articoli

Dal rapporto ISTAT alla rivolta sociale?

di Roberto
Rosso

Il rapporto Annuale 2024 dell’ISTAT sulla situazione del paese, offre come accade ogni anno una mole di dati ricca e complessa che si offre a molteplici considerazioni da molteplici punti di vista. Aggiungiamo che varrebbe la pena traguardare attraverso i rapporti degli ultimi anni, ognuno dei quali ha posto l’accento su aspetti diversi.

Vengono alla mente anche le relazioni annuali generali e tematiche del CENSIS, che di volta in volta segnalano, oltre i dati strutturali, il sentire, l’agire dei diversi soggetti che si muovono sulla scena della società italiana. Le brevi note che seguono, oltre ad evidenziare alcuni caratteri fondamentali della formazione sociale italiana che emergono dal rapporto ISTA e da alcuni altri documenti, costituiscono unno stimolo a realizzare una analisi politica, che colleghi i dati strutturali, la composizione sociale a quella politica, ai comportamenti su tutti i piani dei diversi soggetti che la compongono.

A fronte della ricchezza del quadro descrittivo della struttura, delle dinamiche e dei processi della società italiana, viene da chiedersi quale sia la consapevolezza di questo quadro nelle classi dirigenti di questo paese, in articolare del ceto politico, quanto siano formati a comprenderlo dal livello delle amministrazioni locali, sino al parlamento al governo, nei parlamentari e nelle autorità a cui si è stata rivolta la sintesi del presidente (facente funzione) Francesco Maria Chelli.

Sono significative le considerazioni finali della sintesi presentata “Da diversi anni ormai, le analisi dell’Istat hanno messo in luce l’importanza della questione demografica. Oggi, ribadiamo la necessità di comprenderne meglio le complesse interazioni con l’evoluzione delle dinamiche economiche e sociali e le connessioni con lo sviluppo di molti territori, alcuni dei quali rischiano più di altri di essere lasciati indietro per assenza di risorse umane ed economiche in grado di sostenerne lo sviluppo.

La ridotta partecipazione alla forza lavoro di giovani e donne aggrava l’effetto negativo del declino demografico sulla numerosità e sulla struttura della popolazione in età di lavoro. L’aumento dei tassi di occupazione di queste componenti della popolazione al livello medio europeo attuale permetterebbe di compensare gran parte dell’effetto della riduzione di popolazione in età attiva sugli occupati prevista dagli scenari demografici.

Livelli più alti di istruzione potranno ulteriormente contribuire a ridurre i divari di genere e territoriali, e a sostenere la crescita dell’economia e la sua produttività. Un’accelerazione del processo di digitalizzazione e di innovazione delle imprese e delle amministrazioni pubbliche è indispensabile per dare a questi processi il necessario supporto.”

L’andamento demografico come lì si dice ha ‘complesse interazioni con l’evoluzione delle dinamiche economiche e sociali e le connessioni con lo sviluppo di molti territori’ è l’indice dello stato di salute della società, della formazione sociale del nostro paese.

“Superata la fase pandemica, che ha influito in modo determinante sulla dinamica demografica, negli ultimi due anni la perdita di popolazione che dal 2014 ha contraddistinto l’Italia (-1 milione e 356 mila unità, -2,2 per cento l’inizio del 2014 e la fine del 2023) mostra un rallentamento.

Al 31 dicembre 2023, la popolazione residente ammonta a 58.989.749 unità, in calo di 7 mila persone rispetto alla stessa data dell’anno precedente. Con appena 379 mila nascite, il 2023 fa registrare l’ennesimo minimo storico dopo il picco relativo di 577 mila nascite del 2008 (Figura 1.17). Nonostante una riduzione dell’8 per cento dei decessi (661 mila) rispetto al 2022 – dato più in linea con i livelli pre-pandemici – il saldo naturale della popolazione resta fortemente negativo: considerando gli effetti del COVID-19 sulla natalità e soprattutto sulla mortalità, negli ultimi quattro anni si registra una perdita di popolazione di oltre 1 milione 240 mila persone dovuta alla sola componente naturale. Il consistente calo delle nascite degli anni più recenti ha radici profonde, ed è dovuto alle scelte di genitorialità (meno figli e sempre più tardi) da parte delle coppie italiane di oggi e di quelle di ieri. È dalla metà degli anni settanta, infatti, che il numero medio di fi gli per donna è inferiore a 2, il che ha comportato l’erosione della platea dei potenziali genitori. Inoltre, negli ultimi anni si è ridotto anche il contributo alle nascite da parte dei cittadini stranieri, che aveva prodotto una ripresa della natalità a partire dai primi anni Duemila.”

