articoli, recensioni

Cartagloria, o delle carte di una spiritualità fuori luogo

di Paola
Guazzo

Difficile trovare, nella letteratura contemporanea, testi scritti da donne che articolino il rapporto complesso con quella che in termini forse new age potremmo chiamare “spiritualità”. Forse le ombre novecentesche di Flannery O’Connor, della filosofia intensa e frammentaria di Simone Weil o delle estasi di Virginia Woolf in The waves, bloccano nuove espressioni non consuete o didascaliche, catechistiche. Esiste però una felice eccezione: Rosa Matteucci, scrittrice orvietina-genovese della quale è appena uscito Cartagloria (Adelphi). In tutti i romanzi di Matteucci, da Lourdes (1998) a Costellazione familiare (2016) è il rapporto con il sacro a irrompere. Non è un sacro tranquillizzante, è il sacer di spazi intoccabili, invisibili a occhi abituati a razionalità cognitive quotidiane, è ciò che perturba e anche spaventa. Derive abissali nella superficie della vita e dei gesti, glifi del passato teocratico europeo che emergono come teratomi sottopelle e devastano ogni fittizia allure, come ne I Capricci di Goya, infinità e dismisure gotiche che si spostano verso un Novecento perturbante, ancorato ad una coazione a ripetere che rimanda ai “romanzi” (definizione impropria) di Thomas Bernhard e a un plurilinguismo ironico che può rimandare a Gadda, o forse ancor di più al meno conosciuto Faldella. 

“Il piccolo medaglione ottagonale custodiva un frammento di osso dei Re Magi (…) quello rettangolare, dieci centimetri di capello castano munito di bulbo attribuito a Santa Bernadetta, reliquia rarissima, perché reliquie di prima classe di Bernadette Soubirous non ne esistono; in una capsula ovoidale, una scheggia di dente di San Giuseppe, senza specifica, tuttavia, di quale Giuseppe: sul cartiglio di leggeva S.Josepho. In uno speciale astuccio con fiinestrino ovale, delle dimensioni di un hamburger industriale, una sorta di lava pietrificata, reliquia dei genitori di Santa Teresina del Bambin Gesù, di cui nessuno volle spiegarmi la natura e quindi la dignità reliquiaria. Un giorno mia sorella mi sussurrò che si trattava di un cervello.” Non c’era bisogno di riscoprire il genere weird ( quello di Poe e Lovecraft, per intenderci) in articolati romanzi postmoderni: la narrativa del tentacolo, secondo la definizione di China Mieville, si può annidare già in un nostrano reliquiario di famiglia. Evidente anche l’ironia, che rende Matteucci refrattaria ai generi letterari commerciali. Si annida in ogni pagina la possibilità di un’estasi batailliana per intercessione di scrittrice: estasi negativa, estasi del riso, non estasi religiosa canonica, bensì sospensione di senso nel riso che sbriciola ogni luogo comune. Una prospettiva anche pericolosa, se vogliamo, ma sfida necessaria a una scrittura che non voglia essere solo vizio letterario ambientale. Non ci sono finzioni autobiografiche, nei libri di Matteucci, semmai uno spietato sguardo che riduce ogni infingimento narcisistico a livelli inferiori allo zero. Né esiste redenzione o fede che possa essere assunta come credo. Impera una distanza kierkegaardiana da Dio, fra timore e tremore, dove però a volte può apparire un femminile salvifico. 

Va letta come una tappa in divenire anche – dopo orientalismi, viaggi in India e a Lourdes ed esorcismi con un prete che sciorina opuscoli del tipo Doveri della donna verso suo marito disgustato sessualmente da lei all’epoca di Internet e dei social – la partecipazione alla Messa tridentina nella Basilica di Santo Stefano a Genova, drammatica e nel contempo esilarante, costellata di comparse weird: “All’ Orate, fratres d’un tratto si ode un boato, seguito da un boato di vetri infranti: uno dei finestroni dell’abside è andato in pezzi. Una pioggia di schegge cade dietro l’altare, e per un istante tutto si ferma (…). Le devote greco ortodosse, abbandonati i loro cartocci di cibo e le loro icone si affacciano sulla navata centrale, lanciando sguardi complessi, confabulano. (…) Le ucraine si ritirano nella navata di sinistra dove riprendono a srotolare e riarrotolare le icone masticando ciambelle glassate.” O ancora: Appena mi alzo, scorgo con la coda dell’occhio la gambona dalla groppa di cheratina che si alza a sua volta e si piazza al posto di dov’era seduta la signora color fucsia, ormai scomparsa per sempre per un calice di prosecco e una ciotola di olive. Ma non avrò requie: oggi, domenica di settuagesima, l’ignota cucaracha umana cambia di nuovo posto, avanzando anche lei di due file di banchi e piazzandosi ancora una volta dietro di me.” 

Scrittrice di ossimori viventi, di schegge impazzite, Matteucci sembra talora avvicinarsi a una perversa genuflessione conservatrice, poi rovesciata in ironica rappresentazione di sé. In hoc signo vinces? No. La cartagloria ( tabella posta sull’altare per ricordare al sacerdote le formule della messa in latino) è segno di una messa in scena ben articolata e soddisfacente per un periodo transitorio. Resta il circolo vizioso di una ricerca che si avvoltola su se stessa: il messaggio non è quindi quello dell’ideologia neofondamentalista, semmai un prezioso antidoto contro di essa. Tra un padre militare, storicizzato in modo comico-realistico, reso mero sfoggio di mostrine imperial-regie e brachette oviesse in battaglie storiche e una madre bellissima, ironica ed assente (anche un po’ sadica), resta solo, infine, per Rosa Matteucci, essere “amica di Maria”? Può darsi. Come in tutti gli altri lavori della scrittrice l’esito è quello dell’apertura a una pietas mariana non consolidata nelle forme di culti canonici, bensì epifanica, vicina al percorso del sé: non è più una mater tenebrarum colei che schiude il passaggio verso il reale. 

Paola Guazzo

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