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Cronache dal Chiapas

di Roberto
di Matteo

di Roberto di Matteo (fotografie dell’autore)-

Era il 1° gennaio del 1994 quando l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, dal municipio occupato di San Cristobal de las Casas, dichiarò guerra allo stato messicano al grido di “Democracia, justicia y libertad”. All’epoca non c’era internet, non c’erano i tam tam su Facebook e neanche i cinguettii di Twitter. Eppure quel movimento di contadini indigeni che si ribellava a denti stretti contro l’oppressione neoliberista e contro le imposizioni dettate dal capitalismo sfrenato, riuscì inaspettatamente a diventar virale. La voce di quell’uomo in passamontagna che aveva osato imbracciare le armi per denunciare i soprusi e le violenze ai danni delle popolazioni indigene del Chiapas divenne la voce di tutti gli oppressi. Nelle università iniziarono a circolare opuscoletti con le dichiarazioni del subcomandante, durante le manifestazioni di piazza la stella rossa dell’EZLN era un simbolo onnipresente e anche i testi delle canzoni vennero contaminati dalle gesta di quel movimento rivoluzionario, sorto dalla terra per difendere gli ultimi. In breve lo zapatismo si trasformò in un punto di riferimento per i popoli in lotta gettando i germogli di quelli che in futuro sarebbero stati i movimenti No Global di tutto il mondo.

Oggi, a 25 anni di distanza dalla “Primera Declaración de la Selva Lacandona” molti passaggi cruciali hanno segnato la storia del movimento, che si è consolidato, si è esteso, si è radicato, si è ammorbidito e, suo malgrado, si è pure globalizzato. Infatti, anche se lo zapatismo non ha più l’appeal di un tempo, in Chiapas i guerriglieri continuano a combattere una guerra quotidiana contro i mali del nostro tempo. I caracoles sono oramai delle realtà autonome ben note e produttive, strutturate e disciplinate secondo i valori di democrazia, giustizia e libertà. Le convocazioni degli incontri delle “reti d’appoggio al CIG (Consiglio Indigeno di Governo)” raccolgono sempre numerose adesioni da parte di simpatizzanti e attivisti provenienti da tutto il mondo. La cittadina di San Cristobal che fu teatro di violenti scontri oggi vive una stagione di relativa nuova ricchezza legata al turismo e a quelli che i più critici definiscono “los zapatours”, una sorta di gitarelle nel regno dello zapatismo, con tanto di foto, maglietta e souvenir. Lo zapatismo è diventato un brand per gli stessi campesinos che continuano ad indossare il passamontagna nonostante non ce ne sia più bisogno poiché grazie ad esso e a quello che rappresenta riescono a vendere meglio i loro prodotti attraverso i canali equosolidali.

Se ve la raccontassi così, sembrerebbe quasi che io voglia descrivere un’oasi di serenità in un deserto di valori, un regno di libertà e progresso strappato alle ingiustizie terrene e poi trasformato in paradiso da un manipolo di valorosi pionieri della libertà. In realtà quel che accade in Chiapas è ben diverso dalla favoletta progressista che potrebbe descrivere il compagno da salotto a caccia di modelli da idolatrare durante una cena a base di sushi. Il Chiapas resta uno degli stati più poveri del Messico, lo zapatismo resta un movimento in guerra contro il governo centrale e, al di fuori di San Cristobal e dei cinque grandi caracoles, circa duemila comunità indigene tzotzil, tzeltal, zoque, tojolabal, chol resistono in condizioni di povertà estrema in uno stato di guerriglia permanete. Queste comunità, nonostante le leggi speciali conquistate in 25 anni di lotte, continuano a subire attacchi da parte dell’esercito nazionale che ciclicamente interviene militarmente per sgomberare le terre occupate. La resistenza armata è diventata ormai un imperativo di sopravvivenza: lotta o muori. Spesso tornano alla carica anche gli stessi ex proprietari, quasi sempre “gringos”, che organizzano incursioni, avvalendosi dell’ausilio di gruppi paramilitari mercenari. E se questo non bastasse, aggiungeteci i dazi illegali imposti dai sindaci dei paesi vicini, le imboscate, gli omicidi perpetrati dai latifondisti in cerca di nuove terre, gli sconfinamenti, l’odio, il disprezzo e i pregiudizi verso questi popoli che da 500 anni a questa parte irrigano col sangue le terre da cui sono stati cacciati.