Nell’articolo intitolato ‘Ribellarsi è giusto, buon Primo Maggio’ riportavo dati e considerazioni rilevate in due pagine del Sole 24 ore di lunedì del 29 aprile. In cui si proiettavano le vite future in base allo stato attuale della popolazione, Si introduce la nozione di vita futura vale a dire quanti anni complessivamente di vite umane sono previste da oggi, stante la speranza di vita, il profilo demografico-la distribuzione della popolazione per anno di età- e il tasso di natalità 1

Il Sole 24 Ore del lunedì del 29 aprile pubblica due pagine sulla ‘crisi della natalità’ in Italia, i cui dati sono basati da uno studio, aggiornato per il giornale, di Gian Carlo Blangiardo, già presidente Istat. Si introduce la nozione di vita futura vale a dire quanti anni complessivamente di vite umane sono previste da oggi, stante la speranza di vita, il profilo demografico-la distribuzione della popolazione per anno di età- e il tasso di natalità. Il primo dato è che nei dieci anni dal 2012 al 2022 si sono ‘persi complessivamente 184 milion di anni di vita futura,pari a 2, anni a livello pro capite, ciò evidentemente a causa dell’invecchiamento della popolazione e del calo delle nascite.

“Per il futuro, ipotizzando di congelare l’aspettativa di vita ai livelli del 2022 (quindi a condizioni di sopravvivenza costanti) da qui al 2053 rischiamo di perdere 3,7 anni di futuro pro capite. Solo con l’apporto aggiuntivo di 506mila nuovi nati o con 802mila immigrati in più, rispetto a quelli già previsti, fra 30 anni potremmo mantenere lo stesso patrimonio demografico di oggi.”

Indubbiamente questa misura – dal tratto economicista oltre che freddamente statistico – dell’andamento demografico è inusuale, il prodotto tra speranza di vita e popolazione complessiva, un flusso di vite umane nel tempo, che nella sua composizione interna –aspettativa di vita per anno di età e genere– costruisce la base per considerazioni quantitative di ordine economico e sociale. Lo studia afferma che “L’intera popolazione al 31 dicembre deteneva un ‘patrimonio demografico’ di 2 miliardi e 255 milioni di anni di vita da spendere in futuro”.)

Il ragionamento condotto nell’articolo [del sole 24 ore] è sintetizzato nella seguente frase “Immaginiamo che l’Italia sia un’impresa e i cittadini il capitale in grado di generare valore. Il patrimonio demografico consiste nel loro futuro.  (…) Questo dato rappresenta l’attuale ricchezza demografica del Paese, che in termini pro capite diventa pari a 38,2 anni di futuro a testa.” [Questo dato medio non va confuso con la speranza di vita futura di ogni fascia di popolazione. ndr] (…)

Dall’analisi dei bilanci degli ultimi anni emerge che ‘l’azienda Italia’ -appena 10 anni fa quindi rispetto alle risultanze contabili del 2013 (alle medesime condizioni di sopravvivenza) poteva contare su 2 miliardi e 439 milioni di anni di futuro, cioè 40,4 anni pro capite.))

Riprendendo il filo di quell’articolo, l’ISTAT ci informa che, “In Italia, solo a fine 2023 il Pil reale è tornato ai livelli del 2007: in 15 anni, si è accumulato un divario di crescita di oltre 10 punti con la Spagna, 14 con la Francia e 17 con la Germania. Se si confronta il 2023 con il 2000, il divario è di oltre 20 punti con Francia e Germania, e di oltre 30 con la Spagna.”

In particolare, per quanto riguarda la struttura del sistema delle imprese.

