Riprendiamo dal numero di settembre della rivista cartacea Critica sociale dal titolo Gaza, pietà l’è morta, l’articolo di Francesca Lacaita (qui il sito della rivista) –
Non sappiamo quale sarà il risultato dei colloqui di agosto avviati da Trump prima con Putin in Alaska, poi con Zelensky e i leader europei a Washington. In ogni caso, le posture e le azioni di tutti gli attori in questo conflitto non inducono certo all’ottimismo. La guerra in Ucraina ha un chiaro valore costituente, nel senso che da essa saranno determinati e condizionati i rapporti di forza, il quadro istituzionale internazionale, le strutture socioculturali del prossimo futuro. E appunto, posture e azioni di tutti gli attori indicano un balzo all’indietro nella storia fino ai primi decenni del secolo scorso, un arretramento plateale in tutto quanto si era imparato a caro prezzo nel corso del Novecento in termini di pace e convivenza. Già sono emerse inquietanti analogie con la Prima guerra mondiale, come la degenerazione di un conflitto iniziato con l’intenzione di chiuderlo entro breve tempo in un’estenuante guerra di logoramento, in cui ogni avanzamento sul terreno è precario e al costo di perdite spropositate di vite umane, senza che si prospetti una via d’uscita, se non il collasso della parte avversa. Ci aspetta anche una nuova edizione del primo dopoguerra? Consideriamo intanto alcune delle involuzioni che si sono manifestate con questo conflitto e che paiono ora accettate dal senso comune. L’elenco è tutt’altro che esaustivo, e intende solo offrire alcuni spunti di riflessione, in questo scorcio di fine estate, sulla nostra condizione presente, e sui modi per reagire nei prossimi mesi. Per non tornare davvero al 1918.
Alla fine di entrambi i conflitti mondiali, una parte rilevante del sentimento popolare e intellettuale si esprimeva nello slogan “Mai più guerre”, e qualcosa in questo senso si è pure cercato di fare, specie dopo il 1945. Oggi, complici soprattutto le guerre “umanitarie” e di “esportazione della democrazia” del periodo successivo alla Guerra fredda, il ricorso alle armi appare scontato, e mostra anzi la volontà di “fare sul serio”, di “tenerci”, e la capacità di “stare al mondo” così com’è. Nel caso dell’Ucraina, è stato Putin il primo a voler mostrare che lui ha la forza e la capacità di fare la guerra. Sbagliano, eccome se sbagliano, quanti sostengono che, a fronte delle umiliazioni, delle provocazioni e dei tentativi di escalation da parte della NATO, la Russia è stata “costretta” a invadere l’Ucraina. Una grande potenza che siede al Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha indubbiamente altri strumenti per rispondere a umiliazioni, provocazioni e tentativi di escalation (che pure ci sono stati)1, che non l’aggressione a un Paese confinante. Se inizia una guerra di aggressione, perdipiù tanto distruttiva quanto quella in Ucraina, è perché intende impostare in tal senso le relazioni internazionali, abbandonando ogni parvenza di diritto e riaffermando i vecchi giochi di dominio, impero, violenza e repressione.
Il che non significa però che il sostegno militare all’Ucraina “sino alla vittoria” comporti il ristabilimento del diritto internazionale, l’eliminazione della minaccia e il conseguimento di una “pace giusta”. L’Ucraina ha ovviamente il diritto all’“autotutela” e alla resistenza. Ma secondo l’art. 2 comma 3 della Carta delle Nazioni Unite, gli Stati membri «devono risolvere le loro controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionale, e la giustizia, non siano messe in pericolo». E in che cosa consistano i “mezzi pacifici” lo specifica in dettaglio l’art. 33: «Le parti di una controversia, la cui continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, devono, anzitutto, perseguirne una soluzione mediante negoziati, inchiesta, mediazione, conciliazione, arbitrato, regolamento giudiziale, ricorso ad organizzazioni od accordi regionali, od altri mezzi pacifici di loro scelta». Non si può certo dire che queste siano state le preoccupazioni principali di chi ha identificato la solidarietà nei confronti del Paese aggredito con l’invio di armi e con il proseguimento del conflitto. Ma in tal modo pure da questa parte ci si è adoperati per svuotare il diritto internazionale e a ribaltare i primi tentativi di ripudio della guerra, come in maniera analoga si riscontra, sul piano nazionale, nell’ormai abituale elusione e relativizzazione dell’art. 11 della Costituzione italiana. Un ulteriore esempio di abbandono della fiducia nell’azione politica e diplomatica a favore di una concezione della sicurezza sostanzialmente militare è costituito dalla recente adesione alla NATO di Finlandia e Svezia, che significa, specie per quest’ultima, la fine di una tradizione secolare di neutralità con capacità di mediazione e di influenza in termini di civiltà e di pace. Ne sentiremo la mancanza.
