intensificarsi dei conflitti geopolitici.

La globalizzazione non ha portato a un nuovo ordine mondiale ma a un Brave New World.

Tre istantanee di un’era cupa

Istantanea n. 1: Apple è stata una delle principali beneficiarie della globalizzazione, guidando la fuga dai confini dell’economia nazionale per creare catene di approvvigionamento globali sostenute da manodopera a basso costo. Come scriveva il New York Times:

Apple impiega 43.000 persone negli Stati Uniti e 20.000 all’estero, una piccola frazione rispetto ai 400.000 lavoratori americani di General Motors negli anni Cinquanta, o alle centinaia di migliaia di General Electric negli anni Ottanta. Molti più lavoratori sono impiegati dai fornitori di Apple: altri 700.000 persone progettano, costruiscono e assemblano iPad, iPhone e altri prodotti Apple. Ma quasi nessuno di loro lavora negli Stati Uniti.

Apple non era sola in questa spinta a deindustrializzare l’America: insieme a lei IT corporations come Microsoft, Intel e Invidia; case automobilistiche come GM, Ford e Tesla; giganti farmaceutici come Johnson and Johnson e Pfizer; e altri leader in settori diversi, da Procter and Gamble a Coca Cola, Walmart e Amazon. La destinazione preferita era la Cina, dove i salari erano pari al 3-5% di quelli statunitensi. Il cosiddetto “China Shock” è stimato aver portato alla perdita di 2,4 milioni di posti di lavoro negli USA. L’occupazione manifatturiera crollò a 11,7 milioni nell’ottobre 2009, con una perdita di 5,5 milioni di posti dal 2000.

Istantanea n. 2: La rimozione delle barriere ai flussi di capitale globali portò alla Third World Debt Crisis degli anni ’80, che quasi fece collassare Citibank e altre istituzioni finanziarie USA, e alla Asian Financial Crisis del 1997, che spazzò via le cosiddette economie miracolose asiatiche. La deregolamentazione del sistema finanziario statunitense aprì la strada a truffe redditizie basate sull’“ingegneria finanziaria”, come i sub-prime mortgages. La crisi esplose nel 2008, minacciando l’intero sistema globale, salvato solo con oltre 1 trilione di dollari di fondi pubblici a favore delle banche USA.

Istantanea n. 3: il famoso economista francese Thomas Piketty riassume così la tragedia economica americana del XXI secolo:

“Il termine ‘collasso’ non è un’esagerazione. La metà più povera della popolazione passò dal ricevere il 20% del reddito nazionale (1950-1980) al 12% (2010-2015). La quota dell’1% più ricco salì invece dall’11% a oltre il 20%.”

Parallelamente a questo aumento della disuguaglianza, anche la povertà è cresciuta. Globalmente, dal 2007-08, la disuguaglianza di ricchezza è aumentata: oggi l’1% più ricco possiede metà della ricchezza familiare mondiale.

Dalla rabbia di sinistra alla sua appropriazione da destra

La rabbia globale verso la distopia generata dalla globalizzazione guidata dalle corporations è forse la ragione principale per cui la deglobalizzazione sarà una tendenza di lungo periodo. Quella rabbia inizialmente venne dalla sinistra, come dimostrò la storica Battle of Seattle del 1999. Ma furono Donald Trump e le forze dell’estrema destra a cavalcarla verso il successo politico negli Stati Uniti e in Europa.

Negli USA, la globalizzazione creò due comunità antagoniste: una che ne beneficiò, grazie a redditi e istruzione superiori, e una che ne fu vittima. Quest’ultima — i cosiddetti “deplorables” di Hillary Clinton, oggi base MAGA — non dimenticherà facilmente né la sofferenza causata dalla deindustrializzazione guidata da Apple e altre TNCs, né i disprezzi ricevuti da Hillary, percepita come legata a Wall Street.

Un’altra ragione della forza della deglobalizzazione è il collasso dell’ordine multilaterale. La World Trade Organization, un tempo “gioiello della corona” del multilateralismo, non funziona più, anche a causa del sabotaggio degli Stati Uniti (Obama, Trump, Biden). Il International Monetary Fund e la World Bank sono screditati per l’imposizione di austerità e politiche orientate alle esportazioni che hanno aggravato la vulnerabilità dei paesi in via di sviluppo.

Infine, la sicurezza nazionale — economica e militare — ha sostituito la prosperità da commercio e investimenti come priorità. Sia Trump che Biden hanno vietato la vendita di chip avanzati alla Cina. Ora la regionalizzazione (se non la nazionalizzazione) delle catene di approvvigionamento per risorse strategiche come litio, terre rare, rame, cobalto e nichel è un obiettivo primario.

Due vie per un mondo deglobalizzato

Il punto non è se la deglobalizzazione sia inevitabile, ma quale forma prenderà. Quella basata su ultra-protezionismo, unilateralismo, isolamento, mercati domestici esclusivi per le maggioranze etniche — la via di Trump.

Ma c’è un’altra via, che delineai già 25 anni fa in Deglobalization: Ideas for a New World Economy:

  1. Non autarchia, ma partecipazione internazionale equilibrata, subordinando i mercati globali allo sviluppo domestico.
  2. Con tariffe e misure redistributive, riportare il mercato interno al centro.
  3. Partecipazione a una pluralità di accordi economici, invece di una prigione unica come la WTO.
  4. Re-inserire il mercato nella comunità, come insegnava Karl Polanyi.
  5. Una comunità fondata non su sangue o etnia, ma su valori democratici condivisi.

Questa “deglobalizzazione progressiva” è vicina allo spirito del General Agreement on Tariffs and Trade degli anni precedenti alla globalizzazione neoliberista. È una via non nuova, né particolarmente radicale: è buon senso keynesiano.

Se l’avessimo seguita, probabilmente non ci troveremmo oggi con lo spettro non solo di guerre commerciali, ma di guerre reali alle porte. C’è ancora tempo per imboccarla, ma la finestra di opportunità si sta chiudendo rapidamente.

*Walden Bello è co-presidente del consiglio di Focus on the Global South con sede a Bangkok ed è autore di Deglobalization: Ideas for a New World Economy (2000). Nel 2003 ha ricevuto il Right Livelihood Award per il suo lavoro critico sulla globalizzazione guidata dalle corporations.

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