“Nel sistema delle imprese, in Italia, il livello della produttività (valore aggiunto per addetto) a prezzi correnti nella manifattura è inferiore a quello osservato in Francia e Germania solo nel segmento delle micro e piccole imprese, che però hanno un peso maggiore nel nostro Paese. Nei servizi, invece, le imprese italiane mostrano una produttività inferiore in tutte le classi dimensionali.

La debolezza degli investimenti tocca in particolare quelli in beni immateriali e nelle attrezzature ICT, le componenti che più incidono sull’ammodernamento dello stock di capitale. In questo caso l’Italia mostra un livello sul Pil ancora inferiore rispetto alle altre grandi economie Ue, nonostante la crescita registrata nel periodo più recente.”

D’altra parte il rapporto INAP 20232 ci informa che “Siano deboli o siano forti [le strutture tradizionali della contrattazione collettiva n.d.r], resta il fatto che in Italia esse non sono state capaci di garantire tra il 1991 e il 2022 quella crescita dei salari reali che nella media dei Paesi dell’OECD ha raggiunto il 32,5%, mentre in Italia si è fermata all’1% (figura 1.8). L’estesa copertura della contrattazione collettiva nel nostro Paese non impedisce, peraltro, l’esistenza di frange di lavoratori il cui salario orario sta ben al di sotto dei minimi salariali e non esistono al momento strumenti che garantiscano l‘impossibilità di scendere al di sotto di una soglia minima.”

L’andamento dei salari ci dice molto, quasi tutto, in sintesi della struttura economica e produttiva del nostro paese.

Sempre nella relazione del presidente Sebastiano Fadda (Roma – Palazzo Montecitorio, Sala della Regina 14 dicembre 2023) si afferma di seguito “Il basso livello dei salari riposa su una spirale perversa: bassa produttività bassi salari-bassa produttività. Il tentativo di legare l’aumento dei salari alla crescita della produttività in sede di contrattazione di secondo livello non ha avuto successo a causa della bassa diffusione di quest’ultima, ma anche a causa dell’ambiguità del legame incorporato nel meccanismo ideato.

Infatti, essendo il legame tra dinamica salariale e dinamica della produttività riferito all’incremento di produttività realizzato, la possibilità di mantenere basso il costo del lavoro per unità di prodotto per questa via anche se la produttività non cresce non può certo considerarsi di per sé un incentivo perché le imprese investano in innovazione per aumentare la produttività; una proposta alternativa, avanzata nella letteratura economica, di un più efficace aggancio della dinamica salariale a una sorta di tasso programmato di crescita della produttività non è stata mai presa in considerazione dalle Parti sociali.”

Il tono neutro e pacato di queste affermazioni non nasconde il giudizio per cui almeno negli ultimi 30 anni quella ‘spirale perversa’ ha caratterizzato le trasformazioni del nostro paese, laddove il ceto politico che si è alternato alla guida del paese ne ha assecondato l’andamento, nel quale si è adagiata e formata la classe padronale, con rare eccezioni sul piano settoriale e territoriale se non individuale.

A questi dati generali corrisponde poi un’articolazione territoriale e settoriale della struttura economica e produttiva del paese, una articolazione dei gruppi sociali impiegati nei vari settori, una composizione complessa dei diversi territori nei quali le filiere di attività si intrecciano, tuttavia ciò che colpisce è l’appiattirsi verso il basso di questa composizione sociale, tecnica e politica. La spirale perversa corrisponde anche ad un andare a braccetto tra le scelte padronali, imprenditoriali e la mancanza di conflitto sociale, la quiescenza delle organizzazioni sindacali.

Torniamo all’andamento demografico. Nel rapporto ISTAT leggiamo, quanto segue.

“Nel 2023, a fronte di un incremento della popolazione di cittadinanza straniera (5.307.598 unità, +3,2 per cento rispetto al 2022), si assiste a una riduzione del numero dei nati (50 mila bambini, pari al 13,3 per cento del totale, 3 mila in meno rispetto all’anno precedente).

