Nel pensiero collettivo, complice una mancata informazione, prevale una curiosa confusione. Da una parte quando si vede una persona che proviene da Paesi non UE, soprattutto se il colore della pelle o la lingua denotano differenze e distanze rispetto all’italiana/o medio, si parte dalla domanda “da dove vieni?”. Dando per implicito che non si è cittadine/i Doc. Dall’altra, contemporaneamente, quasi denotando una schizofrenia cognitiva, si pensa – per ignoranza dell’apparato legislativo – che soprattutto chi è nato in questo paese ne sia automaticamente cittadino. Questo fa si che il dibattito che recentemente si è riaperto sulla cittadinanza, complici le medaglie ottenute ai Giochi Olimpici, in gran parte provenienti da atlete/i che hanno acquisito la cittadinanza seguendo gli irti percorsi della legge in materia, ha ripreso parzialmente vigore. Utile allora partire dai fatti concreti.
In Italia il tema è affrontato con la legge 91 del 1992, peggiorata con i decreti Salvini, una normativa che ci pone al quattordicesimo posto fra i 27 Stati UE (metà classifica), ma al tredicesimo su 14 se si non si considerano i Paesi entrati più tardi nell’Unione dell’Est Europeo. E anche qui una premessa è necessaria. Se nei paesi anglosassoni e del continente americano è forte l’approccio dello “ius soli”, cittadinanza di suolo (se nasci in un paese ne sei cittadino) in Europa si passa dallo ius sanguinis (diritto di sangue), si è cittadini se si è nati da almeno un genitore con cittadinanza italiana, allo ius “soli temperato” che, in forme diverse si applica attualmente in 8 Paesi: Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Belgio, Grecia, Olanda e Irlanda. In Portogallo è sufficiente, per spiegarsi meglio, che genitori risiedano regolarmente da almeno due anni nel Paese perché la prole ottenga tale diritto, in Germania, Germania, un bambino acquisisce la cittadinanza tedesca alla nascita solo se almeno uno dei due genitori ha un permesso di soggiorno permanente (da almeno tre anni) ed entrambi i genitori risiedono in Germania da almeno otto anni. Ma gli anni si ridurranno a cinque non appena entrerà in vigore la riforma della cittadinanza approvata a gennaio per attirare più lavoratori qualificati nel paese. Secondo la nuova legge, il bambino nato sul suolo tedesco otterrà automaticamente la cittadinanza tedesca, senza dover rinunciare a quella dei genitori, come avviene ancora oggi. E se dalla Francia si annunciano politiche più restrittive, si parla di miglioramento per l’accesso a tale status in Grecia mentre in Irlanda è già in vigore la norma che se almeno uno dei due genitori è regolarmente residente da 3 anni i figli possono scegliere di divenire irlandesi. Ogni Stato poi si regola secondo propri canoni, l’Italia, al contrario di quanto spesso si pensa è in condizioni di arretratezza determinate dalla legge che regola tale diritto, come si diceva all’inizio, arretrata, fallimentare e che non tiene conto di quanto accaduto negli ultimi 32 anni. Il testo in vigore prevede che si possa richiedere di divenire italiani dopo almeno 10 anni di permanenza regolare ininterrotta con il corollario di: residenza stabile, reddito al di sopra dell’assegno sociale, assenza di qualsiasi condanna anche in primo grado, conoscenza della lingua italiana a livello B1 da certificare. Presentata la domanda, il cui costo è stato raddoppiato passando da 250 a 500 euro, c’è da attendere che il ministero dell’Interno, con i propri organismi territoriali, le prefetture, analizzino le singole domande che possono essere anche rigettate in base a decisioni unilaterali. Fino a qualche anno fa i tempi di attesa per una risposta, dopo i 10 anni già citati, variavano fra i 2 e i 3 anni, dopo che, nel 2018 le leggi sicurezza di Salvini hanno reso più complesso il percorso, si passa dai 4 ai 5 anni, con la consapevolezza che tale diritto acquisito può anche essere revocato. Per chi è nata/o in Italia o vi è giunto avendo meno di 12 anni, c’è la possibilità di chiedere la cittadinanza al compimento del diciottesimo anno, entro e non oltre un anno, senza essersi mai allontanati dal Paese. Una banalità, attraverso queste limitazioni, molte ragazze e ragazzi, figli di genitori immigrati, sono costretti a rinunciare, se svolte all’estero, anche alle classiche gite di classe. Esistono poi altre limitate possibilità: il matrimonio con cittadina/o italiana/o, permette l’acquisizione di tale diritto 3 anni dopo le nozze, ma si sappia che per “contrastare le nozze di comodo”, la coppia rischia di essere, in quei 3 anni sottoposta a controlli invasivi. La presenza di figli può dimezzare i tempi ma, in ultima istanza questi sono definiti dalla locale prefettura. Coloro che hanno ottenuto lo status di rifugiata/o possono chiedere la cittadinanza dopo 5 anni, a meno che non siano cessate le condizioni che hanno permesso l’ottenimento dell’asilo e dovendo ottenere documentazioni reperibili unicamente attraverso l’ambasciata del Paese da cui si è fuggiti. Come ottenere altrimenti attestazione che dimostri come non si sia contratto precedentemente matrimonio nel paese di origine? Esistono poi i percorsi premiali, atti di eroismo civile, servizio per 5 anni nella pubblica amministrazione e, come si diceva all’inizio, meriti sportivi.
