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Clamore nel silenzio. L’esame di maturità: il clamore di oggi, il silenzio di sempre

di Francesca
Lacaita

Premessa per i non addetti ai lavori. Come da copione a sinistra, anche gli insegnanti, e in generale coloro che si occupano di scuola, di orientamento “progressista”, si dividono in due fazioni che si affrontano su Facebook in cruenti combattimenti verbali – i due schieramenti sono alquanto litigiosi. Semplificando brutalmente proverò a illustrare le rispettive posizioni, chiamando gli uni gli “innovatori” e gli altri i “gentiliani” (senza offesa).
Gli “innovatori” non sono solo insegnanti, ma comprendono anche quanti scrivono di scuola, specie i più famosi. È infatti il loro punto di vista quello che ha più accesso ai media “in quota sinistra”. A loro avviso la scuola, in particolare la secondaria di secondo grado, è cambiata poco rispetto ai tempi della denuncia di don Milani e dei suoi ragazzi di Barbiana, o dalla contestazione del Sessantotto. Permangono le relazioni tra docenti e allievi improntate spesso all’autoritarismo e alla repressione, la centralità del voto numerico, con intenti più o meno selettivi e con l’effetto di accrescere il malessere e la competizione tra gli studenti, un sapere sempre nozionistico e una didattica trasmissiva, che si traduce nella famigerata “lezione frontale”, un corpo insegnante perlopiù demotivato e soprattutto mal preparato dal punto di vista psicopedagogico, poco empatico o accogliente, il cui “arbitrio” va controllato e limitato, in attesa di un’adeguata selezione in entrata. Gli “innovatori” salutano quindi tutto quanto miri a svecchiare la scuola. Come i nuovi approcci didattici (dalla flipped classroom o “classe rovesciata” al cooperative learning, o “apprendimento cooperativo”, passando per la “didattica laboratoriale”, per citarne solo tre), la “didattica per competenze”, in luogo delle tradizionali “conoscenze”, e le nuove tecnologie, per rendere le lezioni più stimolanti e avvincenti per i ragazzi d’oggi. Il mondo di fuori deve entrare il più possibile nelle quattro mura scolastiche, inclusa l’“alternanza scuola lavoro”, tanto più che ora si chiama Percorsi e competenze trasversali per l’orientamento (PCTO), che ha in parte perso la sua connessione originaria con il lavoro, quantomeno per i licei.
I “gentiliani”, praticamente solo insegnanti, pensano per contro che la scuola stia cambiando, e in peggio. Denunciano il ruolo che la retorica delle “innovazioni”, tecnologiche e didattiche, ha avuto nella mortificazione della scuola pubblica (la “scuola della Costituzione”) e nell’affermazione di una visione neoliberale della scuola – ossia una scuola povera di contenuti, subordinata all’ideologia e agli interessi dei detentori del potere economico, priva di spirito critico, e prigioniera in un piccolo, ristretto presente. L’INVALSI e il PCTO sono per i “gentiliani” l’esempio più lampante di questa trasformazione in senso neoliberale. La loro resistenza a questo stato di cose passa per la valorizzazione dei contenuti disciplinari e della trasmissione dei medesimi, e una rivalutazione dell’autonomia dei docenti in quanto lavoratori, professionisti e intellettuali, contestando il diffuso stereotipo che li vuole inerti dinosauri eternamente bisognosi di essere formati, aggiornati, modernizzati, illuminati.