La ripresa dei movimenti migratori internazionali, già avviatasi nel 2022, è proseguita nel 2023, compensando quasi totalmente il deficit dovuto alla dinamica naturale: le iscrizioni per trasferimento di residenza dall’estero ammontano a 416 mila, in lieve aumento (+1,1 per cento) rispetto al 2022, ma in decisa crescita nei confronti della media dell’ultimo decennio (circa 314 mila l’anno). Anche il rallentamento dei flussi in uscita è proseguito nel 2023: le cancellazioni per l’estero scendono a 142 mila, -5,6 per cento rispetto all’anno precedente e -21,0 per cento sul 2019, anno di picco in cui se ne contarono 180 mila (Figura 1.17, destra).

Diminuisce la fecondità: il numero medio di figli per donna scende da 1,24 nel 2022 a 1,20 nel 2023, avvicinandosi al minimo storico di 1,19 fi gli registrato nel 1995. La fecondità delle italiane è pari a 1,18 figli in media per donna (2022), stesso valore dell’anno precedente; quello delle straniere arriva a 1,86 (era 1,87 nel 2021).”3

È del tutto evidente la funzione dei flussi migratori rispetto ad una popolazione in declino; quei flussi migratori vengono ad essere inseriti ovviamente nella struttura caratterizzata dalla spirale perversa che produce la corsa al ribasso tra salari e produttività. I rapporti sociali di produzione capitalistici del nostro paese collocano schiacciano verso il basso tutti i processi rispetto ad una scala che misuri l’investimento nei processi di innovazione. Una spirale che ruota verso il basso e che si fonda sulla frammentazione sociale, sull’aumento delle diseguaglianze a livello sociale e territoriale, la rimozione di ogni conflitto.

Non ci dobbiamo stupire se questo produce la deriva politica che stiamo conoscendo, per quanto riguarda quella parte degli aventi diritto al voto che ancora vanno a votare, che comprende la crescita dell’astensionismo. I sentimenti che si sono radicati in una parte importante della popolazione, forse la gran parte, sono regressivi e si sono prodotti e radicati in oltre trent’anni di degrado e stagnazione, di perdita di ogni orizzonte di progresso sociale e civile. Le violente oscillazioni politiche degli ultimi anni che hanno visto di volta conquistare la scena elettorale, sono la dimostrazione della perdita di riferimenti politici, di valori condivisi, incarnati in pratiche politiche, in strategie che si aprono a precisi orizzonti, verificati passo dopo passo in conflitti con l’esistente. Si coagula invece una minoranza che nell’assenteismo di circa metà dell’elettorato, quando non è di più in diverse tornate elettorali, si riconosce nella difesa di un esistente a cui si aggrappa, galleggiando sulle miserie altrui, e raggiunge la possibilità di governare. Non è certo un unicum in Europa, il caso più paradossale è quello olandese, dove la difesa di un patrimonio di libertà civile si sposa con i più profondi sentimenti di esclusione, se non di disprezzo e odio, verso i migranti, evidenziando un profilo culturale, l’emergere di un equilibrio emotivo e psichico con cui si affrontano le paure del nuovo millennio, la perdita di un orizzonte condiviso di benessere a livello europeo ed occidentale. Una perdita che, soprattutto a partire dalla crisi del 2008-2011, è passata per le politiche regressive dell’Unione e della BCE.

La traiettoria, le derive delle politiche dell’Unione nel contesto della frammentazione della globalizzazione neoliberista costituiscono il contesto in cui si colloca la traiettoria specifica della formazione sociale italiana, la sua stagnazione progressiva. Di questo abbiamo molto già scritto su questa rivisita, ma forse siamo dentro una nuova fase segnata dalla deriva militare.

A proposito di lavoro e povertà

Il reddito da lavoro ha visto affievolirsi la sua capacità di proteggere individui e famiglie dal disagio economico. Nei 10 anni, l’incidenza di povertà individuale tra gli occupati ha avuto un incremento di 2,7 punti percentuali, passando dal 4,9 per cento nel 2014, al 5,3 per cento nel 2019 fino al 7,6 per cento nel 2023.

Del resto i dati sulla occupazione ci dicono quanto segue.

Il tasso di occupazione tra 15 e 64 anni, secondo i dati della Rilevazione sulle forze di lavoro, nel 2023 è stato del 61,5 per cento, guadagnando 2,4 punti percentuali rispetto al 2019. Nel confronto con le altre maggiori economie europee resta però inferiore di 15,9 punti rispetto alla Germania ed è più basso anche rispetto a quello osservato per Francia e Spagna (-6,9 e -3,9 punti rispettivamente).