Dati gli equilibri parlamentari e gli eterni tentennamenti del centro sinistra, oggi a poter decidere i limiti di una riforma sono le sensibilità centriste e moderate presenti anche in Forza Italia ma persino nella Lega. Si sta ragionando su 2 proposte: dare la cittadinanza italiana quando una bambina o un bambino hanno terminato due cicli scolastici (quindi a 14 anni d’età) oppure al termine della scuola dell’obbligo, cioè ai 16 anni. Una riunione è già convocata per i primi di settembre. Si tratta del cosiddetto “ius scholae” in cui si trasforma, per garantire una riforma, un diritto costituzionale valido per chiunque, quello della scuola del poter frequentare la scuola dell’obbligo, nell’obbligo a frequentare la scuola come unico passe-partout. Se il percorso dovesse proseguire, assisteremo certamente ad ulteriori limitazioni: condizioni dei genitori, reddito, successo scolastico, sempre più nell’ottica di voler trasformare ciò che dovrebbe essere un diritto in un privilegio da conquistarsi. Ma c’è da interrogarsi sul passato per capire il presente.
La legge 91 del 1992 non incontrò grosse resistenze ad essere approvata. Si era in piena “crisi Albania” e si voleva impedire che troppi profughi albanesi divenissero italiani. Negli anni successivi solo da Rifondazione Comunista giunsero proposte di riforma di tale normativa vessatoria ma non vennero nemmeno prese in considerazione. Allora non si parlava solo dei minori ma anche degli adulti, la maggior parte, che da questo dibattito agostano e non solo sono esclusi.
Con l’aumento della presenza di cittadine e cittadini immigrati regolarmente registrati e attivi nel mondo del lavoro, il tema tornò a porsi, l’obiettivo, nei primi anni Duemila, era almeno quello di dimezzare i tempi di attesa per poter richiedere la cittadinanza (da 10 a 5 anni) diminuendo gli ostacoli burocratici. Ma il vero grande errore commesso, che avrebbe facilitato il raggiungimento di tale obiettivo, era stato commesso fra il 1992 e il 1996. Nel 1992 venne emanata in sede UE, la Convenzione di Strasburgo, per favorire la partecipazione alla vita politica e sociale delle persone immigrate, nel vecchio continente. L’Italia decise di non ratificarne una parte, il Capitolo C che all’Articolo 6 prevedeva che, dopo un periodo definito di permanenza in uno Stato membro dell’UE, si aveva il diritto di voto attivo e passivo per le elezioni amministrative. Questa non ratifica impedì di fatto che nelle regioni, soprattutto del Nord, dove la presenza di persone straniere era in percentuale a doppia cifra, venisse garantito a chi permaneva un potere contrattuale politico che avrebbe, ad avviso di chi scrive, destabilizzato le forze xenofobe. Anche queste sarebbero state costrette a garantire migliori condizioni di vita e meno ostacoli alla coesistenza per ottenere una parte di quei voti. Non c’è stata lungimiranza per giungere a tale risultato. Nel 2011, su iniziativa di un vasto mondo associativo, dalle Acli all’Arci, alla Cgil, ad alcune forze politiche, partì una raccolta firme per due leggi di iniziativa popolare che avevano due obiettivi: la prima, la possibilità di rendere molto più breve – nel testo non era indicato – il periodo minimo di permanenza per ottenere la cittadinanza, la seconda per ratificare il già citato Capitolo C della Convenzione di Strasburgo. Si raccolsero complessivamente oltre 200 mila firme. La seconda proposta venne immediatamente cassata, sulla prima si cominciò a lavorare per limitarne gli effetti. Intanto fuori da ogni riforma gli adulti – col tempo sarebbero potuti divenire cittadini – centrando tutto sulle/i minori. Nel 2015 approdò alla Camera un disegno di legge basato sullo Ius Culturae, che venne approvato per poi naufragare, a Palazzo Madama nel 2017 grazie alla ritrosia del M5S (in alcuni settori contrario) e all’ignavia del PD. Secondo questo principio ottiene lo status di cittadino italiano il minore nato in Italia o entratovi prima dei dodici anni, al termine di un percorso formativo, con successo, di almeno cinque anni, frequentati regolarmente sul territorio nazionale. Anche in questo caso, il diritto di cittadinanza è subordinato alla residenza legale in Italia e alla regolarità del soggiorno. Addirittura durante il dibattito in Commissione Affari Costituzionali alla Camera, venne introdotta un ulteriore limitazione, proposta dall’onorevole Dorina Bianchi (nota per essere