Sono stato ospite della comunità di Santo Tomas, cinquecento persone brutalmente scacciate dal municipio di Napité nel 2009 e che, dopo un periodo di nomadismo, si insediarono nel 2010 in un pezzo di terra di circa 200 ettari attraversato da un ruscello nel municipio di Amatenango del Valle.  Qui ho potuto vedere coi miei occhi e mostrare a chi sta leggendo quanto ancora sia lontano, ahimè, il sogno dell’autonomia zapatista.

La giornata inizia ogni mattina col canto del gallo. Gli uomini si riuniscono in assemblea per prendere le decisioni di breve e lungo termine sulle azioni da intraprendere per il bene della comunità. Nel corso di queste di riunioni si decide se accettare o meno un ospite che ha fatto richiesta di visita, si decide la suddivisione dei nuovi terreni da coltivare, si assegnano gli alberi di rovere che verranno poi trasformati in carbone, si decide da chi saranno composte le delegazioni che parteciperanno di volta in volta ai diversi incontri extraterritoriali, si raccolgono i soldi per il fondo cassa in caso di acquisti collettivi, ecc…

Nel campo di Santo Tomas  non ci sono scuole e i bambini crescono senza alcun tipo di educazione: nessuno di loro sa leggere e in pochi sono in grado di parlare lo spagnolo. La lingua di riferimento per loro resta infatti lo Tzeltal, idioma di derivazione maya parlato da appena 400mila persone in tutto il mondo. In alcune comunità con grandi difficoltà sono riuscite ad integrarsi organizzazioni non governative impegnate in programmi di scolarizzazione e sviluppo. Spesso infatti gli indigeni in resistenza rifiutano energicamente gli interventi esterni e in generale qualsiasi tipo di cambiamento. Nei caracoles e nei villaggi più grandi sono state istituite scuole autonome indigene in cui i programmi sono stati disegnati nel rispetto delle culture d’origine.
Nota: il 2 maggio 2014 i paramilitari del CIOAC-H assieme ai commandos statali antisommossa hanno ucciso José Luis Solís Sánchez,noto con l’apodo di Galeano, insegnante indigeno attivo nel Caracol Madre. In suo onore il Subcomandante Marcos ha dichiarato simbolicamente la propria morte, rinascendo subito dopo con il nome Subcomandante Galeano, per ricordare il maestro.

La chiesa, nonostante tutto, resta uno dei punti fermi di ogni villaggio e ogni domenica ci si riunisce per celebrare messa. Nel corso delle funzioni religiose vengono celebrati riti che mostrano evidenti retaggi precolombiani attraverso i quali si chiede a Dio la forza per continuare a resistere, per sconfiggere i nemici, per chiedere alla madre terra di aiutare il mais ed i fagioli a crescere forti e abbondanti. Purtroppo nella comunità di Santo Tomas il responsabile della chiesa è stato assassinato in un’imboscata ad opera di ignoti  nel dicembre del 2017 e da allora, in segno di rispetto, tale carica non è mai stata riassegnata. La famiglia della vittima (moglie e cinque figli), in assenza del capofamiglia, è stata costretta a trasferirsi nella città di San Cristobal dove vive mendicando.

Durante la giornata le principali attività a cui si dedica l’intera popolazione sono l’agricoltura, la produzione di carbone e la caccia di piccola selvaggina (uccelli, scoiattoli, armadilli, ricci di terra). Le tecniche di coltivazione sono antiche: il disboscamento delle aree da seminare viene effettuato a colpi di machete; i terreni non vengono né arati, né concimati e per il ripristino della fertilità viene semplicemente praticato il maggese. I principali prodotti della terra sono il mais ed i fagioli che soddisfano a malapena il fabbisogno alimentare della comunità. Gli unici introiti economici derivano dal carbone che viene venduto a 90 pesos (circa 4 euro) al sacco (circa 20 chilogrammi). Ogni anno durante le riunioni mattutine ad ogni capofamiglia maschio vengono assegnati 5 alberi di rovere che verranno poi abbattuti, segati,tagliati, spaccati, ammucchiati, ricoperti di terra e incendiati seguendo un rituale antichissimo che impegna l’intero nucleo familiare per circa 15/20 giorni a fusto. Il ricavato viene utilizzato per comprare beni di prima necessità quali zucchero, caffè o sapone.

I passamontagna non sono più necessari al fine di nascondere la propria identità ma vengono tutt’ora utilizzati come simbolo di appartenenza al movimento e, molto più banalmente, per riscaldarsi…perché gli inverni sui monti chiapanechi sono piuttosto rigidi.