(…)

La quota degli occupati part-time (17,6 per cento del totale) è in linea con la media Ue27, superiore a quella di Francia e Spagna (rispettivamente 16,6 per cento e 13,2 per cento) e molto inferiore a quella della Germania (28,8 per cento). Per le donne l’incidenza del part-time è quattro volte superiore a quella degli uomini (rispettivamente 31,4 e 7,4 per cento).

(…)

Nel periodo 2004-2023, la composizione per età dell’occupazione in Italia è strutturalmente cambiata, riflettendo aspetti demografici insieme alla diffusione dell’istruzione terziaria e al prolungamento della vita lavorativa: il saldo osservato (+5,7 per cento) è la sintesi di un calo di oltre due milioni di occupati tra i giovani di 15-34 anni e di un milione tra i 35 e i 49 anni, più che compensato dall’aumento di 4 milioni e mezzo di occupati di oltre 50 anni.

Parlando di povertà.

“Nel 2023 l’incidenza di povertà assoluta in Italia è pari all’8,5 per cento tra le famiglie e al 9,8 per cento tra gli individui. Si raggiungono così livelli mai toccati negli ultimi 10 anni, per un totale di 2 milioni 235 mila famiglie e di 5 milioni 752 mila individui in povertà. L’incidenza di povertà assoluta familiare è più bassa nel Centro (6,8 per cento) e nel Nord (8,0 per cento sia il Nord-ovest sia il Nord-est), e più alta nel Sud (10,2 per cento) e nelle Isole (10,3 per cento). Lo stesso accade per l’incidenza individuale: 8,0 per cento nel Centro, 8,7 nel Nord-est, 9,2 nel Nord-ovest e 12,1 per cento sia nel Sud sia nelle Isole. Nell’arco del decennio considerato, l’incidenza della povertà assoluta a livello familiare è salita dal 6,2 all’8,5 per cento, e quella individuale dal 6,9 al 9,8 per cento. Rispetto al 2014 sono aumentate di 683 mila unità le famiglie in povertà (erano 1 milione e 552 mila) e di circa 1,6 milioni gli individui in povertà (erano 4 milioni e 149 mila). (…)

Nel 2023, 1,3 milioni di minorenni sono in condizioni di povertà assoluta, con un’incidenza del 14,0 per cento. Valori più elevati della media nazionale si registrano anche per i 18-34enni e i 35-44enni (11,9 e 11,8 per cento, rispettivamente). Migliore la situazione per le fasce più anziane: 5,4 per cento per i 65-74enni, 7,0 per cento per gli individui con 75 anni e più. Il capitolo sulla deprivazione materiale e sociale di bambini e ragazzi illustra forse più di ogni altro la pesante ipoteca sul futuro di milioni di persone e   con loro di tutto il paese4. (…)

Operai e assimilati sono l’unico sottogruppo di lavoratori la cui incidenza di povertà è costantemente superiore alla media nazionale, con una differenza rispetto alla media cresciuta di 3,0 punti percentuali tra il 2014 e il 2023 (da 1,8 a 4,8), corrispondente a un aumento dell’incidenza dall’8,7 al 14,6 per cento.”

I dati sulla povertà che il rapporto ISTAT ci consegna non sono certo una novità, ma descrivono in poche cifre una realtà molto cruda che contemporaneamente ci consegna un orizzonte di riscossa che milioni di persone, di donne e uomini possono realizzare con uno spirito di rivolta contro ogni moderatismo.

Un processo di rivolta che attraversi tutta la complessità della formazione sociale, composizione sociale, tecnica e politica estremamente frammentata nel quale tuttavia è possibile riconoscersi nell’oppressione generale di questo modo di produzione, forse, immediatamente nella specifica forma stagnante, sempre più ingiusta e diseguale, che ci opprime. Una rivolta certo contro la miseria e le diseguaglianze, ma per un progetto, tanto più che l’intreccio delle crisi, le transizioni gemelle climatico-energetica e digitale-tecnologica sono destinate a travolgere comunque questo paese, ce ne sono tutti i segni. Se si ha l’ambizione di contribuire in un modo o in un altro a questa rivolta tocca esserne all’altezza.