La differenza di posizione tra “innovatori” e “gentiliani” balzò in tutta la sua evidenza l’anno scorso, quando ci fu il primo caso di rifiuto di svolgere la prova orale dell’esame di Stato per protesta. Allora si trattava di tre studentesse di un liceo classico di Venezia che contestavano la valutazione a loro parere troppo bassa data alla classe dalla commissaria esterna di greco nella seconda prova scritta. Anche in quel caso le tre ragazze furono ugualmente promosse, avendo già totalizzato oltre 60 punti prima della prova orale. L’allora assessora regionale all’istruzione Elena Donazzan, ora eurodeputata di Fratelli d’Italia, invocò punizioni per quella «disobbedienza» e «provocazione». Su Facebook, gli “innovatori” difesero le studentesse, lodando la loro protesta e il loro coraggio; i “gentiliani” demistificarono il coraggio di una decisione quando la promozione è assicurata, e ribadirono l’autonomia della commissione d’esame, fondamentale per il mantenimento del valore legale del titolo di studio, che viene già messo in discussione dalla prassi di fare i test di accesso e di ammettere alle università prima ancora del superamento dell’esame di Stato.

Quest’anno sono quattro gli studenti che hanno deciso di non sostenere la prova orale. Le motivazioni vanno oltre il fatto contingente di una valutazione contestata e investono il sistema dei voti in generale, l’assenza di empatia con gli insegnanti, e il clima di competizione vigente nelle scuole. A difesa dei ragazzi sono intervenuti Marco Rovelli sul Manifesto del 12 luglio e Tomaso Montanari sul Fatto Quotidiano del giorno dopo. È scontato che le ragioni degli studenti vadano ascoltate con attenzione e rispetto: la scuola o è ascolto e dialogo, o non è. Per contro, la reazione del Ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara è stata pavloviana e caricaturale: a partire dall’anno prossimo chi si rifiuterà di sostenere la prova orale (non quindi chi è vittima del classico “blocco”) sarà automaticamente bocciato – che altra reazione ti puoi aspettare da Valditara? Come se gli studenti non stessero agendo secondo le regole dell’esame stesso, che possono ben apparire macchinose, ma che sono state così concepite proprio per ridurre l’alea dell’esame e l’“arbitrio” dei commissari. Ma in fondo, se io tra credito scolastico e prove scritte ho raggiunto o superato il minimo per essere promossa, e per qualsiasi ragione mi accontento di un voto basso, magari perché sono già stata ammessa all’università, o magari perché non potrò comunque raggiungere un ottimo voto, e per qualsiasi ragione, non necessariamente per protesta, scelgo di fare scena muta alla prova orale, che cosa importa al Valditara di turno? È chiaramente l’atto stesso della scelta – peraltro razionale, peraltro compiuta da adulti, in quanto l’esame di Stato in Italia si sostiene da maggiorenni, a meno di non essere studenti fortemente anticipatari – l’espressione stessa del dissenso a sollecitare una risposta così autoritaria, repressiva e nelle sue implicazioni pericolosa, che smentisce tutte le chiacchiere liberali sulla libertà di scelta (inutile dire che per l’occasione chi si definisce liberale sta zitto, o appoggia Valditara). Dovremmo essere tutti consapevoli delle affinità profonde tra questa misura e i decreti sicurezza, e opporci collettivamente. Ma non lo faremo, temo.