Del resto, ancor prima che la tragedia di Gaza mettesse a nudo l’ipocrisia e il doppio standard dell’Occidente anche davanti a se stesso, le varie guerre di aggressione iniziate, specie a partire dagli anni Novanta, con apparenti motivazioni umanitarie e democratiche e con esiti devastanti, dagli USA e dai suoi alleati, hanno fatto perdere all’Occidente qualsiasi credibilità riguardo alla difesa del diritto internazionale e dei diritti umani, e per sempre, a meno che non sopraggiunga un chiaro e netto cambiamento di rotta.
Un’altra peculiarità della guerra in Ucraina che ci riporta indietro nel tempo, e che è forse la più preoccupante dal punto di vista del suo valore costituente, è il fatto che, nella prospettiva dei negoziati, si parli sempre e solo di territori e mai della volontà delle popolazioni che vi abitano, riaffermando così la validità esclusiva dei crudi rapporti di forza. Non sarebbe invero impossibile indire referendum sotto l’egida della Nazioni Unite nei territori contesi, partendo dal risultato quale base per le trattative – fatto salvo ovviamente il principio imprescindibile della salvaguardia, garantita dall’ONU, dei diritti di quelle minoranze che si trovassero loro malgrado nel territorio “sbagliato”. Naturalmente privilegiare la volontà delle popolazioni e i diritti delle minoranze presuppone fiducia reciproca, o quantomeno mediatori in grado di crearla e coltivarla. Tale ruolo di mediazione avrebbe potuto intraprenderlo l’Unione Europea o determinati Paesi, se ci fosse stata la volontà politica di sostenere e implementare gli Accordi di Minsk II del 2015, che non prevedevano nessuna cessione territoriale, bensì il riconoscimento della pluralità interna all’Ucraina, invece di considerarli solo un mezzo per guadagnare tempo e meglio preparare l’esercito ucraino allo scontro con la Russia, come hanno successivamente ammesso l’ex cancelliera tedesca Merkel e l’ex presidente francese Hollande, entrambi protagonisti dei negoziati di Minsk2.
E guerra sia. Il conflitto russo-ucraino ha dato ai leader europei l’occasione di scrollarsi di dosso l’immagine “venusiana” appioppata alla “vecchia Europa” da esponenti neocon americani solo una ventina di anni fa. La Lituania ha inaugurato la nuova modalità di relazioni internazionali cancellando una donazione di quasi mezzo milioni di vaccini Pfizer al Bangladesh dopo l’astensione di quest’ultimo su un voto di condanna dell’aggressione russa alle Nazioni Unite. L’invito alla preparedness, a prepararsi a un possibile coinvolgimento bellico, è stato espresso dal ministro degli esteri tedesco, il socialdemocratico Boris Pistorius, che ha invocato un «cambiamento di mentalità», e dal primo ministro polacco, il liberale Donald Tusk, secondo cui la guerra è ben lungi dall’appartenere al passato. In diversi Paesi europei si discute della possibilità di reintrodurre la leva militare obbligatoria; Svezia, Lituania e Lettonia l’hanno già fatto. Nel frattempo gli ucraini combattono e muoiono. Se saranno bravi saranno forse ricompensati con l’entrata nell’Unione Europea, saltando la fila degli altri Paesi candidati all’adesione.
In effetti, questi anni di guerra stanno trasformando la natura della UE. La sua vocazione sembra ora essere quella di una potenza compiacente sì verso gli USA quale partner più forte, pienamente inserita e partecipe nella cosiddetta “seconda guerra fredda”, ma determinata a esercitare una più esplicita e diretta egemonia sulle proprie periferie interne ed esterne (quelle legate ad essa da partenariati e accordi di associazione). Certamente un arretramento rispetto al progetto di una federazione democratica e pacifica, dai rapporti interni paritari, che sembrava ancora possibile qualche decennio fa. In questo contesto, l’Ucraina, tra i Paesi più poveri e periferici d’Europa, indebolito e indebitato per la guerra, non ha molta scelta se non la subordinazione alle potenze egemoni di quell’Occidente a cui aspira (legittimamente) ad agganciarsi. Risuonano quindi di acre ironia i richiami occidentali alla difesa della “sovranità ucraina”.
- Cfr. al riguardo Günter Verheugen e Petra Erler, Der lange Weg zum Krieg. Russland, die Ukraine und der Westen – Eskalation statt Entspannung, München, Heyne Verlag, 2024; Medea Benjamin e Nicolas J. S. Davies, War in Ukraine. Making Sense of a Senseless Conflict, revised and expanded second edition, New York and London, OR Books, 2025.[↩]
- Cfr. M. Benjamin e N. J. S. Davies, War in Ukraine, cit., edizione Kindle, p. 42.[↩]