La guerra ancora una volta la fa da  protagonista nell’intreccio e nella successione delle crisi, nei salti imposti  alle transizioni in corso, innerva  competizioni e conflitto della globalizzazione frammentata, attraverso la quale si afferma il  mutarsi del rapporto di capitale; tuttavia è difficile opporsi radicalmente alla militarizzazione crescente dei processi di trasformazione senza una rivolta sociale che attraversi tutte le formazioni sociali che si si dispongono variamente lungo d le linee di fratture dei conflitti attivi e potenziali.

Una riedizione necessaria che attualizzi il vecchio motto di ‘trasformare la guerra imperialista in guerra civile’, infatti è ben difficile che -come oggi si usa dire- la ‘guerra alla guerra’ senza il conflitto sociale si accenda e si estenda e attraversi i confini  tra le democrature e delle autocrazie, tutte indistintamente.

Roberto Rosso

  1. https://transform-italia.it/ribellarsi-e-giusto-buon-primo-maggio/ []
  2. https://www.inapp.gov.it/pubblicazioni/rapporto/edizioni-pubblicate/rapporto-inapp-2023[]
  3. La nota esplicativa  nel rapporto spiega “Il calo delle nascite è infatti in larga parte determinato dai mutamenti strutturali della popolazione femminile nelle età convenzionalmente considerate riproduttive (15-49 anni). In questa fascia di popolazione le donne sono sempre meno numerose e hanno una struttura per età “più invecchiata”. La popolazione femminile tra 15 e 49 anni al 1° gennaio 2024 è infatti scesa a 11,5 milioni, dai 13,4 nel 2014 e 13,8 nel 2004 (2,2 milioni di donne in meno in vent’anni). Meno donne in età feconda comportano inevitabilmente meno fi gli. Anche la popolazione maschile di pari età è diminuita da 13,9 milioni di individui nel 2004 a 13,5 nel 2014, fi no agli odierni 12 milioni (cfr. Istat, 2023).[]
  4. Come già rilevato, i minorenni sono la fascia di popolazione con la più alta incidenza di povertà assoluta. Questo è vero per l’intera serie storica che abbiamo analizzato in precedenza, e il distacco con le altre fasce di età si è addirittura aggravato tra il 2014 e il 2023 (da 2,5 a 4,1 punti percentuali di differenza rispetto alla media nazionale).

    Inoltre, la situazione è particolarmente grave per i minori stranieri, tra i quali, sui dati provvisori del 2023, l’incidenza della povertà assoluta è pari al 43,7 per cento, contro un’incidenza del 9,7 per cento tra i minori italiani.

    L’incremento del disagio economico per bambini e ragazzi, oltre a compromettere il benessere psico-fisico, può pregiudicarne le opportunità future, con ritardi difficilmente colmabili e un impatto duraturo sulle disuguaglianze socio-economiche, educative e territoriali.

    In questa prospettiva, la povertà, oltre che in termini di reddito e consumi, si manifesta anche in un limitato accesso a diverse opportunità di vita. (…)

    Osservando singolarmente le diverse dimensioni di deprivazione riassunte dall’indice, si nota che nel nostro Paese i bisogni di base di molti bambini non vengono pienamente soddisfatti: il 16,9 per cento dei minori non si può permettere “una settimana di vacanza all’anno lontano da casa” per motivi economici; sempre per una mancata disponibilità economica, il 9,1 per cento del totale dei minori non può svolgere regolarmente “attività di svago fuori casa a pagamento”, valore che triplica nel caso dei minori stranieri. Per questi ultimi si segnala inoltre che il 16,5 per cento non si può permettere di “invitare gli amici per giocare”. Poiché vivere in un contesto di scarse relazioni sociali contribuisce ad alimentare le difficoltà emotivo-comportamentali, questi risultati segnalano
    la necessità di adeguate politiche di sostegno e integrazione per le famiglie di stranieri con minori []

migranti, povertà, produttività, salario reale
Articolo precedente
La fine della globalizzazione neoliberista: gli Stati Uniti sono ormai protezionisti
Articolo successivo
Il futuro della Slovacchia in bilico

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.