I “gentiliani” su Facebook possono ben apparire antipatici, o poco empatici, nella loro freddezza verso i “ribelli” della maturità. È certamente ingiusto il post di qualcuno di loro, che diceva che avrebbe voluto vedere un boicottaggio collettivo delle prove INVALSI (lo svolgimento delle quali è ora una delle condizioni per essere ammessi all’esame di Stato), allora sì che sarebbe stata una protesta degna, altro che queste contestazioni con tanto di rete di protezione e magari già in tasca l’ammissione all’università. Abbi pazienza, collega: se insegnanti di ruolo, iscritti ai sindacati e magari prossimi alla pensione, non riescono a organizzare il boicottaggio delle prove INVALSI, perché dovrebbero farlo gli studenti? In realtà, le rivendicazioni di questi ultimi appaiono ai “gentiliani” di fatto funzionali alle logiche dominanti che mirano a depotenziare l’esame di Stato e il valore legale del titolo di studio. Prendiamo ad esempio la ragazza che ha protestato contro la centralità del voto e il disinteresse riguardo a “la vera me”. Posto che, se le cose stanno realmente così, è davvero terribile che la scuola non sia stata in grado di comunicare e trasmettere altro, la domanda da porsi è: come si esprime “la vera me”? Si può esprimere quando mi brillano gli occhi, mentre commento una poesia, illustro una formula di fisica, o discuto della Resistenza Partigiana, a seconda delle mie attitudini o dei miei interessi. Oppure si può esprimere nel “capolavoro” (si chiama proprio così), un documento che dovrebbe esprimere il meglio dello studente, e che proprio quest’anno non è stato posto all’attenzione della commissione d’esame (ma che rimane comunque nell’e-portfolio dei candidati, non accessibile alla commissione), o nel “curriculum dello studente”, che registra certificazioni ed esperienze varie – quanto già rivela la differenza di risorse a disposizione degli studenti prima ancora che aprano bocca all’esame, o nella capacità di “sapersi vendere” come in un colloquio di lavoro. A differenza forse di qualche “gentiliano”, io non mi aspetto una risposta da una ragazza di diciannove anni, cresciuta in un’epoca di totale spoliticizzazione e di deserto pubblico, in cui la cura del benessere individuale è l’unica risposta a un disagio che ha invece origini sociali. Ma chi ha diversi anni in più, e sta nella scuola, dovrebbe farsi queste domande, e magari darsi delle risposte.

Tradizionalmente la scuola italiana non coltivava la competizione. L’assimilazione dei contenuti, quando andava oltre il mero esercizio mnemonico e nozionistico, era orientata alla costruzione della propria visione del mondo – una conoscenza ovviamente limitata e parziale, ma che promuoveva uno sguardo critico sulle cose. Tutto questo è passato in secondo piano rispetto all’imperativo di accumulare certificazioni ed esperienze che “fanno curriculum”. Ascoltare le proprie reazioni, riflettere su quanto si è imparato diventa la tipica perdita di tempo, anche e soprattutto per le “eccellenze” nelle “scuole di eccellenza” (tale è la newspeak neoliberale di oggi). Ma se i contenuti diventano impalpabili ed evanescenti, e soprattutto uno strumento per raggiungere le vette più alte rappresentate dall’agognato voto, diventa difficile sottrarsi alle pressioni della competizione o guardare oltre la propria situazione personale, oltre il proprio presente.

Ricapitolando e concludendo. Quattro studenti contestano le modalità dell’esame di Stato esprimendo scontento per come si è svolta la loro esperienza scolastica o per l’esame stesso. Prevedibile clamore mediatico, con l’ancor più prevedibile reazione del ministro. Nel frattempo che dire, che fare? Cosa pensano gli altri studenti, a cominciare da quelli degli istituti tecnici e professionali che sono sostanzialmente scomparsi dall’attenzione generale, tranne quando rimangono vittime di infortuni durante i PCTO? Come dovrebbe cambiare l’esame? È corretto, ad esempio, che le votazioni acquisite nel triennio da ragazzi in evoluzione concorrano a determinare il 40% del voto finale? Quali alternative trovare al voto numerico che non siano semplici camuffamenti, in un sistema di istruzione internazionalizzato che si basa proprio su classifiche e classificazioni? A sinistra si pensa ancora che valga la pena difendere il valore legale del titolo di studio, e con quali argomenti? Silenzio.

C’erano una volta i pedagogisti, che da sinistra contribuivano ad animare una conversazione pubblica sulla scuola mettendo in primo piano la situazione e le esigenze dei più svantaggiati, evidenziando le connessioni tra la scuola e l’intera società, e trasmettendo una visione di cambiamento globale. La scuola frammentata di oggi riflette la frammentazione dello spazio pubblico nella nostra società neoliberale. L’effimero clamore mediatico intorno agli esami di Stato e gli scontri su Facebook tra “innovatori” e “gentiliani” riflettono il silenzio e il deserto di idee sulla scuola nella sinistra e nella società di oggi.

Francesca Lacaita

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