passata indenne fra CCD, Udc, Margherita, Ulivo, PD, Forza Italia, NCD, AP, +Europa, (un premio alla coerenza), per cui lo ius culturae poteva essere applicato soltanto se almeno uno dei due genitori fosse, all’atto della richiesta, in possesso della Carta di soggiorno illimitata. Anche questo documento è difficile da ottenere: occorre un contratto di lavoro o un reddito da lavoro autonomo, la presenza dimostrabile e regolare da almeno 5 anni, una residenza e l’assenza di condanne. Nonostante queste limitazioni si ebbe il coraggio (o la vigliaccheria) di non portare al Senato nemmeno questa proposta minima. Per essere esatti quando il testo giunse a Palazzo Madama, le forze del Centro destra, il M5S e anche parte delle senatrici e dei senatori Pd non si presentarono in aula. Lo ius scholae di cui si riparla dal 2022 è una versione “scolastica dello ius culturae. Prevedeva infatti che potesse diventare cittadino italiano il minore straniero nato in Italia o arrivato entro i 12 anni di età che avesse completato almeno cinque anni di scuola in Italia in uno o più cicli scolastici.
Nell’anno scolastico 2022-2023 c’è stato un incremento del numero totale di studenti con cittadinanza non italiana presenti nelle scuole nazionali: erano 914.860, il 4,9 per cento in più rispetto all’anno precedente. In termini percentuali gli alunni con cittadinanza non italiana sono l’11,2 per cento. Tale aumento non compensa il calo degli studenti con cittadinanza italiana, per cui è diminuito il totale degli studenti di quasi 103 mila unità (-1,2 per cento). Si tratta di dati forniti dal Ministero dell’Istruzione e del Merito. Qualora venisse approvata, così come se ne parla sui media mainstream, la proposta che gode del maggior consenso parlamentare, soltanto un terzo di questi quasi 915 mila supererebbe l’ostacolo, vuoi per condizioni sociali, vuoi per status dei genitori, vuoi per la difficoltà di poter dimostrare di possedere tutti i requisiti richiesti.
Intanto nel Paese, oltre alle cosiddette “seconde generazioni” (termine poco gradito a chi scrive) di atleti da coltivare, sta crescendo in maniera costante e silenziosa, per ora, spesso ignorata dalle forze politiche, una spinta ad ottenere di più, partendo dalla consapevolezza dei propri diritti. Sarebbe il caso che le forze che realmente hanno compreso quanto la società italiana sia cambiata già profondamente al punto da non potersi continuare a rappresentare col suprematismo maschio e bianco, provi ad alzare l’asticella. Lo ius scholae non basta. Occorre di più, occorre una riforma seria della legge sulla cittadinanza, perché no anche passando per un referendum e riportando nel dibattito pubblico questo tema che per chiunque ha governato negli ultimi 30 anni non è mai stato considerato prioritario. Prioritario lo è invece perché privare dei diritti sociali, civili e politici oltre 5 milioni di uomini e donne, in nome della loro provenienza se non del colore della pelle non è soltanto eticamente e politicamente inaccettabile ma è utile unicamente a quella condizione gerarchica della società tale per cui c’è sempre qualcuno in un gradino più in basso con cui prendersela, Non una guerra fra poveri, ma una guerra contro gli ultimi e poi i penultimi, sovradeterminata da chi governa, tanto la produzione materiale quanto l’informazione. Una questione che non è sbagliato definire di classe.
Per giungere all’obiettivo serve anche ribaltare la narrazione non solo leghista e fascistoide. Quando si parlava, nel 2017 di Ius culturae, i seguaci di Salvini lanciavano l’allarme dei barconi carichi di donne pronte a partorire sul sacro suolo italico i propri figli per farli divenire italiani, pur sapendo che chi arriva in Italia, almeno dal 2012 non ha altro obiettivo che cercare di spostarsi in Paesi in cui le prospettive sono maggiori. Oggi al di là delle sparate dei cognati del Primo Ministro che temono la “sostituzione etnica”, è possibile far penetrare messaggi diversi che possono trovare diverse sponde. Dalle atlete e gli atleti olimpici che solo i Vannacci di turno provano ad insultare, alle pubblicità televisive che mostrano una società complessa e pluriculturale perché questa è. Osiamo di più e pretendiamo di più, magari aprendo anche su questo fronte una nuova ampia interlocuzione sui contenuti, fuori dalle aule parlamentari e dalle scadenze elettorali. Si potrebbe ricominciare a ragionare.
Stefano Galieni